domenica 27 settembre 2009

il fotovoltaico inquina?

dal bollettino del wwf di settembre 2009:


Ciao sono Angela e vi scrivo dalla sezione di Lomellina dove stiamo portando avanti con altre Associazioni e con singoli la battaglia contro la costruzione di una centrale ad olio di palma a Vigevano. Nel dibattito i detrattori del. fotovoltaico e sostenitori di questo impianto, sostengono che lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici creerà un forte impatto ambientale, dicono che il silicio presente nel pannello è fortemente tossico. Potreste farmi saper con una certa urgenza come è la questione: è vero? non è vero?

Le tesi di chi avversa il fotovoltaico sono abbastanza note e appaiono sufficientemente infondate proprio dal punto di vista tecnico.
È evidente che nessuna attività umana possa essere considerata ad impatto zero, ma diversi studi hanno dimostrato come i benefici ambientali di questa tecnologia siano enormemente superiori rispetto ai potenziali effetti negativi (peraltro decisamente limitati). A tale proposito potremmo affermare che non esiste confronto tra fotovoltaico e bioenergìe (di cui l'olio di palma è un esempio). Il fotovoltaico presenta dei bilanci energetici (ma anche ambientali) • nettamente vantaggiosi. Per quanto riguarda le fasi di smaltimento dei pannelli fotovoltaici il problema è già stato affrontato dagli stessi produttori che hanno costituito un apposito consorzio finalizzato proprio al riciclaggio delle diverse componenti degli impianti. Occorre infatti dire che i moduli fotovoltaici sono costituiti da materiali (silicio, vetro, plastica, ecc.) generalmente non pericolosi e prevalentemente riciclabili che è possibile reimpiegare anche nello stesso settore fotovoltaico.
Se visiti il sito http://www.pvcycle.org/ potrai trovare tutta una serie di informazioni utili in proposito e anche qualche studio interessante. Di fronte al devastante impatto di certe fonti di energia (si veda a puro titolo di esempio http://www.greenpeace.org/italy/ufficiostampa/ra pporti/olio-di-palma), appaiono veramente ridicole (oltre che infondate) le accuse mosse contro il fotovoltaico.
SOS tartarughe marine
Ciao, sono socia da molti anni e ho voluto visitare
la splendida isola di Lampedusa anche per vedere
da vicino il vostro lavoro in difesa delle tartarughe
marine.
Sono andata a vedere il nuovo centro di recupero
WWF e avrei voluto dare una mano anche io ai

il pane fatto in casa

conviene fare il pane in casa? Mah!
Dal punto di vista economico, ho seri dubbi. Se si è in molti in famiglia, il forno lo si scalda una volta sola per una quantità di, mettiamo, due chili. Se si è in pochi, si possono fare panini un po' speciali (tipo al finocchio, o con farina più o meno bruna) e metterli nel congelatore. (...)

Il lavoro non è poco; se lo si fa con le "macchine del pane", fanno tutto loro ma la lievitazione è scarsa e il risultato una "cassetta" un pò anonima.
Io sto sperimentando soluzioni "veloci" con un misto tra la miscelazione fatta dalla macchina del pane e la cottura in forno.
Una lezione su come si fa il pane VERO si trova:
http://espresso.repubblica.it/food/dettaglio/pane-il-gusto-di-farlo-a-casa/2110671?ref=rephpsp4

sabato 26 settembre 2009

bauman: se la crisi passa

I centri commerciali sono stati appositamente ridisegnati con l'obiettivo di irretire e sedurre gli "acquirenti accidentali", i "compratori impulsivi": coloro che dopo essere entrati in un negozio per acquistare, diciamo, una nuova pentola con cui sostituirne una vecchia, o semplicemente per fare due passi e ammirare i colori sgargianti della merce esposta, attratti magari dalla musica e da aromi inebrianti, finivano improvvisamente per soccombere di fronte a qualcosa di cui sino a quel momento non immaginavano nemmeno di aver bisogno. E la compravano.

Siamo usciti dalla recessione? E se non ne siamo ancora usciti, manca molto?
Uomini e donne, giovani e anziani se lo domandano ogni giorno -nei Paesi ricchi come in quelli poveri. In realtà le risposte non mancano: a darcele sono gli economisti (che dovrebbero intendersene, non vi pare?), i politici del governo e dell'opposizione, e altri oracoli ufficiali - o che tali si definiscono.
Peccato che con la recente batosta ancora ben impressa nella memoria, siamo ormai consapevoli che le previsioni possono dimostrarsi tanto esatte quanto erronee, e che la linea che separa la fiducia dalla credulità è molto sottile, e non ce modo di sapere in anticipo dove conduce. Non c'è da sorprendersi allora se siamo diventati cauti. "I consumatori", ripetono i giornali, "si dimostrano riluttanti a spendere".
Prima della crisi, per esempio, negli Stati Uniti le spese dei consumatori ammontavano al 70 per cento dell'attività economica complessiva (un dato che si basa sulla quantità di denaro che passa di mano). La quantità di denaro che passava dalle mani dei consumatori a quelle dei rivenditori era quindi enorme; per questo, se anche solo una piccola percentuale di consumatori si rifiuta di spendere il denaro guadagnato - o che spera di guadagnare -, tale comportamento avrà ripercussioni immediate sulle statistiche della "condizione economica", scatenando un nuovo senso di panico, o facendo apparire ancora più remota la possibilità dì emergere dalla situazione causata dalla precedente ondata di panico.
I rivenditori si lamentano in particolare del fatto che i consumatori abbiano perso l'abitudine (acquisita con il tempo) a "comprare di impulso", sulla quale i teorici e gli esperti del marketing facevano il massimo affidamento. I centri commerciali sono stati appositamente ridisegnati con l'obiettivo di irretire e sedurre gli "acquirenti accidentali", i "compratori impulsivi": coloro che dopo essere entrati in un negozio per acquistare, diciamo, una nuova pentola con cui sostituirne una vecchia, o semplicemente per fare due passi e ammirare i colori sgargianti della merce esposta, attratti magari dalla musica e da aromi inebrianti, finivano improvvisamente per soccombere di fronte a qualcosa di cui sino a quel momento non immaginavano nemmeno di aver bisogno. E la compravano. Oggi invece, come spiega rammaricato Pat Bennett, commesso della catena di grandi magazzini Macy's, i clienti arrivano nel negozio annunciando di aver bisogno di "un paio di mutande", dopo di che le comprano e se ne vanno. Non capita più molto spesso di vedere qualcuno che, intento a cercare altro, si innamora di una camicia e decide di comprarla.
Quello di sostituire nei consumatori la vecchia abitudine a comprare qualcosa solo per soddisfare una necessità o placare un desiderio con la tendenza ad acquistare di impulso, sulla scia di un capriccio e in maniera inconsulta, rappresenta di fatto il maggior successo mai messo a segno dell'economia del consumismo dilagante.
È la trovata che ha fatto da volano alla sua espansione. La scomparsa di tale abitudine si tradurrebbe per quella economia in un cataclisma assoluto. Gli acquisti motivati dalla necessità sono - naturalmente - limitati; quelli che nascono dal desiderio richiedono una prolungata, complessa e costosa opera di convincimento/addestramento/persuasione... ma quando si compra per capriccio non esistono limiti. Per lo meno cosi ci sembrava, quando abitavamo in un mondo illusorio dove il credito a disposizione si dilatava inesauribilmente e gli indici dei mercati azionari apparivano in perpetua crescita. Quando cioè, ci sentivamo più ricchi di quanto il nostro reddito lo consentisse, ed eravamo convinti che la pacchia sarebbe andata avanti per sempre.
Un mondo in cui evitavamo la resa dei conti per perseverare in una strategia ispirata al motto "godi adesso, paga dopo"; Be', quel "dopo", il giorno della resa dei conti, alla fine è arrivato. Deve essere stato uno shock. E gli shock causano traumi i cui effetti si protraggono nel tempo più a lungo delle cause che li hanno provocati. La profondità e la durata di un trauma non sono uguali per tutti coloro che lo subiscono. Oggi la maggior parte di noi si dimostra reticente a riprendere quell'incauto comportamento, a spendere denaro che non abbiamo guadagnato.
Ma per tornare alla domanda di quanto a lungo dovremmo attenerci alle sgradevoli limitazioni con cui il destino ha posto fine alla nostra baldoria consumistica, le opinioni sono discordi. In Inghilterra ad esempio, i londinesi sono tre volte più inclini a ritenere che l'economia si stia "aggiustando" e che nel corso del prossimo anno migliorerà, rispetto agli abitanti della zona industriale delle Midlands. Una discrepanza che non stupisce, se si considera che ci è voluto del tempo prima che la recessione si riversasse dalle banche della City alle fabbriche delle Midlands, e che - analogamente - ci vorrà più tempo per allontanarla dalle case degli operai disoccupati di quanto ne sarà necessario per risollevare i dividendi bancari, generosamente sovvenzionati, e i ricavi delle industrie che si rivolgono a un pubblico di ricchi.
Un'altra discrepanza è quella che si coglie tra il modo in cui vecchie e giovani generazioni percepiscono la situazione attuale. Un ultrasessantacinquenne su quattro ritiene che l'economia migliorerà entro il prossimo anno; un'aspettativa che tra coloro che di anni ne hanno trenta è condivisa solo da una persona su venti. Non c'è da sorprendersi: spesso chi ha superato i 65 anni è al di fuori del mercato del lavoro. I più giovani vedono di fronte a sé un futuro costellato da umiliazioni e privazioni, fatto di esclusione, disoccupazione, ristrettezze imposte da lunghi periodi di inattività e interminabili file davanti alle agenzie d'impiego.
Sperano invano che il corso degli eventi si capovolga e permetta loro di riprendere il passo. I più giovani tra i giovani si trovano inoltre ad affrontare per la prima volta il mondo del lavoro. Nulla, nella loro gioventù - trascorsa relativamente serena nel Paese della prosperità - li aveva preparati a questo mercato così inospitale. A chi di anni ne ha anche solo due o tre in più, il mercato era sembrato accessibile, benevolo, ricco di opportunità. Diverso da quello di oggi, dove le offerte sono rare e i rifiuti frequenti; un mercato abituato a dettare le proprie condizioni, avaro di privilegi e prodigo di crudeltà, il cui mutevole andamento distribuisce sciagure con letale equanimità. Le carte si mescolano di continuo, e nessuno può dire come andrà la prossima mano. Se solo riuscissimo a trarre da queste esperienze una lezione capace di illuminarci più in là della prossima capatina al centro commerciale, e più in profondità... Forse riusciremmo a evitare che situazioni simili si ripresentino a noi e ai nostri figli. (Traduzione di Marzia Porta)
Zygmunt Bauman, la repubblica delle donne, 19 SETTEMBRE 2009

Auschwitz: moon boot nell’indicibile

Da Carpi ai lager, un treno di studenti italiani disorientati: «Troppo da ricordare»

Lo chiamano viaggio della memoria, questo che stiamo per fare, e alla stazione di Carpi è tutto un chiedere di ricordare.
Le madri inseguono i figli con gli ultimi promemoria, gli accompagnatori chiedono ai ragazzi se si sono ricordati la coperta per il viaggio. Quando arrivo sono tutti pronti, guanti e cappelli indosso quasi fossimo già in Polonia.

