martedì 30 dicembre 2014

auguri per un felice 2015

Alle mie affezionate lettrici e lettori, tanti auguri per un 2015 di pace e felicità.

Quest'anno i post sono meno dell'anno scorso: la ragione è che per diffondere idee, documenti e proposte "corte" che spero siano interessanti per altri e non solo per me ho spesso utilizzato Facebook, che per certi versi è più veloce e permette di contattare persone nuove. Al non blog ho riservato le cose più corpose. Ovviamente FB ha anche i suoi difetti, essendo un mare magnum nel quale si rischia di navigare, nuotare per ore fino ad affogare senza avere combinato nulla. Da parte mia, ho tolto ad esempio le notifiche dei post via email e smartphone, e i post me li vado a cercare quando mi pare. Ho oscurato dalla visione automatica anche molta gente simpatica che sì ti chiede l'amicizia, e gliela dai volentieri, per poi scoprire però che posta venti cose al giorno che vanno dalla foto del cane a quella della bistecca del vicino, oppure gira post che sono bufale pazzesche o vecchie come il cucco.
E disattivo anche le funzioni "dove sono", e non posto foto mentre  sono in vacanza (un'amica l'ha fatto, e le hanno svaligiato la casa).

Insomma, grazie a chi mi segue e a chi magari mi invia anche una email di commento!
Giorgio Gregori





Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Chi era Fabio Curti? Chissà! Sicuramente una istituzione, per chi a Brescia segue i numerosissimi concerti e mostre (non è vero che a Brescia non succede niente, chi lo dice si trasferisca a New York e viva là felice e contento). Lo definivo "il professore". Mi dava l'idea di quegli insegnanti in pensione, solitari, abbandonati da tutti e che magari hanno difficoltà a tirare avanti. Le prime volte che lo vidi, decenni fa, alla inaugurazione di qualche mostra, aveva l'aria dell'"imbucato", di chi è lì per mangiarsi le tartine e rimediare la cena. Prendeva i depliant, e via per un'altra inaugurazione. Ma era anche ai concerti (senza tartine). E chi riusciva a scambiare due parole con lui, scopriva una persona molto curiosa (nel senso che era piena di curiosità, chiedeva notizie degli strumenti, come suonarli, ecc.). Ce ne sono sempre meno, di quelle persone. E rimpiango di non avere mai avuto il coraggio di parlargli, di chiedergli notizie di sè. Bello l'articolo che gli dedica Massimo Minini.


Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Fabio Curti era come un fantasma. Un po' quel­l'impermeabile bianco, stile tenente Colombo che già di per sé dava un'idea di understatement, qualcu­no che "seguiva un suo pensiero senza troppo curarsi delle apparenze.
Cosa pensassero gli altri di lui non é che non gliene importasse, semplicemente era troppo occupato a rincorrere gli avvenimenti di sep­pur vago sapore culturale per porsi il problema. Guardava per terra davanti a sé mentre camminava, un po' per timidezza, un po' per la schiena, un po' per il peso del bottino; non salutava per troppa concen­trazione, sembrava non vedere. Invece vedeva tutto e ultimamente mi faceva persino dei trattenuti sorri­si...
Poi il suo incedere, con quella piega in avanti, chissà', una scoliosi, una deviazione o forse solo il peso delle carte che gentilmente, con mano (anzi manina) delicata ma determinata raccoglieva ad ogni dove.
Chissà chi era Fabio Curri, dicono un ingegne­re: se é vero, un Ingegnere anomalo, uno ammalato di cultura, di curiosità, di collezionismo spinto alla manìa. Uno che, narra la leggenda, rimase sotterrato sotto un catasta di documenti raccolti puntigliosa­mente negli anni, documenti che gli si sono ribellati, sotterrandolo. L'ho conosciuto, la prima volta, con il professor Giancarlo Piovanelli, mio insegnante di Storia dell'arte, anni fa. Vennero in galleria e restaro­no a parlare, veramente parlava solo Piovanelli, cui notoriamente non manca la parola specialmente se si parla d'arte. E mentre io e il mio ex professore ri­percorrevamo le nostre vite, lui allungava sguardi pieni di un triste ma determinato interesse verso le amate «carte». E si vedeva che le avrebbe anche man­giate pur di averle. Quel giorno gli diedi tutto quello che potevo e lui usci felice col suo sacchetto di plasti­ca bianco, anonimo, quelli dei fruttivendoli che non possono permettersi la sovrastampa personalizzata.
Quel sacchetto che sempre lo accompagnava, vuoto all'inizio del periplo, gonfio del cartaceo bottino al termine del suo «voyage au bout de la nuit». Niente a che vedere con Celine, un amico mi suggerisce piut­tosto Truffaut. lo propenderei per Monsieur Hulot e Jacques Tati, non fosse che la statura non corrispon­deva.
Sabato era in prima fila in Santa Giulia alla pre­sentazione del grande libro sulla Pinacoteca. Poco dopo non c'era più. Ma come é possibile? Ma come è possibile! E il suo archivio? Lo immagino enorme, di­sordinato, impilato in disequilibrio, non credo po­polato tanto di libri quanto piuttosto da documenti. Chissà dove abitava. Aveva una famiglia? Figli? Stavo per andare a trovarlo e capire come era fatto quel te­soro, forse una collezione importante per la cultura a Brescia. Posso chiedere agli eredi di non buttare via quelle montagne di cartacce e di farcele consultare?
Massimo Minini

