domenica 22 giugno 2008

La rivoluzione chiamata microcredito

Muhammad Yunus è nato nel 1940 a Chittagong, principale porto mercantile del Bengala. Laureato in economia, nel 1977 ha fondato la Grameen Bank, una delle istituzioni più innovative create negli ultimi quarantanni, perché ha, letteralmente, cambiato, e in molti casi salvato, la vita di milioni di persone. La Grameen è un istituto di credito indipendente che pratica il microcredito senza garanzie e che dal Bangladesh si è diffuso in altri 56 Paesi. Yunus ha raccontato parte della sua storia nel libro «II banchiere dei poveri», pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1998 e nel 2006 gli è stato assegnato il Nobel per la pace. Il brano che segue è tratto dal suo ultimo libro, «Un mondo senza povertà», appena tradotto da Feltrinelli.

DI MUHAMMAD YUNUS

La sfida globale che la povertà rappresenta è sotto gli occhi di tutti e all'inizio del nuovo millennio tutte le nazioni hanno cercato di affrontarla. Nel 2000 i governanti di tutto il mondo si sono riuniti all'Onu per impegnarsi, tra l'altro, a ridurre della metà il numero dei poveri entro il 2015. Ma sono passati già sette anni e i risultati sono deludenti, al punto che quasi tutti gli osservatori concordano nel ritenere che gli "Obiettivi di sviluppo del Millennio" non saranno raggiunti. Mi fa piacere sottolineare che in questo panorama il mio Paese, il Bangladesh, rappresenta una felice eccezione: sta operando con continuità nella direzione stabilita e si sta dimostrando in grado di dimezzare il numero di poveri entro il 2015.

Cos'è che non va? Come mai in un mondo in cui l'ideologia liberista non incontra più nessuna reale opposizione non basta il libero mercato a far uscire dalla povertà una parte così grande della popolazione mondiale? E se tante nazioni proseguono senza scosse nel loro cammino verso la prosperità, perché altrettante restano invece sempre più indietro? La spiegazione è molto semplice. Il libero mercato, senza vincoli di sorta, così come è oggi concepito, non è pensato per affrontare i problemi sociali, anzi, può portare ad aggravare povertà, inquinamento e disuguaglianza e a diffondere malattie, corruzione e criminalità. Sono un sostenitore convinto della globalizzazione, perché promuove l'espansione del libero mercato, supera le barriere nazionali con lo sviluppo del commercio intemazionale e della libera circolazione dei capitali, e stimola i governi ad attirare nel proprio Paese le multinazionali offrendo loro infrastnitture per lo sviluppo delle imprese, incentivi all'attività e vantaggi fiscali e normativi.
Come impostazione economica generale, la globalizzazione è in grado, sulla carta, di garantire ai poveri una quantità di benefici superiore a qualsiasi altra strategia. Però, abbandonata a se stessa, in assenza di principi guida e di controlli, può anche essere devastante. Mi piace paragonare il commercio mondiale a un'autostrada con cento corsie che solca la superficie del globo. Ma se questa autostrada rimane senza pedaggio, senza semafori, limiti di velocità, limiti di ingombro e perfino senza le linee di separazione fra le corsie, essa verrà rapidamente occupata dai Tir provenienti dai Paesi con le economie più potenti.
I veicoli più piccoli, come i camioncini dei contadini, i carretti a buoi e i risciò a piedi del Bangladesh saranno inesorabilmente espulsi. (...). Io credo nel libero mercato come fonte di libertà e di nuove idee per tutti, non come strumento della decadente architettura economica progettata per una ristretta elite. In America del Nord, Europa e parte dell'Asia, i Paesi più ricchi hanno potuto trarre enormi benefici dall'energia creativa, dall'efficienza e dal dinamismo generati dal libero mercato.
Io ho speso tutta la mia vita nel cercare di garantire quegli stessi benefici anche agli esseri dimenticati del mondo, a quegli strati estremamente poveri dei quali gli uomini d'affari e gli economisti non tengono mai conto quando parlano di mercati. L'esperienza mi ha insegnato che il libero mercato è uno strumento potente e utile anche per affrontare problemi come la povertà globale o il degrado ambientale, ma solo a patto che non sia posto esclusivamente al servizio degli obiettivi finanziari dei soggetti economici più ricchi.

giulìa.crivell@ilsole,24ore.com
8 maggio 2008