Passo davanti a due ragazzi che mi fanno notare che stanno facendo un'intervista.
Mi scuso. «Cosa ti aspetti da Auschwitz?», chiedono puntando una videocamera su un ragazzo. «La verità», risponde lui. Un suo compagno, pasticciandosi le mani imbarazzato, aggiunge «E però anche un po' di sofferenza».
Poi si fa avanti una ragazza, l'espressione seria: «È un dolore troppo grande perché si possa dire qualcosa. Entrare ad Auschwitz è un'esperienza sconvolgente». I suoi compagni dicono che è vero. Annuiscono, precisano, parlano di «Indicibile».
Dopo aver ascoltato le loro risposte chiedo se ci sono già stati, ad Auschwitz. Mi dicono di no. «E come fate a dire che è sconvolgente?», chiedo. «È la Storia».
Così poi partiamo, dodici vagoni (siamo oltre seicento tra ragazzi e adulti) e ventidue ore davanti. Il viaggio è un andirivieni di ragazzi sul treno, sembra la partenza di una gita.
A dieci minuti dal via sfilano le pizzette, qualcuno si lamenta dei compagni di scompartimento. Lo sparuto gruppo di pensionati presenti si ritira come una tartaruga nello scompartimento. Un ragazzo agguanta la filodiffusione, dice stupidaggini che sentiamo per tutto il treno. E il viaggio se ne va tutto via così, il treno che prima esplode di grida, poi finisce dentro improvvisi laghi di silenzio. Fuori passa l'Austria, e noi le passiamo in mezzo. Poi ci svegliamo con la brina ceca e un attimo dopo è già Polonia.
A Cracovia il treno si ferma, e poco dopo è rimasto vuoto sul binario. Una ragazza mi chiede «Ci andiamo subito, al campo?». Al campo di sterminio di Birkenau ci entriamo senza parlare. I pullman che ci hanno trasportato fin lì sono fermi all'ingresso, spenti. Entriamo così, guardinghi, passiamo sotto la porta del campo e qualcuno si volta indietro, guarda gli altri che sono ancora fuori.
Ci dividono in gruppi, ognuno la sua guida, e il cartello con sopra scritto il numero del pullman, I ragazzi si guardano intorno e non trovano appigli, cercano di far corrispondere quell'erba e quel fango di inizio gennaio con l'indicibile che sta scritto sopra i libri.
Cercano di trovare in quell'erba la Storiar, a follia criminale, il male assoluto, quel baratro del Novecento di cui tutti gli parliamo, di cui provo a dirgli anch'io, senza però trovare parole della giusta taglia. Si voltano di continuo come se avessero perso qualcosa, irrequieti. Hanno in faccia uno smarrimento a metà, la speranza di chi si aspetta che la verità si accenda come un cerino all'improvviso, e insieme la delusione di chi continua a non trovarla. Li guardo, con i loro diciott'anni, schivare le pozzanghere, aggiustarsi il cappello in testa, fare fotografie col telefonino. Ma tutt'intorno a loro ci sono solo erba e fango, erba e fango fin quasi dove si può vedere.
C'è un po' di vento, e ci sono queste povere baracche di mattoni, qualche baracca di legno, qualche camino che dalla terra viene su, mucchi di neve, una manciata di piccoli laghi ghiacciati
Tutt'intorno al campo c'è il filò spinato, c'è il monumento di commemorazione, e in fondo alla strada c'è la torretta che hanno visto sul libro di storia.
Hanno preso alla lettera le indicazioni della Fondazione Fossoli (vestirsi come ci si veste per sciare) e così si aggirano per il campo con i Moon Boot, sembrano paperi teneri e goffi che cercano una strada.
La guida che ci accompagna per il campo di Birkenau ha un amplificatore appeso al collo e un microfono che la fa disperare. Se lo aggiusta, continua a ripetere «Si sente? Si sente?». I ragazzi lo rassicurano, si sente benissimo. Ce n'è uno che mi sta sempre accanto, non mi molla mai. «Tutti dicono che non dobbiamo dimenticare», mi dice. «Ma cos'è che non dobbiamo dimenticare, visto che non lo ricordiamo?». Poi la sera e il gelo arrivano all'improvviso sul campo di Birkenau. Auschwitz II, tecnicamente. Il freddo arrossa le facce, fa notte la vediamo arrivare da lontano.
Oltre il campo si accende tutto, si accende la città che gli sta intorno, i lampioni sulla strada, le finestre sulle facciate delle case. Intorno c'è una città, ed è strano constatarlo. Arrivando in pullman abbiamo visto delle persone, lungo la strada, si sono voltate a guardarci. Dentro quel buio così freddo, poi, abbiamo preso parte alle cerimonie per la Giornata della memoria. Mi sono sentito a disagio, da italiano. Mi è venuto da guardare da un'altra parte, quando è arrivato un gruppo di ex deportati, ognuno con la sua candela da poggiare in terra. Uno tremava, l'ha rovesciata in terra, l'ha ritirata su.
Una ragazza mi ha detto che per lei la Giornata della memoria è una cosa strana, una cosa come mettersi un promemoria sul telefonino. «Forse abbiamo troppe cose da ricordare», mi ha detto. Poi ha aggiunto «Scusa, ho detto una stupidaggine». Le ho sorriso. Me lo ha detto con il viso già tutto dentro quell'aria così scura. Il buio poi ha preso da sotto i ragazzi, gli è salito su dai piedi, lungo le gambe, li ha presi in faccia. Li guardo e mi sembra che stiano annegando, dentro questa notte, in mezzo alla Polonia, i doposcì dentro il fango di un campo di sterminio.
Per tutto il giorno molti di loro mi hanno detto che si sentono in colpa perché non riescono a provare emozioni forti. Mi hanno chiesto se è grave, se li considero superficiali. Mi è venuto da pensare a come sia difficile ricordare i ricordi degli altri, usare un'altra memoria, trasferire l'orrore. Me l'hanno chiesto con una strana angoscia in faccia, guardando l'erba e il fango, quelle carcasse della storia. Gli ho detto di no, che non sono superficiali. Me l'ha chiesto anche la ragazza che prima di partire diceva che entrare ad Auschwitz è sconvolgente. Dopo un po' l'ho vista piangere, poco più in là, dentro il buio. Le ho chiesto cosa succedeva. Mi ha detto «Non lo so».E fuori dal campo c'è una piazzola. Qualcuno ci fa manovra, ci ferma anche l'autobus.

Andrea Bajani, Sole 24 ore, 1 febbraio 2009

Ballard: alla fine dell’uomo

I tre grandi scrittori che negli anni Cinquanta e nei primissimi Sessanta hanno scelto come loro campo la fantascienza non l'hanno fatto per una vocazione alla letteratura di genere e al suo vasto mercato. L'hanno fatto perché quel genere permetteva loro di scavare non solo nelle storture di una società
(a questo sarebbe potuto bastare il miglior noir o la spy-story, come dimostra lo scrittore politicamente più acuto tra i contemporanei inglesi di Ballard, John Le Carré, con il quale Ballard sembra intrattenere uno strano dialogo a distanza, anche se nessuno parla dell'altro) e perché permetteva loro di scrutare nelle sue linee di tendenza, in ciò che di novità, perlopiù conturbante e minacciosa, il presente andava affermando ma che non tutti riuscivano a vedere. Per esempio i romanzieri loro contemporanei,fossero essi eredi del realismo dell'8oo o del freudismo, della sociologia dell'uomo-massa o della scuola modernista.
A loro modo, gli americani Vonnegut e Dick furono anche sociologi (il secondo in veste di sciamano), come Ballard, che spiega nelle bellissime memorie solide e serene, perché scelse la fantascienza, nel lontano 1961 (con II mondo sommerso) e perché teorizzò, contro la fantascienza allora dominante, la conquist aper il genere, esaurite le fantasie sul futuro extraterrestre, dell'inner space, inteso non tanto come spazio dell'interiorità quanto come spazio interno al pianeta che ci ha prodotto, all'«aiuola che ci fa tanto feroci».
Non è un caso se Ballard, in I miracoli della vita, titolo che dimostra come Ballard sia un uomo sostanzialmente fiducioso e non misantropo, parli della sua opera letteraria soprattutto in riferimento al suo . capolavoro, L'impero del sole (1984, l'anno di Orwell) che evoca non un mondo oltre l'immediato percepibile, ma la sua infanzia a Shanghai e la prigionia subita da bambino in un campo giapponese, esperienze di iniziazione alla crudeltà della storia e alla verità dell'uomo, e ai due più sconcertanti e avventurati dei suoi libri declinati al futuro prossimo, La mostra delle atrocità (2001) e Crash (2004).
Grande estimatore dell'opera di Dalì e di Bacon, Ballard si riferisce al fondo della mutazione dell'uomo e anticipa le teorie del post-umano che conseguono a quelle dél post-moderno. Egli dà meno rilievo ai suoi scritti non così estremi, ma altrettanto importanti e non meno utili per capire quel che bolle sotto le apparenze, quel che il presente ci prospetta di futuro, e che è ormai del tutto evidente. Tra questi titoli vanno ricordati almeno II condominio, Millennium People eRegno a venire fondamentali per la comprensione dello spostamento del disagio sociale sui ceti medi, aggrediti dall'alto e dal basso e pronti a future rivolte, e il racconto lungo Un gioco da bambini, che tutti i genitori e gli educatori dovrebbero leggere.

di Goffredo Fofi
Sole 24 ore domenica 9 febbraio 2009

martedì 22 settembre 2009

bravissimo Tilman Hoppstock

Veramente un bel concerto, venerdi sera a Rovato.
Il programma accattivante, esecuzione splendida, il suono molto buono a centro chiesa anche se non amplificato (una rarità, di questi tempi), e soprattutto un concerto brioso, simpatico, con alcune parole di presentazione e spiegazione dei brani nonostante l'italiano un pò incerto.

Tutto il contrario di certi pallossissimi concerti alla "ammirate il mio virtuosismo e partecipate al mio travaglio interiore, oh come mi struggo", che a mio parere allontanano i giovani ( e meno giovani) dai concerti di musica classica.
Un altro appunto: chissà perchè ai concerti di chitarra classica, quelli che mancano tra il pubblico sono proprio i chitarristi classici.....? Tutto il contrario del pubblico di manifestazioni come "Acoustic Franciacorta", dove ogni musicista è curioso di quanto fa l'altro e dove tutti sono disponibili a scambiarsi esperienze!
Per ulteriori info: http://www.t-hoppstock.de/engl/frameset-e.html

TECNOTRUCCHI

Il cellulare è bagnato? Mettilo nel barattolo di riso
I rimedi della nonna applicato alla tecnologia. Come stampare con una cartuccia vuota, come provare ad aggiustare l'hard-disk in crash... di MAURIZIO RICCI

(nota mia: anche il mio cellulare era caduto nel water...)



Per decenni, in un mondo più semplice, è stato il pezzo forte delle riviste femminili. Come fare per far sparire le incrostazioni di calcare? Con l'aceto, naturalmente. Candele e rocchetti di filo, in queste rubriche della nonna o della zia Petronilla, assumevano poteri e capacità sorprendenti e affascinanti. L'era pigra del supermercato ha cancellato, in un rutilare di bombolette spray e polveri miracolose, capaci di far fronte ad ogni evenienza, questi distillati di esperienza secolare. Ad affidarsi all'inventiva , per far fronte alle emergenze del mondo moderno, sono rimasti i giapponesi, ancora fedeli all'arte dell'"urawaza" (scorciatoia, trucco segreto), per risolvere l'insolubile.

Fate conto, ad esempio, di essere una ragazza che ha rotto con il fidanzato, gli ha restituito anelli e regali, ha cancellato tutte le sue foto sul computer, ma non riesce a scrostare quelle maledette foto adesive (di lui), incollate sullo specchio del bagno. Come fare?