Corriere della Sera, 24 dicembre 2014

mercoledì 24 dicembre 2014

Natale - La recente invenzione dei regali

E...buone feste e felice anno nuovo a tutti quelli che seguono questo non-blog!
Giorgio Gregori

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La  recente invenzione dei regali
Gianfranco Ravasi

sole 24 ore 21 dicembre 2014

So che, scrivendo questa recensione, sto compiendo un atto autolesionistico. Ma devo essere sincero, ricevendo i regali di Natale, l'unica preoccupazione che ho è quella di non smarrire o confondere i cartoncini d'auguri col nome del donatore per la corretta calibratura del ringraziamento. Il dono natalizio è, comunque, un cerimoniale che permane anche in un'epoca così secolarizzata. Sulla sua ritualità si sono sprecate le più esilaranti ironie, a partire dal riciclaggio mal riuscito (il biglietto del primo donatore dimenticato nell'involucro) e dalla reiterazione (un anno a Natale mi furono regalate otto copie dello stesso libro d'arte). Ebbene, in tempi di iperspecializzazione, c'è anche chi, come la socio-etnologa francese Martyne Perrot, si è consacrata al fenomeno "natalizio" in tutte le sue caratteristiche di antropologia culturale, escludendo però la matrice originaria autentica, quella neotestamentaria, che è pur sempre la radice di questa tradizione.
Così, ha scritto un'indagine sull'Etnologia del Natale, tradotta in italiano da Elèuthera nel 2012, si è dedicata alle Idées reçues sur Noël (2002), ha scavato Sous les images, Noël (2002), si è interrogata se mai Faut-il croire au Père Noël? (2010) e ora si consacra alla storia dell'invenzione ottocentesca del Regalo di Natale. Devo riconoscere che quest'ultimo mini-saggio è gustoso. Dall'alto delle tesi sul dono di Marcel Mauss o dalla sempre emozionante Christmas Carol di Dickens ci fa insensibilmente scivolare fino ai cataloghi pubblicitari e alle ultime leggi dello shopping natalizio da celebrare nei nuovi templi della domenica che sono i centri commerciali. Là, tra l'altro, si ha la conferma sperimentale di quanto scriveva Eric Fromm già nel 1956 nella sua indimenticata Arte di amare: «La felicità dell'uomo moderno: guardare le vetrine e comprare tutto quello che è possibile in contanti o a rate».
Proprio per questo la Perrot ha un capitolo dedicato anche al "Natale in vetrina", i cui primi modelli – con tanto di neve artificiale, stelline baluginanti, bambini vezzosi e le renne di Santa Claus – appaiono negli Stati Uniti attorno al 1880 e dilagano poi in Francia e nel resto d'Europa. A proposito di Santa Claus, che ha anch'essa il suo bel capitolo, è necessario ribadire ciò che è noto ai più. La denominazione è una deformazione derivata dall'area anglosassone del "Sankt Niklaus", il san Nicola tanto caro ai baresi e, prima di loro, ai cristiani orientali (anche Andy Warhol, memore delle sue radici bizantine, ci ha lasciato una "Santa Claus", ormai trasformata nelle vesti del popolare Babbo Natale). Al santo, infatti, la leggenda ha assegnato un gesto che persino Dante rievoca quando parla della «larghezza che fece Niccolao a le pulcelle, per condurre ad onor la giovinezza» (Purgatorio XX,31-33). A tre giovani donne, che un padre in miseria stava per votare alla prostituzione per ragioni di sopravvivenza, il santo originario di Myra in Turchia era venuto in soccorso introducendo di notte nella loro stamberga tre borse colme di monete d'oro.
