domenica 22 giugno 2008

C'era una volta il Punjab

A lungo venne chiamato "il granaio dell'India". Lo Stato settentrionale del Punjab, ai confini con il Pakistan, è ricco di terre fertili su cui il subcontinente asiatico ha sempre contato per sfamare i suoi abitanti. Ora il Punjab fa notizia soprattutto per i suicidi dei contadini indebitati, e il dilagare dell'eroina fra i giovani disoccupati.
Proprio mentre il mondo intero s'interroga sulla nuova crisi alimentare che colpisce nazioni povere e meno povere, il Punjab è diventato uno dei laboratori infernali al centro di questa catastrofe. Dalla rivoluzione verde al disastro ambientale: è la parabola drammatica di una regione cruciale per l'autosufficienza alimentare di un miliardo e cento milioni di indiani. La vicenda del Punjab è talmente importante che la Fao e la Banca Mondiale hanno mobilitato 400 esperti, per un'indagine dettagliata sul terreno che è durata tre anni, sotto l'egida dello International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for development (laastd).
Missione: capire perché da un certo momento in poi tutto è andato storto, in quello che sembrava uno Stato-modello per la sua produttività agricola. 1 sintomi sono sotto gli occhi di tutti, e la stampa indiana li denuncia da tempo. Oltre alla spirale dei debiti che spinge i contadini verso il suicìdio o la tossicodipendenzti, altri flagelli colpiscono i! Punjab.
La lista è cosi lunga che sembra un condensato dì tutte le patologie associate all'agricoltura moderna. Intossicazioni dei raccolti per l'eccesso di pesticidi. Siccità. Impoverimento dei suoli dovuto all'aumento delle acque salate. Più le malattie umane legate ai veleni nell'ambiente: come l'aumento esponenziale dei malati di cancro. Dallo studio della Fao e della Banca Mdndiale emerge una ricostruzione precisa delle cause di questo disastro. In un'epoca che ormai ci sembra abbastanza lontana, l'India era ancora un Paese minacciato dalle carestie di massa. La sua agricoltura aveva una produttività bassissima e non garantiva raccolti adeguati per sfamare tutta la popolazione. L'applicazione di metodi scientifici e industriali consentì l'avvio della prima rivoluzione verde quando ancora era premier Indirà Gandhi. Al Punjab venne affidata una missione precisa, nell'interesse nazionale: concentrarsi su due sole colture di prima necessità, cioè il riso e il grano. L'obiettivo strategico era l'autosufficienza, perché l'India non dipendesse più dai capricci dei mercati mondiali o dagli auiti umanitari stranieri. A nulla valsero i moniti dì alcuni esperti, che ricordavano come i terreni abbiano bisogno di diversificare le coltivazioni per mantenere la loro fertilità nel lungo termine. Per anni, del resto, quegli avvertimenti sembrarono troppo pessimisti. Il Punjab manteneva le promesse, e alla grande. La produttività della sua agricoltura cresceva impetuosamente. Lo spettro della fame era sconfitto.
Solo di recente il miracolo è svanito. II campìone-Punjab, stremato dallo sforzo, è sull'orlo del collasso. Le sue acque sono contaminate dai fertilizzanti chimici. I pesticidi sono onnipresenti, se ne ritrovano tracce abbondanti nei terreni, nelle piante e negli animali, i contadini non riescono a pagare le rate di rimborso dei debiti che hanno contratto per investire nei macchinari o nelle nuove sementi geneticamente modificate. I loro figli e nipoti sognano una vita in città, e si rifugiano nella droga quando le aspettative di benessere sono deluse. La Fao e la Banca Mondiale non sono due centri del "sapere alternativo", o due bastioni della battaglia contro gli ogm; né risulta che aderiscano al movimento Slow Food. Eppure i loro esperti sono arrivati a una conclusione radicale: il Punjab è la prova che i metodi industriali applicati all'agricoltura possono portare a un fantastico miglioramento della produttività nel breve termine, seguito da un progressivo deterioramento della qualità dei terreni e quindi da una caduta della stessa produttività. A questo si sommano i danni collaterali che colpiscono il tessuto sociale e umano delle campagne, la qualità della vita, l'ambiente e il paesaggio. Il direttore della squadra di ricercatori internazionali, Robert Watson, ha sintetizzato le conclusioni con toni allarmati: "I metodi applicati negli ultimi decenni diventano impraticabili. Se non cambiamo in profondità il modo in cui coltiviamo, produciamo e distribuiamo gli alimenti, nel prossimo mezzo secolo non sarà possibile sfamare tutta la popolazione mondiale. E per di più renderemo inospitale e inabitabile il pianeta".
federico Rampini - repubblica delle donne 21 GIUGNO 2008