Elementare, dice l'urawaza: prendete della maionese, spremetela su un tovagliolo di carta e passate il tovagliolo sull'adesivo. L'olio della maionese dissolve la colla. A questo punto, con un coltello o anche un altro tovagliolino potete staccare la foto. Oppure, avete rotto un bicchiere sul tappeto, avete tolto tutti i pezzi grossi di vetro, ma come per i più piccoli, con il rischio di ritrovarseli nei piedini del piccolo di casa? Semplice: premete leggermente delle fette di pane morbido nei punti incriminati. I pezzettini di vetro si incastreranno nel pane e li potete togliere senza difficoltà.

Ma queste sono soluzioni ingegnose per problemi semplici, dove l'alternativa è, di solito, perdere un po' di tempo in più (o prendere un aspirapolvere, nel caso del bicchiere). Le vere emergenze di oggi sono altre: tecnologie che non capiamo e non capiremo mai, che ci lasciano a terra in momenti chiave e che siamo meno attrezzati a risolvere, anche di una candela sporca nel motore. Ci servono trucchi semplici per un mondo complesso. Petronilla non c'è più, ma il New York Times sì. Ecco la urawaza per i frustrati della tecnologia.

"La cartuccia è vuota"
Così, almeno, dichiara la vostra stampante. Solo che è notte e non volete aspettare domattina. E pensare che vi mancano solo tre-quattro pagine per finire il lavoro.
Allora, togliete la cartuccia dalla stampante e portate l'asciugacapelli dal bagno. Scaldate la cartuccia per due-tre minuti e rimettela nella stampante ancora calda. L'inchiostro secco ha tappato i buchini della cartuccia, scaldandola potete riuscire a far uscire ancora un po' d'inchiostro, quanto basta per tre-quattro pagine.

"Il cellulare è sempre scarico"
Se lo tenete in tasca, è probabile. Il calore del corpo scalda la batteria, accelera i processi chimici che la fanno funzionare e si scarica più in fretta. Tenete il telefonino in borsa o alla cintura. E, se avete dimenticato il caricatore a casa in un viaggio, potete riuscire a salvare, con lo stesso principio, almeno le ultime telefonate. Spegnete il cellulare e fategli passare la notte nel frigorifero. Vi rimarrà un po' di carica in più.

"Oops, guarda dove mi è caduto il telefonino"
Cioè nel water. Tiratelo fuori ed estraete subito la batteria, per evitare un corto circuito letale per il cellulare. Poi, dopo aver asciugato il telefonino, mettetelo in un barattolo con del riso crudo. L'umidità si trasferirà naturalmente dal cellulare al riso, per la stessa ragione per cui pochi chicchi di riso tengono asciutto il sale.

"Wi-fi in ogni angolo"
Avete l'Adsl in salotto, ma il router Wi-fi non riesce a trasmettere il segnale a banda larga fino in camera da letto, negandovi la possibilità di chattare da sotto le coperte. Prima di andare a comprare qualche costoso ripetitore, provate con il sacchetto delle patatine. E' un foglio di alluminio e, senza bisogno di cavi, batterie o quant'altro è tutto quello che vi serve per costruire un riflettore di onde radio.

Montate, con qualche pezzo di legno, il foglio di alluminio, in modo che assomigli un po' alla parabola satellitare che Sky vi ha messo sul tetto (schemi e disegni su www.freeantennas.com). Mettetelo dietro il router. Rifletterà il segnale wi-fi verso la camera da letto, impedendo che si disperda in cerchio dove non vi serve (ad esempio, attraverso la parete, in casa del vicino).

"Senza fruscio, senza saltelli"
Il cd o il dvd che avete lasciato a coprirsi di polvere e ditate. Esistono, naturalmente, ottimi prodotti industriali per pulire cd e dvd. Però il whisky va altrettanto bene, dato che l'alcool è un ottimo solvente. Non occorre che sia un doppio malto, naturalmente: impregnatene una pezzetta e pulite il cd. Attenzione, per il vecchio vinile (i gloriosi lp) va benissimo l'acqua distillata.

Come per tutti i rimedi casarecci, non è detto che funzionino davvero. Ad esempio, se l'hard disk del vostro pc fra crash e diventa inservibile, potete provare a metterlo nel congelatore. Quando lo ritirate fuori e lo riportate a temperatura ambiente, è possibile che le parti che hanno perso l'allineamento si siano risistemate un po' e riusciate a recuperare qualcosa. E' possibile, appunto. Ma, provare, che vi costa?

(22 settembre 2009) www.repubblica.it

domenica 20 settembre 2009

darwin e dio

La domanda dello scienziato è sul «che cosa e come accade», quella del filosofo e del teologo è sul «perché e sul fine» della realtà.


All'arcivescovo Gianfranco Ravasi, vorrei tornare su un argomento quest'anno di molto abusato, quello riguardante la Chiesa e Darwin.
Come tanti altri teologi, lei ha sostanzialmente ribadito la compatibilità di una concezione scientifica evoluzionista con una concezione teologica cristiana, purché si salvaguardino i due diversi statuti epistemologici o approcci.
Detto in altri termini, la stessa realtà umana è sottoposta ad analisi da due angoli di visuale differenti.
A questo punto non è rilevante interrogarci sulla fede o sull'ateismo di uno scienziato (questione che riguarda la sua individualità personale), ma la correttezza o meno delle sue rilevazioni e del metodo adottato.
Mi pare, però, che la Chiesa cerchi spesso di allegare al suo campo scienziati, quasi fossero un supporto alla sua dottrina che deve, invece, sostenersi da sé, coi suoi criteri propri.
Così non è rilevante che Darwin abbia - come lei, invece, ha voluto sottolineare in più di un suo articolo (anche su questo giornale) - aggiunto, nella conclusione della seconda edizione (1860) dell'Origine delle specie, alle «considerazioni sulla vita e alle sue varie facoltà» la frase «che furono impresse dal Creatore in poche forme o anche una sola».
Ferdinando Scaglione - Mestre

Risponde mons. Ravasi:

Francamente non avrei quasi nulla da eccepire su quanto osserva acutamente il nostro lettore: le sue osservazioni sulla distinzione dei ruoli dello scienziato e del teologo sono pertinenti, così come la necessità di "sguardi" diversi per decifrare pienamente una realtà tanto complessa come l'essere umano o, più ingenerale, l'essere vivente e, infine, l'intero essere.
La domanda dello scienziato è sul «che cosa e come accade», quella del filosofo e del teologo è sul «perché e sul fine» della realtà.
Interrogativi, quindi, da un lato «fisici» e dall'altro «metafisici». La chiarezza semplifìcatoria di quanto abbiamo finora detto non elimina, però, la fatica concreta delle relazioni tra i due attori, proprio perché essi hanno lo stesso oggetto di analisi e non è sempre così lineare distinguere i due protocolli.
Non voglio ripetere qui riflessioni spesso proposte sulla complessità del rapporto scienza-fede, soprattutto nelle tematiche antropologiche.
A questo proposito, desidero rimandare a un volumetto suggestivo, che abbiamo già avuto occasione di citare un'altra volta, di uno studioso di entrambi i settori, proprio sul nesso tra fede, evoluzione ed etica: “Darwin e Dio” di Simone Morandini (Morcelliana, pagg. 208, €15,00) oppure il saggio del grande biologo e filosofo statunitense Francisco J. Ayala, “Il dono di Darwin alla scienza e alla religione” (JacaBook-San Paolo, pagg. 308, €24,00). Desidererei, invece, aggiungere una piccola nota sul rapporto di Darwin con la fede, che certamente non può essere "accaparrato" tra i credenti per quella frase né,però, iscritto come membro d'onore nell'albo degli atei.
Lasciando tra parentesi la sua educazione protestante,frutto di un padre anglicano e di una madre della Chiesa unitaria (a cui aderì in passato lo stesso Newton), un'educazione che comprendeva una lettura quasi fondamentalista delle Scritture, è necessario ricordare che Darwin si laureò anche in teologia al Christ's College di Cambridge, conservando per lungo tempo la convinzione -come egli confessa nella sua Autobiografia - «della verità assoluta e letterale di ogni parola della Bibbia».
E dopo le sue rilevazioni scientifiche navigando sul «Beagle» dal 1831 al 1836 che egli approda a quella che definisce come una posizione dì
«agnostico».
Tra l'altro, è curioso notare che è stato un altro scienziato, contemporaneo di Darwin, Thomas Huxley, a coniare questo termine, ma con un significato paradossalmente religioso perché rimandava all'agnostos theós, al «Dio ignoto» adorato - secondo san Paolo nel suo discorso all'Areopago ateniese (Atti 17, 22-23) - dai Greci.
Si tratterebbe, quindi, di una sorta di teismo, sia pure sospeso.
In questa luce si può spiegare l'aggiunta, citata dal nostro lettore, all'Origine delle specie e soprattutto un fatto particolarmente significativo.
Nel 1881, al genero di Marx, il pensatore ateo Edward Aveling, che voleva usare questa parentela per coinvolgere Darwin in una presentazione di un suo saggio (Marx invierà, invece, a Darwin una copia autografata del suo Capitale), rispose: «Preferirei che la parte o il volume non fossero dedicati a me (benché vi sia grato per l'onore che intendete farmi), perché ciò suggerirebbe in certo modo la mia approvazione di tutta l'opera, che non conosco bene.
Benché io sia un fervido sostenitore della libertà di opinioni in ogni argomento, mi sembra (a ragione o a torto) che attacchi diretti contro il cristianesimo e il teismo abbiano assai scarso effetto sul pubblico; e che la libertà di pensiero possa meglio promuoversi con quell'illuminazione graduale dell'intelletto umano che consegue al progresso delle scienze. Perciò ho sempre evitato di scrivere sulla religione, e mi sono limitato allascienza».
Gianfranco Ravasi

La domenica del sole 24 ore13 settembre 2009

esercizi di filosofia su pellicola

È in uscita per Laterza «Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola» (pagg. 144, € 15), con le analisi di Achille Varzi su «Terminator», di Roberto Casati su «Ricomincio da capo», di Nicla Vassallo su «Matrix» e di Claudia Bianchi su «Oltre il giardino». Di ognuno anticipiamo un piccolo assaggio insieme alla prefazione di Armando Massarenti, curatore del volume e autore del saggio conclusivo sui rapporti tra cinema e filosofia.

«Allora tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli occhi in un istante. E io non ero nel cast!». Un mondo come quello immaginato da Woody Allen in questa sua celebre battuta potrà sembrare, dal punto di vista logico, il più stravagante dei mondi possibili.
Com'è possibile un mondo osservato dal mio punto di vista, che parla della mia vita, e che al tempo stesso non contempla la mia presenza?
Il fatto è che il punto di vista Stramaledettamente logico adottato dagli esercizi filosofici su pellicola contenuti in questo volume può trasformarsi, e proprio in forza di una esibita coerenza nella costruzione di mondi, nel suo esatto contrario. Fino a farci toccare con mano quella che Albert Camus chiamava l'esperienza dell'Assurdo, attraverso la quale arriviamo a percepire la vanità e l'assenza di senso che incombe sulle nostre stesse vite.
Secondo Thomas Nagel, che ha così reinterpretato l'idea di Camus, la vita ci pare assurda se la guardiamo da lontano. Vi è una tensione essenziale tra un punto di vista oggettivo e impersonale e uno soggettivo e personale. Viviamo tranquillamente, concentrati sulle nostre faccende piccole e grandi, quando a un certo punto ci capita di «fare un passo indietro», e di osservare noi stessi «dall'esterno». E allora ciò che da una prospettiva personale, interna, ci appariva importante, fondamentale, assoluto, finisce per perdere ogni senso.
Vista dal l'esterno, la nostra vita ci pare assurda. Non solo perché rispetto all'eternità e immensità del mondo ci appare in tutta la sua miseria e finitezza. Come quella di un topo.
No, il punto non sta nella limitatezza delle nostre vite. Se anche la vita fosse infinita, non avremmo risolto il problema: avremmo solo un'assurdità infinita. Che cosa allora ci può far pensare che la nostra vita abbia un senso e un valore diversi da quella di un topo?
Il punto sta proprio in quel «passo indietro», che noi, dotati di autocoscienza e capacità riflessive, siamo in grado di fare. La vita ci apparirà magari assurda, ma senza che questo ci conduca alla disperazione. Al contrario. In fondo, anche dopo quel «passo indietro», la vita continua.
Provate a fare questo esercizio: pensate a quante volte quel passo indietro lo avete fatto proprio guardando un bel film, e a quante volte invece ve lo ha fatto fare la filosofia. In entrambi i casi, la vita continua, ma qualcosa è cambiato. E in meglio. Prima prevaleva la nostra tendenza a prenderci sempre stramaledettamente sul serio. Ora abbiamo guadagnato una dimensione nuova: siamo più leggeri, raffinati, ironici, civili, tolleranti. Forse anche più logici. Anzi, stramaledettamente logici, e proprio per questo in grado di capire al volo la battuta di Woody Allen e, dunque, essere nel cast.