Dovrebbe essere questo il senso genuino del dono natalizio, tenendo conto del vero festeggiato, Gesù Cristo, la cui nascita è segnata dalla povertà, è accompagnata dall'incubo di una strage di bambini e sfocia in una migrazione da profugo, un po' come si ripete ai nostri giorni nei viaggi dei disperati lungo le rotte del Mediterraneo. A questo Bambino il s. Nicola vero (e non tanto il mitico Babbo Natale o la fantasiosa Santa Claus) cederebbe il passo volentieri. In questa linea mi sembra suggestivo evocare un paragrafo di un articolo di Alberto Moravia. È una sorta di breve omelia natalizia "laica" che invita a spogliare il Natale dalla carta lustra dei pacchi dono.
Scriveva, infatti, l'autore della Noia: «Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori tirano fuori dal mare con le loro reti, tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose, eccetera, eccetera». Con veemenza maggiore e una carica oratoria quasi secentesca, nel 1954 Curzio Malaparte condannava la "suprema ipocrisia" di un simile Natale da strenna: «Vorrei che la notte di Natale in tutte le chiese del mondo un povero prete si levasse gridando: Via da questa culla, ipocriti, bugiardi, andate a casa vostra… Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l'orrore del mondo in bocca!».
Detto questo, è però necessario non cadere in un radicalismo ascetico moralistico e in un'austerità savonaroliana: dopo tutto Cristo ha anche amato stare a tavola, al punto tale che il rigorismo farisaico l'aveva bollato come «un mangione e un beone» (Matteo 11,19). Proprio per questo il libro della Perrot può far riscoprire il fascino che si cela anche nei riti collettivi, la freschezza dei sentimenti, la tenerezza dei ricordi dell'infanzia, l'allegria della festa, l'intimità familiare e persino la verità dell'unico detto di Gesù non citato nei Vangeli ma riferito da san Paolo: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35). Sarebbe, questo, anche un modo per infrangere la logica rigida ed esigente dell'utilitarismo con un tocco di libertà e di gratuità.
Adorno nei Minima moralia aveva ragione quando affermava che «uno regala quello che gli piacerebbe per sé, ma certamente di qualità inferiore», facendo così riaffiorare l'egoismo come prima regola del nostro agire. Martyne Perrot nelle sue pagine cita le sei "regole invisibili" coniate dal sociologo americano Theodore Caplow (leggetele nelle pagine 130-132), applicate da chi sta sfogliando i cataloghi commerciali o approda in un negozio di articoli-regalo per Natale. C'è molta malizia ma anche molta verità in quelle norme non dichiarate ma praticate. Eppure se non ricevessimo nessun dono, se nessun Babbo Natale si affacciasse alla nostra porta, nessun postino o Dhl ci recapitasse un pacco-dono, resteremmo proprio del tutto indifferenti?

Martyne Perrot, Il regalo di Natale. Storia di un'invenzione, traduzione di Romeo Fabbri, Dehoniane, Bologna, pagg. 160, € 13,50

lunedì 15 dicembre 2014

Umberto Eco - Prove dell'eternità del mondo

Grande ammirazione per le capacità logico filosofiche di Umberto Eco. Ma ho la vaga impressione che alla fine, anche lui goda nel descrivere questo delirio sul nulla....

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Umberto Eco - Prove dell'eternità del mondo

