domenica 22 giugno 2008

Merton, eremita estremo

di Gianfranco Ravasi

II monaco Antonio Montanari ricostruisce la vita del confratello che, dopo varie peripezie, scelse il ritiro in un'abbazia del Kentucky

Thomas Merton. We don't know all the details of the searching at the end of his life»: con questa motivazione precauzionale la Conferenza episcopale statunitense ha preferito rimuovere il profilo di Thomas Merton dal sussidio pastorale del Nuovo catechismo cattolico americano. Ed effettivamente è un atto complesso la decifrazione della fase finale della ricerca personale di questa straordinaria figura di mistico e di scrittore, morto nel 1968 a Bangkok per un banale incidente, dopo aver tenuto una relazione a un convegno di taglio interreligioso.
La sua, d'altronde, era stata un'esistenza originalissima fin dalle sue origini, legate a un padre pittore neozelandese e a una madre pittrice statunitense. Nato in Francia nel 1915, trasferito a un anno nella casa materna americana, orfano a sei anni di madre, condotto dal padre nelle Bermuda, prima, e di nuovo in Francia poi, studente in un liceo francese per due anni ma con la maturità raggiunta in Inghilterra, orfano anche di padre a sedici anni,
Thomas gira per l'Italia, s'iscrive a Cambridge in lingue moderne (francese e italiano), ritorna negli Usa alla Columbia.University ove si laurea. Ma è in quell'anno, il 1938, che avviene una svolta che segna un approdo al suo incessante pellegrinare: riceve, infatti, il battesimo cattolico e tre anni dopo, nel 1941, varca la soglia dell'abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky. Qui inizierà un itinerario spirituale e intellettuale che farà incrociare Merton con le figure più alte della cultura anglosassone di allora e che lo porterà a una scrittura così affascinante e profonda da conquistare una folla di lettori spesso non credenti.
Non per nulla, anche da noi, l'editore che più ha contribuito a far conoscere questo eccezionale autore spirituale è stato il "laico" Garzanti, che ha proposto quasi tutte le sue opere più significative, a partire da quella indimenticabile autobiografia interiore intitolata "La montagna delle sette balze", pubblicata nel 1948 (e tradotta da Garzanti nel 1979 e più volte riedita). Maestro dei novizi che si apprestavano a vivere in pienezza la rigorosa esperienza monastica della "trappa", Thomas Merton sceglieva nell'ultima fase della sua esistenza il sentiero erto e irto dell'eremo assoluto, vivendo in pieno isolamento in una proprietà del monastero, ma anche aprendosi agli orizzonti della spiritualità orientale, soprattutto buddhista.
A ricostruire in modo piano ed essenziale l'avventura intima di questo «viandante di regni» è un monaco, Antonio Montanari, che parla del suo confratello proprio all'interno di un monastero, l'abbazia olivetana di Seregno (Milano), attraverso due conferenze che sono ora pubblicate. Si tratta di parole ancora vive che ripercorrono quel "viaggio" dell'anima, scandendone le tappe e lasciando spesso spazio libero alla voce di padre Thomas che ci ammonisce: «Quelli che sono partiti, portando soltanto ciò che avevano dentro di sé, ottennero un futuro di libertà. Quelli che si attardarono a imballare il passato, non raggiunsero mai il futuro». E sull'esito finale, che per altro ha reso Merton un pioniere del dialogo interreligioso, che cosa propone padre Montanari? Certo è che la ricerca del trappista americano non è riconducibile al recinto modesto del sincretismo che miscela yoga e yogurt, meditazione e fitness, messaggio e massaggio alla New Age.
Nel suo saggio "Mistici e 'maestri Zen" (1967; Garzanti 1992) e nell'opera "Lo Zen e gli uccelli rapaci" (1968; Garzanti 1999) non si è immersi in un entusiasmo frivolo ed eccitato per un orizzonte esotico e simbolico. Egli procede «come pellegrino, desideroso non di raccogliere informazioni o fatti sulle altre tradizioni monastiche, bensì di abbeverarsi alle antiche fonti della concezione e dell'esperienza monastica, per fare di me stesso un monaco migliore e più illuminato». Certo, egli è affascinato dal linguaggio e dalle simbologie Zen ed è disgustato da un'America materialistica e tecnologica, s'azia e ottusa, e da un Occidente troppo razionalista ed egocentrico: «Cartesio ha fatto un feticcio dello specchio nel quale il suo io si ritrovava. Lo Zen lo manda in frantumi», annotava nel "Diario di un testimone colpevole" (1966; Garzanti 1992).
La convinzione che la vita religiosa occidentale si fosse troppo rinsecchita, sino a ridursi a una conchiglia vuota, lo condusse allora al salto di frontiera? Montanari lo nega e lo dimostra attraverso vari rimandi testuali mertoniani, in particolare alla «Lettera circolare agli amici», scritta a Nuova Delhi, un mese prima della morte; raccolta nel postumo "Diario asiatico" (1973; Garzanti 1975): «Possiamo permetterci di rimanere perfettamente fedeli al nostro impegno cristiano e monastico occidentale e nello stesso tempo imparare, in profondità, da una dottrina e da un'esperienza bud-dhista. Io credo che alcuni di noi abbiano bisogno di far questo per elevare il tenore della propria vita monastica, e anche per contribuire all'opera di rinnovamento intrapresa in seno alla Chiesa occidentale». E in quello stesso diario confessava: «Io non penso di separarmi completamente da ,Gethsemani. Là andrò a finire i miei giorni. È il mio monastero, e lo starmene lontano mi ha dato modo di vederlo in un'altra luce e di amarlo di più».
Al profilo essenziale di Thomas Merton tracciato da Antonio Montanari sono allegati in appendice tre testi, tra i quali anche l'omelia dell'abate di Gethsemani per i funerali di padre Louis (tale era il nome da monaco di Thomas). Ma da non perdere per la sua bellezza e intensità è la «Lettera sulla vita contemplativa», scritta frettolosamente in risposta alla richiesta di un «messaggio dei contemplativi al mondo» avanzata da Paolo VI attraverso l'abate del monastero cistercen-sè romano delle Frattocchie. Ecco solo alcunebattute: «Sono stato chiamato a esplorare un'area deserta del cuore dell'uomo in cui le spiegazioni non bastano più, e nella quale si impara che solo l'esperienza conta. Un'arida, oscura, rocciosa zona dell'anima talvolta illuminata da strani fuochi e abitata da spettri, che l'uomo evita accuratamente, tranne che nei suoi incubi. E in quest'area ho imparato che non si può veramente conoscere la speranza se non si è scoperto quanto la speranza sia simile alla disperazione».
Antonio Montanari, «Un viandante di regni. Thomas Merton», Abbazìa San Benedetto, Seregno (Milano), pagg. 108, euro 10,00.

"sole 24 ore" 16 marzo 2008