Terminator: Accadde nel futuro
di Achille Varzi
È successo. È già successo, quindi succederà: la storia non si può modificare. Così la pensa il sergente Kyle Reese, che nel 1984 si ritrova a ragionare sul destino dell'umanità dopo aver combattuto per la sua salvezza per ben nove anni, dal 2021 al 2029. Per lui il 29 agosto 1997, il Giorno del Giudizio, il giorno in cui le macchine prendono il sopravvento dando inizio a una lunga guerra per la sopravvivenza del genere umano, appartiene a un passato che è già stato scritto e come tale è inevitabile: il futuro è semplicemente un tempo verbale imposto dalle circostanze. Per Sarah Connor, che ascolta incredula le sue parole, il 29 agosto 1997 appartiene invece a un futuro che è ancora aperto. Dal suo punto di vista l'unico destino è quello che creiamo con le nostre mani e se davvero c'è il rischio di una catastrofe di portata apocalittica bisogna fare di tutto per evitare che succeda. È questa tensione tra due diversi modi di vedere la storia che definisce le coordinate della saga di Terminator, che offre spunti filosofici molto profondi concernenti la natura del tempo, le relazioni causa-effetto e il libero arbitrio. Così, se all'inizio del primo film sembra prevalere il punto di vista di Kyle, al termine del secondo sembra aver ragione Sarah mentre il terzo film della serie sembra concedere qualcosa a entrambi: si apprende infatti che gli sforzi per evitare la catastrofe annunciata per il 29 agosto 1997 hanno avuto successo, ma solo al punto da rinviare il Giorno del Giudizio a una data successiva, il 24 luglio 2004. Come la mettiamo? Fino a che punto ha ragione Kyle e fino a che punto ha ragione Sarah? E fino a che punto ha senso che Kyle si rechi nel passato per interagire con Sarah?
da : la domenica del sole 24 ore, 13 settembre 2009

il giorno che avrei voluto vivere

MI sono piaciuti molto questi servizi del sole 24 ore: si possono trovare all'indirizzo:
http://www.ilsole24ore.com/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2009/giorno-avrei-voluto-vivere/

un portale tutto verde per il g8 sul clima

Green Tg (www.greentg.it) è un interessante portale dedicato all'ambiente, ricco di informazioni multimediali. Il sito offre un web tg settimanale promosso da partner come Conai e Consorzio pannello ecologico, che hanno creduto, sostenendola, cinque anni fa alla scommessa di una giovane redazione multimediale che aveva scelto di puntare sull'ambiente.

Da settembre partirà una striscia informativa quotidiana verso il prossimo appuntamento del G8 sul clima a Copenaghen il prossimo dicembre 2009. Nella striscia ci saranno servizi, interviste, approfondimenti, tutto per raccontare, settimana dopo settimana, come ci si sta avvicinando a Copenaghen, quali scenari possono aprirsi non solo in virtù dei precedenti appuntamenti, ma anche con le novità che possono emergere nei mesi che ci separano da quella data. Molte sono le iniziative in previsione di Copenaghen, la più importante è lek lek Tck, sostenuta da Kofi Annan e Bob Geldof (www.tcktcktck.org), alla quale sono legati anche un disco e un video. La campagna, alla quale si può aderire sul web, è costruita sullo stile di quella di Obama ed è sostenuta dalle associazioni ambientaliste.

martedì 15 settembre 2009

elettricità fatta in casa

BERLINO - Dopo l’auto del popolo, ecco l’energia del popolo. La Volkswagen, il numero uno europeo e big global player mondiale dell’auto, l’azienda nata inventando col Maggiolino la vettura per tutti, si lancia a sorpresa nel mercato dell’energia con una trovata rivoluzionaria, che in Germania secondo Der Spiegel già fa tremare i produttori tradizionali.

La trovata rivoluzionaria è appunto la mini-centrale elettrica in casa, in cantina o nello sgabuzzino, che produce l’energia per l’appartamento o il villino dove vivi, e trasmette l’esubero di produzione di energia a un accumulatore, il quale la redistribuisce in rete. Almeno centomila mini-centrali in domicili privati, interconnesse tra loro, possono fornire la stessa produzione di energia di due reattori atomici o di due grandi centrali elettriche a carbone. A prezzi molto interessanti per l’utente, e con alta efficienza nel rapporto consumo-produzione di energia. L’accordo è stato raggiunto tra Volkswagen e Lichtblick, un’azienda che produce e fornisce energia elettrica nel nordovest della Repubblica federale.

E’ un’intesa che il colosso dell’auto e il piccolo, dinamico produttore-outsider di elettricità hanno firmato con validità da adesso per tutto il mondo. Entro il 2010 le mini-centrali domestiche saranno disponibili. E. On, Rwe, gli altri big del comparto energia in Germania, e forse oltre i confini tedeschi anche colossi come Edf, già si preoccupano: è una sfida che probabilmente non si aspettavano. E’ la prima volta che Volkswagen, produttore d’auto “puro”, si lancia alla grande in un altro comparto.

Funziona così. La mini-centrale, a prima vista, sembra un enorme frigorifero, o congelatore, o una piccola moderna caldaia. Dunque può facilmente trovare spazio nella cantina, nel locale-sgabuzzino, o in qualsiasi altro posto di una casa unifamiliare o di un appartamento. Il cuore dell’apparecchiatura è un motore Volkswagen a metano, derivato dai propulsori di serie della Golf, che produce energia di per sé e muove un generatore. La mini-centrale Volkswagen-Lichtblick fornisce l’energia necessaria al consumo domestico, con un’efficienza di produzione di circa il 94% nel rapporto consumo-produzione e produzione-utilizzo possibile di energia. Molto di più del 40% circa delle moderne centrali nucleari o a carbone.

Volkswagen e Lichtblick vogliono installare centomila mini-centrali in Germania in un primo momento, poi dare la caccia ad altri clienti. Ma non è tutto, appunto. Il resto, la produzione di energia residua, non utilizzata in casa, viene convogliata insieme alla residua produzione delle altre 99mila 999 centrali domestiche e immagazzinata in un accumulatore, con cui poi Lichtblick redistribuisce la corrente ai suoi utenti in rete. Tutto senza costruire costose nuove grandi centrali, solo interconnettendo come tanti mini-computer collegati grazie a Internet le centomila (e forse domani i milioni) di mini-centrali domestiche. Interessantissimi anche i costi d’acquisto ed esercizio per l’utente: l’installazione viene fornita per 5000 euro, poi si paga un canone mensile di 20 euro più il consumo mensile d’energia secondo le tariffe ufficiali, pubblicamente imposte, del gas. In più il produttore paga all’utente 5 euro mensili di “fitto” e 0,5 cent per ogni chilowatt immagazzinato nell’accumulatore. Riparazioni e manutenzione gratis.

di Andrea Tarquini (La Repubblica) 10 settembre 2009
Fonte: repubblica.it

acoustic franciacorta 2009

E anche Acoustic Franciacorta è finita.
Finita in bellezza, con il concerto del Bermuda Acoustic Trio, veramente bravi e simpatici, una apparente semplicità che nasconde grande tecnica e tecnologia.
La manifestazione cresce di anno in anno, la qualità dei musicisti è veramente ottima, i luoghi dei concerti splendidi, come pure l’atmosfera generale.

Partiamo dai luoghi: l’iniziativa è ottima occasione per conoscere angoli sconosciuti della bellissima Franciacorta; da quest’anno sono state organizzate anche visite guidate, dedicate in particolare alle mogli e amiche degli appassionati di chitarra che, chissà perché, sono quasi tutti dei maschietti…..
Hanno partecipato alla manifestazione musicisti di altissimo livello, italiani ed internazionali.
Personalmente cito su tutti Pierre Bensusan, autore anche di una splendido incontro/lezione domenica pomeriggio, Tony McManus, impressionante per tocco e pulizia nonostante fosse appena arrivato dal Canada con 5 ore di ritardo (un vero peccato che per questo motivo abbia saltato l’incontro ristretto previsto nel pomeriggio).
Ho partecipato anche al seminario di Daniele Bazzani, che ha presentato il suo interessantissimo volume sul fingerpicking blues, che parte proprio dalle primissime basi e che proprio mancava.
Interessante anche il seminario di Duck Baker sulla chitarra ragtime. Duck è uno splendido musicista, un po’ penalizzato nel concerto da una scaletta che prevedeva prima di lui una orchestra di 10 chitarre classiche che, seppur bravi, con l’atmosfera del festival non c’entrava un granchè…….
Non ho assistito a tutti i concerti, ma in particolare oltre ai mostri sacri di cui sopra mi è piaciuto molto Paolo Sereno, dal suono splendido e pulitissimo.
Comunque tutti molto bravi, Brandoni, Pelosi, e i vari altri in scaletta, come pure varie glorie nazionali, a partire da Paolo Pilo, che si sono alternate nel presentare per una mezz’oretta ciascuno le chitarre dei vari liutai presenti alla manifestazione.
Ho avuto l’occasione di vedere e provare splendide acustiche e archtop: in particolare cito quelle di Giuseppe Riccobono, Canova, Mirko Borghino, Paolo Coriani,e le copie Maccaferri da Gypsy Jazz di Luigi Bariselli.
Ottimo il lavoro di Pierre Rossi del service Magic Bus di Brescia e, oltre a Giorgio Cordini e la Libera Accademia di Franciacorta che hanno organizzato , per ultimo un grazie agli alpini di Ome, che hanno allietato il dopo concerto con un buonissimo risotto per i più di 200 intervenuti!
All’anno prossimo per una manifestazione importante a livello nazionale....e oltre!

giovedì 10 settembre 2009

Meno carne se stessi e per il pianeta

L'APPELLO DEI CARDIOLOGI
Meno carne se stessi e per il pianeta
Ridurne i consumi diminuisce il rischio di tumori e malattie del cuore, ma anche il riscaldamento globale

MILANO - Un modo semplice per volersi bene ed essere ecologicamente corretti? Portare in tavola un po' meno carne. È meglio per la nostra salute, ma anche per il mondo intero: il 18 per cento dei gas serra deriva proprio da tutte le attività connesse all'allevamento degli animali usati per produrre carne, perciò ridurne i consumi avrebbe un impatto non da poco pure sul riscaldamento globale.