L'idea di una eternità del mondo era considerata una pericolosa eresia: infatti, se il mondo fosse eterno allora non ci sarebbe più bisogno di un Dio creatore, e la Bibbia avrebbe mentito quando diceva «In principio Dio creò il cielo e la terra».
Tommaso non può asserire che il mondo sia eterno, ma nel suo tentativo di conciliare fede ragione compie nel De aeternitate mundi una operazione quasi spericolata: ragionando secondo onestà e secondo logica, senza farsi influenzare dalla sua fede, arriva a una conclusione sconvolgente. Egli crede a un mondo creato perché glielo dice la rivelazione, ma filosoficamente non può dimostrare che il mondo non sia eterno. E siccome presumere che il mondo esista da sempre, senza che debba la sua esistenza a qualcosa che possiede l'essere in massimo grado è – sostiene Tommaso – errore abominevole anche per un filosofo, egli tenta una sua soluzione. Infatti sostiene che una cosa è dire che il mondo dura da sempre nel tempo e una cosa dire che dura da sempre per natura.
Tutte le cose di questo mondo, per esempio un fiore, nascono perché nella materia preesistente esse sono in potenza, poi sopraggiunge la forma-fiore e sboccia il fiore come sostanza. Se dunque Dio avesse dovuto imporre le varie forme su una materia preesistente questo significherebbe che il mondo, come materia informe, ovvero pura possibilità, esisteva prima del suo atto creatore, il che è impossibile. Tuttavia Dio ha creato gli angeli senza che ci fosse materia preesistente (infatti l'angelo non ha materia ed è pura forma), quindi non è necessario che Dio crei da una materia preesistente. Dio, allora, può avere creato qualcosa che era stato da sempre? Si dovrebbe sostenere che ciò non è possibile. Se prima il mondo non c'era e poi Dio l'ha creato, allora il mondo è nato dopo il gesto creatore di Dio.
Ma questo è vero secondo il modo di pensare di noi uomini, abituati a vedere la sequenza delle cause e degli effetti che si dispiegano nel tempo: prima c'è il calcio e dopo la pietra rotola per la pianura. Ma ci sono cause che non precedono il loro effetto in termini di durata nel tempo: per esempio la luce, che è sì effetto del sole, ma nel preciso momento in cui appare il sole, c'è la luce. Parimenti il fuoco è certamente causa del calore, ma il calore appare nel preciso istante in cui appare il fuoco. Oppure si immagini un piede che dall'eternità abbia impresso la sua orma nella sabbia, nel senso che non prima ci fosse il piede e poi qualcuno lo abbia posato sulla sabbia, ma che il piede sin dall'eternità sia nato come piede-sulla-sabbia. La sua orma sarebbe effetto del piede, ma non sorgerebbe dopo che il piede si è impresso sulla sabbia, bensì apparirebbe nel momento stesso in cui apparisse il piede.
In questi casi il rapporto tra causa ed effetto, movente e mosso, necessario e contingente, e così via, non dovrebbe essere visto come durata nel tempo, come il prima e dopo di una clessidra. Il tempo è un incidente del mondo, ma non ha nulla a che fare con Dio, che è eterno.
È vero che, se Dio ha deciso che il mondo esista, ciò è dipeso da un moto della sua volontà. Ma non è necessario che un atto della volontà preceda il suo effetto nel tempo. Immaginiamo che Dio a un certo momento abbia ritenuto opportuno creare il mondo. Se si ammette che il mondo sia una perfezione, Dio come essere perfetto sarebbe restato per una eternità privato da questa perfezione e si sarebbe deciso solo dopo a crearla? È impossibile.
Dunque Dio potrebbe aver voluto il mondo sin dall'eternità. Questo sembra cozzare contro l'obiezione che Dio ha creato il mondo ex nihilo, dal niente. Ma dire che lo ha creato dal niente non significa che prima ci fosse niente e poi ci sia stato il mondo. Se fosse stato così, questo niente sarebbe stato eterno, e in qualche modo si sarebbe dovuto decidere se veniva prima o dopo Dio. Creare dal niente non significa che prima c'era il Niente e dopo qualcosa, come se il Niente fosse qualcosa che viene prima di qualcosa d'altro. Creare dal niente significa che ogni cosa creata riceve il suo essere da altro, senza cui non sarebbe niente, non esisterebbe. Dio ha creato le cose ex nihilo certamente, ma non post nihil, (ossia «dopo un niente preesistente»). E così il mondo riceve il suo essere da Dio, sua causa necessaria, ma coeterna, senza che si debba pensare che prima del mondo ci fosse qualcosa di eterno che si chiamava il nulla. Non è che l'aria sia luminosa perché prima del sole non era nulla. È che senza il sole l'aria non sarebbe niente, non esisterebbe neppure.
Né tiene l'obiezione che se il mondo esistesse da sempre ci sarebbe una infinita quantità di anime, in paradiso o all'inferno. Il mondo può essere esistito dall'eternità senza gli uomini.
Pertanto dal punto di vista filosofico non si può negare l'eternità del mondo. Si crede che il mondo non fosse eterno solo per ragioni di fede.