SALUTE – L'appello arriva dai cardiologi riuniti a Barcellona per il congresso dell'European Society of Cardiology , che specificano: «Consumare carni di manzo e maiale in grosse quantità aumenta di circa il 30 per cento il rischio di morire per colpa di una malattia cardiovascolare o un tumore. Il World Cancer Research Fund e l'American Institute for Cancer Research hanno indicato in 500 grammi alla settimana il consumo massimo di carni rosse». L'Organizzazione Mondiale della Sanità è ancora più prudente e parla di un introito raccomandato pari a 300 grammi di carne rossa (fresca o conservata) alla settimana: 45, 50 grammi al giorno. Ma secondo i dati dell'Osservatorio dell'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), in Italia adulti e adolescenti ne mangiano più del doppio e solo i lattanti rispettano il consumo raccomandato di proteine animali. Insomma, abbiamo davvero un po' esagerato. Anche perché la connessione fra consumo di carne rossa e guai per la salute è ormai sicura: poco tempo fa, ad esempio, uno studio ha confermato che mangiarne molta aumenta la mortalità e che l'11 per cento dei decessi negli uomini e il 16 per cento di quelli nelle donne potrebbero essere evitati riducendo l'introito di bistecche, insaccati e affini.

AMBIENTE – I «danni» della troppa carne rossa però non si esauriscono a livello del singolo: come hanno spiegato i cardiologi a Barcellona, il consumo senza freni che caratterizza le società occidentali è legato a doppio filo con il riscaldamento globale. E i cambiamenti climatici a loro volta sono responsabili di innumerevoli problemi per la salute umana: dalle patologie respiratorie alla malnutrizione, destinata ad aumentare con l'estendersi delle aree calde e desertificate. «Le malattie umane e il riscaldamento globale sono indubbiamente correlate, in molti modi diversi – scrivono i cardiologi nel documento diffuso al congresso –. L'OMS e molte associazioni mediche stanno tenendo conto di ciò nelle loro raccomandazioni, ma il problema è ampio e tutti devono fare la loro parte. E difficilmente interventi a livello delle politiche energetiche, agricole, urbane o dei trasporti possono avere successo se tutta la popolazione non è cosciente dei rischi connessi ai cambiamenti climatici». Informazione e consapevolezza, quindi, sono fondamentali. Anche perché secondo una ricerca appena uscita su Food Research International , il cerchio finirà per chiudersi: con l'aumento delle temperature medie infatti la qualità della carne è destinata a peggiorare, perché molti animali da allevamento soffrono il caldo e quando vivono a temperature elevate (per il maiale, ad esempio, il termometro non dovrebbe superare i 31 gradi) danno carni più scure, dure, meno grasse e saporite. Meno buone, insomma. Forse è meglio non essere costretti a rinunciare alla carne per questo motivo, ma pensarci prima contenendo i consumi per evitare brutte conseguenze, per noi e il pianeta. Sono piccoli gesti che contano: mangiare meno carne, ma anche scegliere cibi che non debbano percorrere migliaia di chilometri prima di arrivare sulla nostra tavola. Una dieta ecosostenibile, insomma, che aiuterebbe il mondo a stare un po’ meglio e ci manterrebbe più in salute.

Elena Meli
10 settembre 2009 Corriere.it

martedì 8 settembre 2009

Robot Sono troppo intelligenti ora gli scienziati hanno paura

la scelta del Pentagono di riorganizzare l' esercito in modo che entro il 2015 abbia un' ampia quota di combattenti non-umani comporta rischi etici abnormi. Dare la licenza di uccidere ai robot, che possono "impazzire" davanti a situazioni impreviste oppure essere hackerati dal nemico, è folle».


C' è chi giura che il conto alla rovescia per la Singolarità è iniziato.
Quel momento fatidico in cui gli esseri umani creeranno macchine più intelligenti di noi, provocando un salto evolutivo che cambierà per sempre i connotati alla nostra èra.
Entreremo in una fase di coesistenza. Da monopolisti del pianeta dovremmo accontentarci di un duopolio con replicanti fatti di chip e bulloni.
Sempre che i secondi,a un certo punto, non svalvolino e decidano di prendersela con gli ex padroni, in un futuristico replay tra Edipo e Spartaco. Perché in quel caso rischieremmo di avere la peggio.
Ed è proprio per sventare questo scenario distopico che i migliori specialisti di intelligenza artificiale del mondo si sono riuniti in gran consiglio in California per valutare quante possibilità ci sono di "perdere il controllo di creature computerizzate"e come intervenire prima che sia troppo tardi.
Dell' incontro, organizzato dalla Association for the Advancement of Artificial Intelligence e avvenuto a febbraio alla Asilomar Conference Grounds di Monterey Bay, si è avuta notizia solo di recente da un articolo del New York Times.
In verità i robot, contravvenendo alla prima delle tre leggi di Isaac Asimov ("Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno"), hanno già i bracci meccanici sporchi di sangue.
«Il malfunzionamento di una mitragliatrice semiautonoma due anni fa ha ucciso 9 soldati in Sudafrica - ci ricorda Wendell Wallach, del centro interdisciplinare di bioetica di Yale- gli errori di droni in Pakistan hanno provocato la morte di decine di civili e difetti del sistema informatico possono essere all' origine di un incidente ferroviario a Washington e del volo francese precipitato nel Pacifico tre mesi fa. Sistemi informatici sempre più autonomi sono una ricetta per la catastrofe,a meno che non cominciamo a inserire correttivi "morali" al loro interno».
Non pensa a un metafisico codice etico, quanto a un prosaico codice informatico che li istruisca su quando è il caso di fermarsi. L' invasione procede a passo svelto. All' ultimo censimento dell' International Federation of Robotics erano 6,5 milioni i robot nel mondo, tra cui 1 milione per uso industriale e 5,5 per uso privato, dai chirurghi-meccanici agli aspiratoria forma di ruota di scorta. Nel 2011, scommettono, supereranno i 18 milioni.
Per vederli in ogni casa bisognerà aspettare poco di più. Il citatissimo Chien-Hsun Chen, del National Nano Device Laboratories di Taiwan, azzarda una data: 2030. Con il metro della storia due decenni sono domani. Perciò l' Aaai ha convocato con urgenza il simposio di Monterey.
«La nostra vita è sempre più dipendente da tecnologie dell' informazione interconnesse- ci spiega la neopresidente Martha Pollack - era giunto il momento di affrontare il problema. Pensate ai virus informatici che possono mandare in tilt una città o a quanto i piloti siano dipendenti dal pilota automatico al punto da rischiare di disimparare certe manovre cruciali».
Parla indifferentemente di robot e bot, quei "maggiordomi virtuali" di cui aveva scritto Nicholas Negroponte nel profetico «Essere digitali» (1995) e ormai traslocati dalla fantascienza alla scienza. Ciò che li accomuna è la relativa capacità di prendere decisioni in autonomia o almeno di rispondere a una vastissima gamma di opzioni previste dal programmatore.
«Quando si parla di un futuro con macchine più intelligenti di noi bisogna intenderci bene sui termini - puntualizza Gianmarco Veruggio della Scuola di Robotica di Genova - perché, per certe funzioni come la memoria rievocativa e il calcolo matematico, le macchine sono già più performanti».
Provate a ricordarvi cosa avete fatto un determinato giorno dell' anno scorso oppure chiedetelo al vostro palmare e ne avrete la drammatica dimostrazione. «Lo stesso vale per il concetto di ribellione: quando il sistema operativo del mio pc si blocca non lo fa consapevolmente, perché ciò presuppone il libero arbitrio» rassicura quest' ingegnere, intervistato dai giornali di mezzo mondo per aver introdotto nel 2004 il concetto di "roboetica".
«Però la scelta del Pentagono di riorganizzare l' esercito in modo che entro il 2015 abbia un' ampia quota di combattenti non-umani comporta rischi etici abnormi. Dare la licenza di uccidere ai robot, che possono "impazzire" davanti a situazioni impreviste oppure essere hackerati dal nemico, è folle».
Se nel teatro di guerra il margine di errore si traduce subito nell' alternativa secca tra vita o morte, anche nella quotidianità ha la sua dose di pericoli. «Il tema della privacy è enorme - spiega Henrik Christensen del Georgia Institute of Technology - perché i robot usano, per muoversi, telecamere al posto degli occhi e sono sempre più collegati in rete. Ma io non voglio che mi riprendano quando esco dal lettoo comunichino a potenziali hackerladri se sono o no in casa». Spioni nelle mura domestiche, stakanovisti sul lavoro. Ancora il danese: «Possono eseguire il loro compito troppo alla svelta, costringendo gli umani a prendere rischi per la sicurezza o caricarsi di stress».
Un settore sottostimato dall' opinione pubblica è poi quello del sesso. Per Christensen i prossimi 3-5 anni saranno quelli del boom di giocattoli erotici interattivi. Veruggio non si scandalizza: «Se le bambole robotiche sostituiranno le prostitute-schiave non sarebbero neppure negative.
A meno che poi, pensando che sono macchine e si può far loro di tutto, non si replichi con le donne vere. So di posti in Giappone dove queste roboescort le affittano già a ore». Lì però una parte della straordinaria diffusione di automi si spiega con motivi storici più che tecnologici.E non sorprende che molti vecchi, refrattari ai gaijin, gli stranieri, preferiscano farsi aiutare per andare in bagno da una badante cingolata piuttosto che da una cinese. Mentre noi, da sempre all' avanguardia internazionale nella robotica industriale, restiamo al palo di quella domestica. Forti dell' economica manodopera delle ucraine. - RICCARDO STAGLIANÒ
Repubblica — 05 settembre 2009 pagina 43 sezione: CRONACA

domenica 6 settembre 2009

Avorio: bracconaggio da record

Nel 1983, in Tanzania, lo zoologo Samuel Wasser fece una raccapricciante scoperta.
Sul greto di un torrente in secca trovò disposti uno vicino all’altro due crani di elefante, il primo di una femmina adulta, l’altro di un cucciolo: «Per attirare la madre, i bracconieri hanno prima abbattuto il piccolo. Quando l’elefantessa s’è avvicinata, hanno ucciso anche lei e le hanno strappato le zanne» gli spiegò una guardia forestale. Un metodo utilizzato sempre più spesso dai bracconieri.



Avorio Ora vale cinquemila euro al chilo in Africa torna la caccia all’elefante
Per 15 anni, grazie alle pressioni e agli aiuti internazionali, il mercato delle zanne sembrava finito Nuovo allarme di scienziati e ambientalisti: "Bracconaggio da record, è in corso una strage"

È l’Estremo Oriente il cuore del nuovo mercato. A Pechino il prezzo dell’avorio in cinque anni è cresciuto di quasi 25 volte

A marzo la polizia vietnamita intercetta un cargo tanzaniano con a bordo oltre sei tonnellate d’avorio. È il più importante sequestro di zanne d’elefante dal 1989, anno in cui sei paesi africani aderirono alla Cites (Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate) e il traffico illegale cominciò a diminuire. Ma la confisca vietnamita è anche la conferma dei peggiori presentimenti dei biologi. Ossia che dopo una relativa moratoria, durata una quindicina d’anni, l’abbattimento degli elefanti è ripreso con più vigore di prima, e che dal 2005 a oggi il loro massacro avrebbe raggiunto picchi di mortalità finora mai eguagliati.
Nel 1983, in Tanzania, lo zoologo Samuel Wasser fece una raccapricciante scoperta.
Sul greto di un torrente in secca trovò disposti uno vicino all’altro due crani di elefante, il primo di una femmina adulta, l’altro di un cucciolo: «Per attirare la madre, i bracconieri hanno prima abbattuto il piccolo. Quando l’elefantessa s’è avvicinata, hanno ucciso anche lei e le hanno strappato le zanne» gli spiegò una guardia forestale. Un metodo utilizzato sempre più spesso dai bracconieri.
Bastano poche cifre per misurare le dimensioni dello sterminio: se nel 1970 si contavano in Africa due milioni e mezzo di elefanti selvatici, oggi ne sono rimasti, sì e no, 250mila. Solo tra il 1979 e 1989 ne sono stati ammazzati 700mila.
L’inclusione dell’elefante tra le specie minacciate mise in crisi bruscamente questo mercato.
Ma col passare degli anni altre nazioni africane denunciarono le regole della Convenzione sul commercio d’avorio, mentre i fondi stanziati dall’Occidente per il controllo del bracconaggio subirono un improvviso arresto. Così la situazione tornò presto come prima. C’è tuttavia una differenza.
Oggi, gli scienziati sono in grado di fare la cartografia di tutte le popolazioni di elefanti presenti sul continente grazie al Dna estratto dalle loro feci, individuando il luogo dove reti criminali ben organizzate hanno compiuto la mattanza.
Tra il 2005 e il 2006 sono state sequestrate 25 tonnellate di avorio, solo il 10% del totale del contrabbando in un anno. Ma è stato un primo campanello d’allarme, al quale ne sono seguiti altri. Nel 2007 di tonnellate d’avorio provenienti dall’Africa ne furono sequestrate 29, tutte in paesi dell’Estremo Oriente. Se nel 2004 il prezzo all’ingrosso dell’avorio era di 200 euro al chilo, oggi in Cina è venduto al dettaglio anche a 4700 euro al chilo. Calcolando che ogni elefante fornisce una media di 6,6 chili di avorio, si evince che ogni anno si uccidono circa 38.000 elefanti.
Si dice che l’elefante sia una creatura intelligentissima, e che pratichi complesse cerimonie funebri accarezzando le ossa e le zanne del parente defunto. Assieme ai delfini e a pochi primati, è l’unico animale in grado di riconoscersi allo specchio. Eppure l’uomo non ne ha mai avuto pietà.
PIETRO DEL RE (la Repubblica, venerdì 4 settembre 2009)

Da vergognarsi di appartenere a genere umano.Mai viste all'exa (esposizione della caccia che si tiene a Brescia ogni anno) le facce di quelli che fanno "turismo venatorio" in Africa e si fanno fotografare davanti ai trofei (cioè a mucchi di cadaveri di animali ammazzati per gioco)?

giovedì 3 settembre 2009

Meditate. Ma bene

Con un'immagine intenzionalmente repellente, in un sutra famoso il Buddha paragona quello che si ha nella mente alla «carcassa di un serpente o di un cane o di un essere umano» messi intorno al proprio collo come se fossero monili attraenti.
Che cosa c'è infatti dentro la mente nelle condizioni abituali, normali della vita? Ansie, preoccupazioni, rimpianti e desideri, pensieri angosciati e astiosi, polemici o eccitanti. Quasi tutto ciò che si agita nella mente, qui intesa in senso molto lato, mette capo o all'avversione o al desiderio, le due grandi forze che condizionano e talora determinano l'essere umano.

La loro azione è subdola e pervasiva, opera a livello sia cosciente sia soprattutto inconscio, mescolando e reciprocamente intensificando le sensazioni fisiche con le pulsioni della psiche e influendo così in maniera potente sulle emozioni, sui sentimenti e sui pensieri. La più profonda volontà ne risulta offuscata e perfino contaminata; in ogni caso l'effetto, a lungo andare, non può che essere la sofferenza.
Ammettere che queste dinamiche sono incontrastabili significa approdare a conclusioni necessariamente deterministiche: le istanze alla scelta, alla bellezza, alla compassione o all'unità devono essere giudicate illusorie, perché ogni atto e perfino ogni intenzione o stato d'animo si genera fuori da ogni controllo e inconsciamente nel magma vorticoso degli impulsi latenti.
Considerata in termini logici, questa conclusione appare del tutto conseguente, come è avvenuto in fasi bene identificabili della storia del pensiero (positivismo, meccanicismi di vario genere); in ogni caso, questa posizione resiste subdolamente ben radicata nel pensiero inconsapevole di ciascuno di noi.
All'opposto, la convinzione deterministica è stata combattuta come il nemico più insidioso da ogni indirizzo di autentica ricerca interiore; questo è avvenuto per esempio alle origini delle grandi religioni.
Ciascuna di esse, infatti, si è proposta di restituire all'uomo l'aspirazione e la facoltà di governare se stesso, per indirizzarsi verso mete più ampie dei piaceri e degli interessi soggettivi, colmando così di senso la vita, necessariamente effimera e altrimenti destinata al pessimismo.
La finalità dunque di questo proposito è stata, ed è, il distacco progressivo e la dissoluzione di desiderio-avversione (o paura) e dei travestimenti insidiosi in cui si mascherano di continuo.
In pari tempo, si tende a colmare lo spazio liberato con le attitudini positive di cui pure la mente è dotata, come la compassione e l'equanimità suggestivamente chiamate dalla tradizione buddhista «dimore divine».
La via maestra verso questo fine di liberazione e realizzazione di sé è'quella oramai abitualmente chiamata "meditazione".
Il tema è decisivo nella ricerca attuale, come in realtà è stato in quella di sempre, e oggi è anche molto di moda; il che non sempre giova, favorendo la proliferazione di pubblicazioni e pratiche ambigue, spiritualmente degradate e di infimo livello culturale, proposte per intercettare curiosità e aspettative di risanamento psico-fisico e di benessere senza sforzo. Su scala mondiale, la torta del lucro da spartire è gigantesca...
Naturalmente, però, non mancano interventi di alto profilo, ispirati a tradizioni e metodi meditativi diversi, di fondata tradizione e sostenuti da grande serietà di ricerca e assiduità di pratica. Ad accomunarli è il fine: la meditazione non mira infatti a reprimere, ma a spersonalizzare, favorendo il contatto del meditante con una zona interiore integra e totale, dove si possono schiudere al suo essere e operare nel mondo gli orizzonti del significato.
Questo obiettivo si può raggiungere in molti modi, all'apparenza perfino opposti; la via di meditazione buddhista è presentata oggi, fra i molti libri che le sono ormai dedicati, da II silenzio tra due onde di Corrado Pensa, uscito negli Oscar Mondadori.
È un libro che si distingue per il retroterra profondamente nutrito dei testi della tradizione, antichi ma anche attuali; l'autore vi ricorre per mettere a fuoco la pratica meditativa buddhista nei suoi presupposti, nei metodi, nelle fasi diverse che può attraversare, nei sentimenti che la ispirano e la sorreggono.
Ne risulta uno sviluppo ricco, nient'affatto schematico né peggio ancora piattamente didattico, che colpisce anche per la serenità e la benevolenza dell'argomentare.
L'avvio della pratica meditativa buddhista sta nell'immergersi interamente nei mezzi della propria manifestazione, a partire dal respiro, mantenendo un'assoluta vigilanza su quanto avviene, cioè senza lasciarsi distrarre dalla "proliferazione" di immagini e pensieri.
I metodi di meditazione di matrice hindu, puntano invece ad acquietare i mezzi dei quali siamo dotati per manifestarci (il corpo, le emozioni e i sentimenti, il pensiero), per riconoscere e sperimentare continuamente che la realtà autentica dell'essere umano non si identifica e non consiste in questi mezzi.
Lo spazio interno è così ripulito e può manifestarsi ciò che è chiamato atman, il Sé profondo, il soggetto reale, fatto di pura conoscenza e misteriosamente identico al brah-man, il Sé universale e impersonale; anzi, identico alparabrah-man, il Sé "supremo", di continuo evocato nel suo diretto ammaestramento da Sri Nisargadatta Maharaj :
Ubaldini ne propone, dopo altre opere, L'esperienza del nulla. L'immagine suggestiva, che sigilla il lavoro sta nelle parole con cui Nisargadatta allude al fine da lui perseguito nei confronti dei discepoli: «inserire un cuneo tra voi e i pensieri, tra voi e l'accettazione di qualunque pensiero o parola».
Per lui, infatti, il processo meditativo - che finisce per assorbire l'intera esistenza - consiste (unicamente) nell'identificarsi in modo totale con l'esperienza dell'«io sono», cioè con il parabrahman, prima e oltre il pensiero e le parole.
di Giuliano Boccali il sole 24 ore 21 giugno 2009


Corrado Pensa, «Il silenzio tra due onde. Il Buddha, la meditazione, la fiducia», Oscar Mondadori, Milano, pagg. 228, €11,40;

Sri Nisargadatta Maharaj, «L'esperienza del nulla. Discorsi sulla realizzazione dell'infinito», a cura di Robert Powell, Ubaldini, Roma, pagg. 112, € 11,00.

Samsoe un'isola di Energia

In dieci anni la danese Samsoe è diventata autonoma al 100 per cento e sostenibile
Parco eolico off-shore.
Dieci turbine da 2,3 mW sono state posizionate in mare. Già nel2006 l'isola di Samsoe ha raggiunto l'obiettivo di coprire il 100% del fabbisogno elettrico. E nello stesso anno ha soddisfatto, grazie al teleriscaldamento, il 70% del fabbisogno di calore

Contrariamente a quella di Peter Pan, l'isola c'è ed è la danese Samsoe, esempio di come diventare completamente autonomi e "rinnovabili" sul fronte energetico nel giro di soli dieci anni.
La realizzazione dell'ambizioso progetto - illustrato da Soren Hermansen all'assemblea milanese di Assocasa sulla sostenibilità - prende il via nel 1997 su iniziativa del governo danese, che a Hermansen affida lo sviluppo del piano.
Sin dall'inizio il progetto è "partecipato" dagli abitanti. Da subito vengono organizzati incontri con la popolazione e gli operatori economici locali per fornire informazioni e ottenerne la collaborazione nel processo di trasformazione energetica. Per la generazione elettrica viene scelta come fonte rinnovabile quella eolica. In tre anni vengono installate le prime 11 turbine sulla terraferma: dieci sulle coste di fronte a Samsoe. e una sull'isola.
A fine 2003 è completato anche il parco eolico offshore composto da 10 turbine da 2,3 mW.
Grazie ai nuovi impianti, già nel 2006 l'isola con i suoi 4.300 abitanti raggiunge l'obiettivo di coprire il 100% del proprio fabbisogno elettrico, con un risparmio di otto milioni di euro sulla precedente bolletta e un saldo netto annuale positivo (+10%), visto che è più l'energia esportata sulla terraferma di quella importata dalla rete nazionale nelle giornate di calma di vento.
E sempre nel 2006, Samsoe è in grado di soddisfare oltre il 70% del proprio fabbisogno di calore (riscaldamento e acqua calda sanitaria) attraverso due impianti di teleriscaldamento. Uno, nella parte nord dell'isola, è costituito da 2.500 metri quadrati di pannelli solari, integrati con un bruciatore alimentato con trucioli di legno. Il secondo, nella parte meridionale, utilizza per la produzione di energia termica un impianto a biomasse. Il resto lo hanno fatto sin da subito gli abitanti dell'isola che, una volta coinvolti, hanno partecipato attivamente al progetto di sostenibilità del loro territorio. Molti proprietari di casa, non serviti dal teleriscaldamento, hanno sostituito le caldaie tradizionali con pannelli solari, pompe di calore geotermiche e stufe alimentate con segatura e pellet. E alcuni si sono dotati anche di piccole turbine eoliche per essere del tutto autosufficienti.
Gestione virtuosa anche per le risorse idriche: le acque "grigie", quelle non potabili utilizzate per l'irrigazione o il lavaggio delle strade, sono di origine piovana.
Resta per ora fuori il sistema dei trasporti che continua a funzionare con i derivati del petrolio, le cui emissioni sono però ampiamente bilanciate dagli abbattimenti conseguiti (-140% di C02 rilasciata nel decennio) dalla generazione eolica e dalle soluzioni rinnovabili per l'energia termica. Ma anche sul fronte dei trasporti i cittadini e gli amministratori di Samsoe sono intenzionati a individuare soluzioni alternative.
L'Accademia dell'Energia, creata nel 2006 e di cui Hermansen è direttore, è impegnata in un progetto per trasformare l'olio di ravizzone in carburante e ha come prospettiva l'impiego di idrogeno da prodursi in modo pulito con l'energia generata dal parco eolico.
L'esperienza dell'isola danese ha ottenuto riconoscimenti internazionali ed è meta di visite di ricercatori, responsabili di aziende energetiche e amministratori pubblici. Senza dimenticare le ricadute positive per l'economia locale e la creazione di posti di lavoro che la "dichiarazione" di indipendenza energetica dalle fonti fossili ha prodotto. Gli investimenti, ampiamente ripagati dal saldo netto energetico dell'isola, sono ammontati a 60 milioni di euro, di cui sette finanziati con fondi della Ue.
IL PROGETTO E STATO GUIDATO DA Soren Hermansen, EROE PER L'AMBIENTE SECONDO TIMES