Domenica del sole 24 ore 30 novembre 2014

mercoledì 26 novembre 2014

La sfortuna di vincere al Lotto

La sfortuna di vincere al Lotto

di Ermanno Cavazzoni 
Il super-enalotto, l'ex totocalcio, le lotterie di Stato eccetera danno a chi gioca la speranza di vincere e di passare grazie alla vincita a uno stato di maggiore felicità.
La prima questione da considerare è quanto si vince.
Se si vince poco, qualche migliaia di euro (considerando che il vincitore sia un impiegato o un artigiano di medio reddito) c'è una breve felicità, ad esempio quel tale cambia macchina, ma tutto resta come prima, con qualche patema in più per i vandali che possono sfregiare o ammaccare la macchina nuova. Se vince qualche centinaia di migliaia di euro compra ad esempio un appartamento, cioè non paga l'affitto, quindi gli avanza qualcosa di più per il cibo, bistecche migliori, con un filo di grasso, ristorante ogni tanto, vacanze tutto compreso con trattamento abbondante, ma la vita più o meno è la stessa, forse un leggero ingrassamento in cintura e un doppio mento leggero, qualche problema alla cistifellea e il colesterolo più alto. Se vince qualche milione, anche in questo caso la vita più o meno sarà la stessa, stessa moglie, tutt'al più divorzia perché l'amante pretende di uscire alla luce del sole, lui ha i soldi per pagare gli alimenti dopo il divorzio, poi tutto si placa e vive con l'amante come viveva prima con l'ex moglie. È più felice? Beh, ha avuto più traversie, con qualche momento di felicità, sommando i più e i meno direi che il tenore medio è lo stesso; poi ci pensa la banca a consigliargli cattivi investimenti, di modo che in poco tempo la vincita si riduce a quasi niente. Può comprare uno o due immobili, può affittarli, e proverà le amarezze del proprietario di immobili, l'ex amante ora moglie gli darà un figlio, e tutto sarà come prima, litigi con la moglie, incomprensioni col figlio, in più litigi con la ex moglie, incomprensioni con gli altri figli, tutto come prima, ma appena un po' peggio e un po' più complicato, di poco.
I problemi veri sorgono se vince cinquanta o cento milioni o di più, perché in qualche modo con quella somma deve farci qualcosa; se la da in banca, la banca a poco a poco la mangia, le banche sono in grado di dissolvere somme immense promettendo straordinari guadagni; intanto il fortunato vincitore ha lasciato l'amante e ne ha presa una più costosa, di fronte alla quale si vergogna di fare il manovale o l'impiegato; cosa fa? mette su un'aziendina, la mette su assieme a un socio, il quale è più esperto ma non ha soldi, e così in poco tempo i soldi che non ha mangiato la banca se li mangia il socio e l'aziendina fallisce; se il socio non ha fretta, se quindi è trascorso più tempo e intanto l'aziendina è diventata un'azienda, il fallimento sarà maggiore. Un muratore che negli anni 60 aveva vinto una somma enorme, aveva avviato un'impresa edile; quando è fallita, com'era inevitabile, e si è trovato solo con dei debiti e con processi pendenti, si è buttato sotto il treno. Ed è stato il risultato della grande vincita. La quale fa sì che le preoccupazioni aumentino, ed essendo il cambiamento improvviso, è probabile che il fortunato non sia all'altezza di amministrare l'impresa; se non fallisce vive in ogni caso nell'ansia, nella diffidenza, nel timore di sbagliare o farsi ingannare; l'amante divenuta moglie spera che quello muoia, e che lei e suo figlio ereditino; la nuova amante spera che muoia la moglie per subentrarle, e aspettare che di lì a poco anche lui muoia dopo averle intestato immobili e conto corrente; come si vede ci sono gravi problemi su tutti i fronti; è probabile ci sia qualche attimo di felicità, un'ora o due al mese, magari al mattino presto, quando tra il sonno e il risveglio il neo bilionario crede di essere ancora uno squattrinato che può prendere il mondo alla leggera, che può immaginare astratte speranze e piccole felicità ottenute con poco, una bella giornata di sole, un viaggetto in macchina senza saper dove, così, per il gusto di perdere tempo. Poi si alza e deve constatare che invece è tutto un assillo e un'infelicità, con punte di pessimismo, desiderio di scomparire, ogni tanto poca voglia di vivere, e una vita che non è quella che desiderava, che non è la sua.
Quindi riassumendo il super enalotto è una falsa promessa, non cambia la vita, e se la cambia, la cambia in peggio. In altri tempi c'era la speranza di essere riconosciuti figli del re, se io fossi re, uno si diceva; beh se uno a circa quarant'anni fosse stato riconosciuto re, sarebbe per lui una tragedia, avrebbe dovuto stare attento al veleno, alle congiure di cui sarebbe stato inesperto e dunque facilmente vittima; e poi badare agli altri re che provocano incidenti al confine per mangiargli tutto, sposerebbe magari una principessa di sangue, la quale vedendo la sua inesperienza e la sua citrullaggine mirerebbe a sostituirlo con l'amante, o col figlio di primo letto, eccetera eccetera.
Al messo che arriva con il proclama per insediarlo come nuovo re, meglio rispondere che si sono sbagliati, che lui non è nessuno, che vive tranquillo così, nessun suo ascendente ha una goccia di sangue aristocratico, grazie ma potete andare, lasciatemi in pace, sentite magari dal mio vicino di casa, che è rumoroso, ogni tanto mi da fastidio, tiene il volume alto e sposta i mobili in continuazione, fategli fare a lui il re, fatelo sposare a una principessa così si toglie dal condominio e sarà inevitabilmente punito per tutti i fastidi che finora mi ha dato. Stessa cosa se qualcuno ti regala un biglietto che poi risulti vincente: mettetelo nascostamente nella buca delle lettere del vicino di casa, o di quel parente prossimo insopportabile, lui sarà stupefatto, sarà felice nell'immediato, complimentatevi con lui, capirà qualche anno dopo come i complimenti fossero ironici, quando io sarò povero e felice, e lui ricco e disperato.