Cristina Forghieri

II Sole 24 Ore.Giovedì 18 Giugno 2009

mercoledì 2 settembre 2009

Data base europeo per le buone pratiche eco

C'è un altro modo di combattere i problemi climatici a prezzi più bassi e più velocemente: puntare sulle microenergie e l'uso efficiente dell'energia. (Amory Levins, fisico ed esperto energetico) Città da ripensare.
Soprattutto in chiave ambientale. L'ultimo rapporto dell'Agenzia Europea dell'Ambiente è pieno di spunti positivi. Certo in un panorama indubbiamente difficile come quello dettato dai cambiamenti climatici e dagli effetti che possono avere soprattutto sulle aree prospicienti la costa, con incremento delle alluvioni e innalzamento del livello dei mari.
L'Agenzia ha così lanciato una piattaforma per lo scambio delle buone pratiche: entro l'autunno vedrà la luce l'European Union Clearing House Mechanism dove le autorità locali si scambieranno le informazioni sulle soluzioni messe in atto per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, particolarmente dannose anche dal punto di vista economico.
Tra le buone pratiche finiranno quasi sicuramente le attività di audit energetico effettuate dai comuni lombardi con il sostegno della Fondazione Cariplo. Grazie a questo importante lavoro di analisi dei consumi energetici degli edifici pubblici oggi esiste un sito Internet {www.webgis.fondazionecariplo.it) dove sono consultabili le informazioni sui consumi relativi a circa 2.400 edifici e un approfondimento sugli interventi (oltre 2.300} di efficienza energetica suggeriti per 700 edifici.
La banca dati utilizza un applicativo che consente dì localizzare e visualizzare gli edifici sul territorio: se si intervenisse sarebbe possibile ridurre del 30-35% la bolletta energetica e tagliare le emissioni di oltre 25mila tonnellate di C02. In autunno troveremo quindi diversi comuni impegnati a fare il cappotto alle scuole invece che a realizzare nuove rotatorie mentre l'Associazione dei comuni italiani si è impegnata a diffondere le procedure per poter acquisire i dati indispensabili a valutare e decidere gli investimenti per ridurre la bolletta energetica e quella ambientale.

di Andrea Di Stefano REPUBBLICA DELLE DONNE 29 agosto 2009

Ragioni per vivere

Mi è piaciuta la recensione....


ATTENTI A QUEL LIBRO
di Tiziano Gianotti
Amy Hempel, Ragioni per vivere, Mondadori, 18 euro, esce l'8 settembre
"Il mio cuore - credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio".
È l'attacco del primo racconto della prima raccolta di Amy Hempel. Ragioni di vivere (1985. tradotta nel 1986), bel titolo riproposto ora per queste collected stories, che aprono in modo sontuoso quella che si profila come una grande stagione.

La frase d'abbrivo contiene già i motivi maggiori della sua arte: la presenza della morte, il viaggio in auto, l'interrogazione muta - e ci dice subito che siamo in America.
Una frase memorabile, come tante dell'autore, che costruisce le sue short stories sulla composizione ritmata, armoniosa di frasi perfette, miracoli di precisione.
Potremmo dire che Amy Hempel è la frase. E quanto alla "precisione", al suo valore per lo scrittore - e non solo - rimandiamo a Offertorio, racconto di una ossessione erotica di raciniana clarté, vero suggello al libro.
Sono tanti, i racconti memorabili - e c'è una notevole novella, quasi una summa dei motivi dello scrittore, che è anche il prologo a Offertorio.
Protagoniste, le donne. Dure e fragili, selvatiche sempre, melanconiche e belle - non glamorous, belle sul serio. Donne che sbagliano e ripartono, parlano di sentimenti e di fantasmi e di uomini che sono figura di fantasmi, amano i cani e gli altri animali, hanno paura di volare e viaggiano in treno coast to coast, soprattutto amano stare al volante, sole. Donne che sanno quello che vogliono, ma non se lo ricordano più, qualcuna di loro vittima di una fatale lealtà alla madre, alla disgrazia: una di loro si sveglia sempre nella posizione in cui la madre venne trovata morta. Intorno a loro, gli States.
Un posto dove è bello stare ai bordi dell'acqua, che sia oceano fiume lago, guidare e ascoltare i pensieri ("Chiamatela meditazione. Chiamatelo ronzio") e succede di cambiare casa spesso e volentieri.
Su tutto, la frustrazione - una glassa velenosa sul cuore: "La frustrazione strappa le erbacce, non compone mazzi di fiori".
Una voce inconfondibile, modulata in accordo con quella naturalezza che è la "giocosità del cuore" a cui anela la protagonista del racconto d'apertura: la naturalezza che si ottiene con la pratica costante dell'artificio e del pericolo. Ecco cos'è quel rumore di fondo, la tensione del filo inossidabile di Amy Hempel: "Così forse sono un animale selvatico che si scrolla di dosso il trauma della mancata cattura". Perfetto, miss Hempel.

La repubblica delel donne, 29 agosto 2009

Le donne dimenticate di Kabul

Si è persa memoria dei motivi ufficiali per cui gli Stati Uniti e i loro alleati, tra cui l' Italia, sono intervenuti militarmente in Afghanistan.
Il principale motivo ufficiale era vendicare l' attentato alle due torri di New York, catturandone il mandante, Bin Laden, che si riteneva si trovasse, appunto, in Afghanistan protetto dal regime dei talebani. Quel Bin Laden e quei talebani i cui misfatti a danno della popolazione afgana e in particolare delle donne afgane erano stati tollerati fino a quel momento in funzione prima antisovietica e poi antirussa.

Proprio la liberazione della popolazione civile da una dittatura insieme militare e religiosa feroce, e in particolare la liberazione delle donne afgane dallo stato di segregazione e subordinazione in cui erano state ridotte anche nelle città e nei ceti ove in precedenza avevano goduto di qualche libertà ha costituito il motivo retorico "positivo" dell' intervento.
Ricordo Barbara Bush che si rivolse alla nazione, al posto del marito, chiedendo che si intervenisse per liberare le donne afgane.
E i giornali del mondo occidentale erano pieni di foto di donne con il burqua, sul cui destino di oppresse fin nei movimenti fisici e nei movimenti ci si commuoveva.
Naturalmente i motivi di quell' intervento erano più complessi (e forse meno dicibili). E naturalmente c' era molta ingenuità (o malafede) nel pensare che bastasse eliminare i talebani per introdurre un minimo di democrazia in un paese diviso dalle etnie oltre che provato da ricorrenti attacchi esterni. E ancora più ingenuità nel pensare che l' oppressione delle donne dipendesse solo dai talebani.
Questi in realtà si erano limitati (si fa per dire) a imporre a tutte un comportamento diffuso in diverse tribù, specie nelle campagne, assecondando così anche i desideri di molti uomini che vedevano di malocchio e con timore la circolazione delle donne negli spazi pubblici, nelle università e nelle professioni. Infatti i burqua non sparirono, né subito, né dopo, anche se alle ragazze venne concesso di nuovo di andare a scuola, pur tra molte difficoltà e più nelle città che nelle campagne.
Nel frattempo, non solo Bin Laden non è stato catturato, ma i talebani non sono stati sconfitti. Anzi si sono rafforzati, anche in conseguenza della corruzione del governo sostenuto da governi e armi occidentali. Quello stesso governo che ha venduto anche la fragile libertà giuridica delle donne in cambio del sostegno sciita.
Nonostante le proteste - formali e senza conseguenze - internazionali, la legge che consente ai mariti sciiti di punire le mogli che non si assoggettano ai loro voleri è entrata in vigore. Non vi è nessuna seria azione di contrasto alla chiusura delle scuole frequentate dalle ragazze e alle minacce rivolte a chi le frequenta.
La fissazione sul burqua e la confusione tra questo e ogni altro tipo di velo islamico che ossessiona gli occidentali (quando ci si incomincerà a interrogare sull' obbligo per le donne che si recano in udienza dal Papa di portare il velo?) sembra distogliere dall' attenzione per le condizioni concrete di vita in cui si trovano le donne afgane dopo l' intervento "liberatorio" occidentale.
Anzi, la loro "liberazione" è sparita tra gli obiettivi per cui questo intervento continuerà. Ed ora, come denunciano le associazioni non governative, il governo afgano non si è attrezzato per consentire alle donne di votare alle, restrittive, condizioni poste dagli uomini: in seggi a parte, controllati solo da donne.
Per di più, l' obbligo di indossare il burqua e il divieto di farsi fotografare il viso espone le donne ad una assenza di identità pubblica che può far molto comodo ai loro mariti e fratelli, che possono se vogliono votare al loro posto.
In queste condizioni, a chi potranno affidare le proprie speranze, in chi potranno riporre la propria fiducia le donne afgane?
I liberatori le hanno vendute e vecchi e nuovi vincitori sono pronti a spartirsi le spoglie della loro libertà, a partire da quella minima, ma fondamentale, del controllo del proprio corpo. Non è la prima volta nella storia che la libertà delle donne viene venduta in cambio di potere. E non sarà neppure l' ultima. Ma, almeno per decenza, i campioni dell' occidente dovrebbero smettere di proclamare la propria superiorità in questo come in altri aspetti. Mentre anche nei loro, nei nostri, paesi, la libertà femminile è sempre fragile, quando si tratta di altre donne, di altri paesi, sono pronti ad accettare qualsiasi compromesso dai governi di volta in volta "amici". -

CHIARA SARACENO Repubblica — 19 agosto 2009

Quando vince la barbarie - di Tahar Ben Jelloun

Quello in corso è uno scontro tra chi tratta le donne come bestie e chi le tratta come esseri umani

Lo scontro tra civiltà si palesa a volte in situazioni ridicole, in comportamenti stupidi, frutto di grande arroganza e ignoranza. Un buon esempio è la scena cui ho assistito giorni fa, mentre mi trovavo nel Sud del Marocco.