dal sole 24 ore del 19 ottobre 2014

aliquota fiscale unica...che funziona a metà

 Battezzata da Arthur laffer su un tovagliolo nel 1974, usata da reagan e Bush jr, incostituzionale (ma evocata in Italia da Salvini e co.)
Torna l'idea di un'aliquota fiscale unica che freni l'evasione - la flat tax dovrebbe lasciar filtrare ricchezza verso il basso alleggerendo la pressione sui redditi alti - ma funziona a metà

L'economista fa sgocciolare le tasse

La «Curva di Laffer» vive una nuova, controversa, stagione

Ristorante «Two Continents», Washington, quattro strade dalla Casa Bianca. Dopo il caffè, due politici, un professore di economia e un giornalista discutono animatamente di tasse e conti pubblici. A un certo punto l'economista stende il tovagliolo e con la stilografica traccia una specie di campana rovesciata su un fianco. «Vedete? spiega ai suoi interlocutori Non è vero che più si aumentano le imposte e più cresce il gettito fiscale. Anzi, esiste una soglia limite, un punto di svolta oltre il quale accade esattamente il contrario: più lo Stato carica il contribuente, meno incassa». Arthur Laffer ripone la penna con accademica condiscendenza guardando i due uomini seduti di fianco a lui, Donald Rumsfeld e Dick Cheney, collaboratori del presidente repubblicano Gerald Ford. Il più pronto è il quarto commensale, l'editorialista del «Wall Street Journal» Jude Wanniski, che lì per lì battezza quel grafico schizzato sulla salvietta la «Curva di Laffer».

Così almeno l'ha raccontata sul suo giornale lo stesso Wanniski. Era il 1974. Quarant'anni dopo, archiviate le bellicose carriere di Rumsfeld e Cheney, quel disegnino vive una nuova, controversa, stagione. Ora che il paradigma del rigore ha mostrato tutti i suoi limiti, il confronto tradizionale tra la famiglia dei liberisti e quella della sinistra keynesiana si sposta su basi politico-culturali diverse. Merito di alcune opere di grande ambizione, anche se a tratti di impervia lettura, tra le quali spicca il lavoro dell'economista francese Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani), e di altri saggi di più ridotta caratura, come gli scritti e le conferenze di Alvin Rabushka. Questo politologo americano sta conducendo un'intensa campagna per la diffusione della flat tax, il prelievo unico sui redditi con una aliquota tra il 15 e il 20%.