Su una strada stretta e piena di buche arriva a tutta velocità un'auto decappottabile: una macchina sportiva, forse una Porsche. Alla guida c'è un giovanotto alla moda, testa rasata, occhiali neri e sigaretta in bocca. L'autovettura dev'essergli costata cara: quanto una prateria, l'appannaggio di un principe, o un'intera vita di lavoro all'estero. Il giovanotto, evidentemente fiero del suo veicolo, frena alla nostra altezza, e mostra il paesaggio a una donna seduta accanto a lui. Ma questa donna è completamente avvolta da un velo nero, con guanti neri e occhiali scuri a coprire la parte libera del volto. Un fantasma, una cosa quasi immobile e muta. Mi ricorda le ultime pagine delle 'Voci di Marrakesh' di Elias Canetti, in cui si parla di una cosa nera che si muove appena, ove non si distingue un corpo, né le sue membra - ma forse là sotto c'è qualcosa di umano.

Il giovanotto scende dalla Porsche, si accende una sigaretta e dice in francese: "È bella la mia terra!". La donna sequestrata nel sudario nero annuisce, ma non apre bocca. Senza che gli abbia rivolto la parola, lui mi dice: "Mi sono sposato e ora riparto con mia moglie. Ma c'è un problema per i documenti: pretendono una foto di identità a viso scoperto. Sono pazzi, ecco come stanno le cose!". E intanto sfiora più volte con la mano il parafango dell'auto, come se accarezzasse la gamba di una bella ragazza nuda. Dall'accento desumo che proviene dal Rif, dove si coltiva la materia prima dell'hashish, il kif. Soldi facili e stupida arroganza. Sta al volante come se fosse sul punto di decollare per la luna, e al tempo stesso tratta sua moglie come una schiava, anzi come una cosa: un pacco avvolto in arredi funebri. Come c'era da aspettarsi, si mette a parlare al cellulare. In olandese. Abita a Rotterdam, a giudicare dalla targa dell'automobile. La "cosa" lo seguirà nel suo Paese d'immigrazione, oppure darà incarico ai genitori di spedirgliela come pacco postale?

Quando avvia il motore per ripartire, fa del suo meglio per investirci con una nube di polvere. La cosa nera non è più visibile.

Non avevo voglia di rivolgergli la parola. Non sarebbe servito a nulla. È uno che ha paura delle donne. Il suo è un problema intimo, che rientra nel campo della psicoterapia. Ha paura che la sua donna gli possa essere sottratta, violata con lo sguardo, desiderata in sogno. Perciò la sorveglia, finché un giorno la poveretta finirà per risvegliarsi, e prendersi la sua rivincita. È successo altre volte.

Quell'individuo basta a illustrare tutte le contraddizioni di una mentalità che risale all'età della pietra, ma con un piede nel XXI secolo. È uno che fa uso dei mezzi tecnici più sofisticati, ma al tempo stesso tratta sua moglie come un capo di bestiame.

Situazioni del genere sono state denunciate con grande forza e coraggio da una donna araba, una psicologa che vive a Los Angeles, in occasione di un dibattito con un teologo egiziano, trasmesso ai primi di luglio da Al Jazeera. Ho trascritto le sue parole, e cito qui alcuni passaggi: "Il fenomeno cui assistiamo oggi non è uno scontro tra civiltà, è la contrapposizione tra mentalità medievali e mentalità del XXI secolo, tra civiltà e arretratezza, barbarie e razionalità, democrazia e dittatura, libertà e repressione. È uno scontro tra i diritti umani da un lato e la loro violazione dall'altro. Uno scontro tra chi tratta le donne come bestie, e chi le tratte come esseri umani..".

Questa donna parla con calma, scandendo le parole, e dice le sue verità a un mondo in cui regna l'ipocrisia e l'oscurantismo. Che lo si voglia o no, esistono di fatto oggi due mondi contrapposti: il mondo della libertà e quello della barbarie. Il mondo di chi ha fatto demolire le statue buddiste in Afghanistan, di chi manda i giovani a farsi esplodere nei luoghi pubblici, di chi minaccia la pace del mondo richiamandosi a un islam del tutto estraneo a questa brutalità, a questa follia. Come ha detto quella donna coraggiosa, "i musulmani devono chiedersi cosa possono fare per l'umanità, prima di esigere che l'umanità li rispetti!".

E dire che il giovane immigrato schizzato via sulla sua Porsche nera con accanto la donna in nero era convinto di essere un buon musulmano!

traduzione di Elisabetta Horvat
(28 agosto 2009)

La molecola salvavita che sconfigge l'ictus

I risultati dei test sul nuovo farmaco. In Italia ogni anno 9.000 vittime in meno

BARCELLONA - Ogni ora un ictus cerebrale in meno, ogni giorno 25, ogni anno novemila in meno solo in Italia, nel mondo oltre un milione. Questo il risparmio in vite salvate, in corpi paralizzati a metà per sempre evitati e relativi costi medici e sociali che porterà un farmaco, dabigatran etexilato il nome scientifico, i cui risultati sperimentali sono stati annunciati ieri al Congresso Europeo di Cardiologia (ESC) in corso a Barcellona.
Il farmaco agisce su cardiopatici colpiti da fibrillazione atriale e che sono per questo ad alto rischio di ictus.

"Si tratta di una molecola destinata a cambiare radicalmente la prevenzione dell'ictus nei pazienti con fibrillazione atriale - afferma Roberto Ferrari, presidente dell'ESC - un problema che hanno 500.000 persone in Italia, cui si aggiungono 60.000 nuovi casi all'anno".

La ricerca (nome in codice RE-LY, pubblicata in contemporanea sul New England Journal of Medicine), la più ampia in questo campo, ha coinvolto 18.113 pazienti in 44 paesi, Italia compresa (con 274 pazienti seguiti da 18 centri), confrontando la nuova molecola con la cura standard, in uso da circa 50 anni. Rispetto alla vecchia terapia, la nuova ha ridotto i casi di ictus 34% e del rischio di morte del 12%.
La fibrillazione atriale è il più comune disturbo del ritmo cardiaco. E', in pratica, la paralisi dell'atrio, la cavità del cuore posta sopra il ventricolo dove riversa il sangue che gli arriva dal corpo. Questo ristagno dell'atrio forma spesso dei piccoli coaguli che, entrando in circolo, vanno a chiudere piccole arterie. Quando il "tappo" si ferma nel cervello è l'ictus. che nei soggetti con fibrillazione atriale è 7 volte più frequente che nel resto della popolazione.

La strategia preventiva sinora è stata quella di somministrare costantemente e per tutta la vita farmaci che diminuiscono la capacità del sangue di coagulare, riducendo così la probabilità che si formino "tappi" nell'atrio fermo e poi se ne vadano nel cervello. Le vecchie terapie funzionano ma a un prezzo alto per il paziente.
Il rischio di ictus si riduce di ben il 65%, in cambio il paziente deve fare, all'inizio della cura, un esame del sangue ogni pochi giorni e poi uno ogni tre settimane per stabilire prima e controllare poi che il potere di coagulazione sia ridotto entro certi limiti, ma non oltre, altrimenti si rischiamo emorragie interne, anche fatali. (nota mia: il mio papà è morto proprio per questo, nella calda estate del 2003)
Il paziente inoltre deve evitare attività a rischio traumi, sempre per il rischio di emorragie interne, modificare la sua alimentazione perché molti cibi comuni interferiscono con il trattamento e a volte anche le cure per altre patologie per interferenze coi relativi farmaci.
Tra analisi del sangue e cure delle complicazioni ogni paziente costa 3 mila euro l'anno. La nuova cura invece, oltre a ridurre ulteriormente il rischio, non richiede nulla di ciò: dosi fisse, due pillole al giorno, e non vi è bisogno di controlli ne interferisce con farmaci ed alimenti. Il dabigatran etexilato è già disponibile in tutta Europa dall'inizio del 2008 in seguito alle ricerche che ne dimostrarono l'efficacia contro la tromboflebite venosa. Bisognerà attendere i primi mesi del prossimo anno per l'autorizzazione al nuovo uso.

Speriamo bene, anche perchè in questi giorni mi trovo a combattere con il mal di stomaco da aspirinetta, e ci sono voci discordanti sul come prendere i gastroprotettori: al mattino mezz'ora prima di mangiare? alla sera? boh!
La Repubblica, 31 agosto 2009

martedì 1 settembre 2009

Le badanti in Europa

In Europa, il fenomeno delle badanti non è diffuso come in Italia.
In Danimarca, per esempio, non esiste. Gli anziani non autosufficienti sono ospitati in stanze singole dentro a istituti arredati come appartamenti, e le spese le paga lo Stato. Strutture di questo tipo sono diffuse in tutti i Paesi del nord Europa, specie per chi non può rimanere solo la notte.

Ma esistono aiuti di vario tipo, a seconda della pensione e dei bisogni dell'anziano. ;
In Francia gli assistenti domiciliari li manda il comune, e le spese sono detraibili dal 10% al 100%.
In Irlanda e Gran Bretagna esistono agenzie di assistenza specializzate a cui rivolgersi. Dublino permette di scaricare fino a 50 mila euro, Londra paga le spese o dà la stessa cifra direttamente alla famiglia.
In Spagna è previsto un contributo statale, fino a 500 euro al mese, purché il contratto sia regolare.
In Germania, invece, qualche caso di badante senza contratto è stato riscontrato, ma sono poche. I servizi sociali, infatti, seguono a domicilio gli anziani anche per cinque ore al giorno e i non autosufficienti hanno strutture specializzate. Ed è tutto già pagato: nello stipendio è previsto un contributo per l'assistenza in età avanzata.
Il Venerdi di repubblica, 28 agosto 2009

dietro la moneta può non esserci denaro

Questo libro mi ha chiarito le idee su un argomento fondamentale sul quale, arrivato a una rispettabile età, avevo idee approssimative. Il titolo è "La distinzione tra moneta e denaro" scritto da Maria Grazia Turri. L'autrice insegna comunicazione aziendale all'università di Torino. È un'economista ma nel libro la sua materia sconfina anche nella filosofia. Potrà sembrare incredibile, ma un oggetto essenzialmente «materiale» come la moneta è influenzato come pochi altri dalla psicologia e dal flusso delle idee.

Il libro tratta anche aspetti tecnici dell'argomento, niente però che un lettore normalmente allenato e non specialista (come me) non possa affrontare. Dunque moneta e denaro due categorie profondamente diverse anche se non tutti lo sanno.
Attingo dalla chiarissima introduzione di Maurizio Ferraris: il denaro è un concetto che vive nel tempo ma non nello spazio. S'incarna, passa cioè dello stato di concetto a quello concreto di oggetto, in diverse materie tra le quali la moneta. La moneta però non è solo il corrispettivo concreto dell'astratto denaro. Svolge varie funzioni: numerario, mezzo di pagamento, mezzo di scambio, riserva di valore. Com'è noto una volta le monete erano (anche) d'oro. In una seconda fase ci si accontentò di pensare che i pezzi di carta sui quali era scritto un certo valore (diecimila lire; cinquecento euro, dieci dollari ecc.) fossero convertibili in oro se portati all'istituto che li aveva emessi. Da tempo però la convertibilità in oro non è più garantita dalle banche centrali. I cinquecento euro o i dieci dollari vanno dunque per il mondo e servono a comperare questo e quello unicamente sulla base della fiducia. Il loro valore intrinseco è zero così com'è zero il valore intrinseco del pezzetto di plastica che si chiama carta di credito. Il fatto che la moneta abbia continuato a circolare non valendo più niente in sé ha separato il suo «valore» dal suo «potere» avviando una spirale che è arrivata fino alla fantafinanza alla quale dobbiamo l'attuale crisi. L'aspetto innovativo del saggio è rimettere insieme denaro e moneta facendo scaturire da questa ricomposizione una funzione sociale che una spregiudicata separazione ha compromesso. Come possiamo constatare ogni giorno.
Corrado Augias il venerdi di repubblica 28 agosto 2009