L'idea di un'imposta secca risale al 1956 e fu avanzata da Milton Friedman, il massimo teorico del neoliberismo, che la sistematizzò nel suo fondamentale Capitalismo e libertà (1962, ultima edizione in Italia, Ibl Libri, 2010). Nel nostro Paese la flat tax è comparsa su diverse sponde. Nel 1994 la voleva Silvio Berlusconi e nel 2005 il radicale Marco Pannella. Oggi la rilancia Matteo Salvini, segretario della Lega Nord. In Italia, però, la semplificazione fiscale, il passaggio dai cinque scaglioni attuali a uno solo, presuppone la riscrittura dell'articolo 53 della Costituzione, che prevede la progressività della tassazione. Inoltre resta la grande incognita dell'impatto sulle entrate tributarie e dunque sull'equilibrio del bilancio pubblico.  Il ragionamento torna a quel tovagliolo del «Two Continents», alla «Curva di Laffer», con due teoremi da verificare. Il primo lo abbiamo già visto: la mini-imposta unica incoraggia anche gli evasori a onorare i pagamenti. Il secondo si può enunciare così: bisogna sgravare i contribuenti più ricchi, perché potranno mettere più risorse al servizio dello sviluppo. Il sistema, liberato dai balzelli, sarà in grado di riequilibrare la distribuzione del reddito.
Cambia il meccanismo: anziché la progressività, introdotta all'inizio del Novecento, entra in funzione il cosiddetto trickle down, letteralmente «sgocciolamento». Laffer e i suoi ammiratori confidano in un aggiustamento automatico, quasi naturale, prendendo a prestito l'immagine utilizzata dal sociologo Georg Simmel nel 1904 per descrivere la catena di diffusione della moda: le scelte d'abbigliamento delle classi più agiate «sgocciolano», appunto, dall'alto verso il basso. Ma esistono dati empirici che confermino queste ipotesi? In Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi, Vero! (Latenza, pagine 96, € 9). Nelle ultime elezioni europee Revelli è stato il garante della lista della sinistra radicale «L'Altra Europa con Tsipras». Nel libro, però, prevale lo studioso e, soprattutto, pesano i numeri, le statistiche. Oggi la flat tax è applicata in una trentina di Paesi, con una certa densità nell'Europa dell'Est. Ma è evidente che il caso più interessante e più significativo sia proprio quello degli Stati Uniti, la patria di Friedman e di Laffer. Revelli richiama i risultati ottenuti dal doppio mandato delle amministrazioni repubblicane di Ronald Reagan (1981-1989) e di George W. Bush (2001-2009). Entrambi tagliarono le tasse sui redditi più alti. Il consuntivo di Reagan è alterno. La manovra «lafferiana» sulle imposte, peraltro concordata con il Partito democratico, riattivò l'economia, sollevando la crescita del Pil fino al 4,1% (1988) e creando 16 milioni di posti di lavoro. Le entrate fiscali, però, calarono del 1% del Pil e di conseguenza il debito pubblico si triplicò fino ad arrivare a 2 mila miliardi di dollari. George W. Bush ereditò da Bill Clinton un budget federale in attivo di 236 miliardi di dollari; dopo il taglio delle tasse e in soli tre anni si ritrovo con un passivo di 375 miliardi. Le famiglie e lo Stato centrale cominciarono a indebitarsi, ponendo le premesse della bolla finanziaria esplosa nel 2007-2008. Oggi il debito degli Stati Uniti è pari a 15 mila miliardi di dollari ed è la mina vagante dell'equilibrio mondiale.
Resta da capire se, almeno, si sia prodotto l'effetto «sgocciolamento», se cioè la distanza tra le fasce di reddito sia diminuita. Su questo punto le risposte di Piketty e di Revelli coincidono: no. Negli ultimi trent'anni la disuguaglianza è aumentata a livello mondiale e praticamente in tutti gli Stati, come dimostra la dinamica dell'indice di Gini coefficiente che misura il grado di distribuzione delle ricchezze). Nell'ultimo vertice di Davos, nel gennaio 2014, l'associazione Oxfam ha presentato un rapporto titolato Working for the Few, «Lavorare per i pochi». Una tabella mostra come dal 1980 al 2012 negli Stati Uniti, «lafferiani» per 16 anni, la quota di reddito posseduta dall'i% più benestante della popolazione sia aumentata del 150%. Anche in altri Paesi l'élite economica si è arricchita in modo esponenziale: del 90% in Australia; tra il 5o e 1'8o% in Irlanda, Norvegia e Svezia. Dí fatto nelle 29 nazioni considerate (Italia compresa) non sì è visto alcuno «sgocciolamento», se mai una pioggia abbondante. Ma in un'altra direzione.

Di Giuseppe Sarcina
Dal Corriere della sera, 23 novembre 2014



i grandi dei

La credenza nei custodi immortali ha consentito il passaggio epocale dalle piccole tribù a grandi comunità fondate sulla cooperazione tra estranei

Il legame sociale
è figlio degli Dei

«Chi viene sorvegliato si comporta bene». Un principio alla base delle civiltà più antiche

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Nel 1904 Max Weber attraversa in treno gli Stati Uniti. Conversando con un casuale compagno di viaggio, il sociologo finisce col parlare di religione. È allora che l’uomo, un commesso viaggiatore, pronuncia una frase divenuta celebre: «Signore, per quel che mi riguarda ognuno è libero di credere o di non credere, a suo piacimento; tuttavia, se incontrassi un agricoltore o un imprenditore che non appartiene ad alcuna Chiesa, non gli farei credito nemmeno di 50 centesimi. Perché uno che non crede in niente dovrebbe pagarmi ciò che mi deve?».
Il tema della fede è centrale nello sviluppo della società umana. Ne dipendono l’organizzazione dei gruppi, commercio e crescita, pace e guerra. In un mondo in cui siamo sempre più a contatto con chi ha una religione diversa, e con chi non ha religione alcuna, la questione del commesso viaggiatore di Weber è fondamentale. Possono convivere credenti e non credenti? Può coabitare chi ha Dei diversi? La risposta è di norma affidata ai leader politici e religiosi: a Obama, al Dalai Lama, a Papa Francesco, al califfo dello Stato islamico. Oppure ai teologi. Tuttavia, contributi profondi e originali vengono sempre più dagli antropologi, dagli studiosi di economia comportamentale, dagli psicologi.
Ara Norenzayan, professore di Psicologia sociale all’Università della British Columbia, in Canada, ha scritto un libro molto importante che esce ora in Italia: Grandi Dei (Raffaello Cortina). L’autore ha una tesi ambiziosa. Si deve alla religione la transizione avviata circa undicimila anni fa da società organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori strettamente imparentati tra loro, a società stanziali, inizialmente basate sulla domesticazione di animali e cereali, e poi ingranditesi fino alle grandi strutture sociali moderne, in cui moltitudini di anonimi cooperano su larga scala.
Perché ciò fosse possibile, si sono costruite sulla cooperazione tra estranei non sono il risultato di una religione qualsiasi. Ci sono voluti «Grandi Dei» perché nascessero «grandi gruppi»: ci sono volute le divinità delle grandi religioni monoteiste e politeiste che hanno conquistato la terra, Dei potenti, onniscienti e intenti al controllo del comportamento morale degli uomini.
Si srotola pagina dopo pagina l’argomentazione di Norenzayan. Lucida e appassionata. I Grandi Dei possono essere molto diversi tra loro, tanto quanto Shiva differisce da Gesù Cristo. Essi tuttavia hanno in comune otto principi di cui l’autore intende dimostrare la validità logica e sperimentale.
Il primo principio è il più importante: «Chi è sorvegliato si comporta bene». L’avvento dei Grandi Dei e dei grandi gruppi è cominciato qui, quando il controllo sociale esercitato dai piccoli gruppi etnico-familiari è stato sostituito dalla sorveglianza di «occhi soprannaturali». È stato allora possibile costruire legami di fiducia e scambio tra estranei, allargare l’economia, ingrandire le comunità. Sviluppando precursori naturali inscritti nella mente attraverso l’apprendimento culturale, i Grandi Dei hanno creato legami efficaci di timore e di fiducia. Sono i principi numero due, tre e quattro: «La religione è più nel contesto che nelle singole persone»; «L’inferno è più potente del paradiso», «Fidati di coloro che si fidano di Dio».
Crescendo, le grandi religioni hanno dovuto combattere il rischio della falsa fede, dell’imbroglio, dell’ipocrisia dei profittatori. Hanno così selezionato leader credibili e divinità degne di venerazione, per cui valeva la pena di compiere riti «bizzarri» e «costosi». Ecco i principi numero cinque e sei: «Nella religione le azioni contano più delle parole»; « Gli Dei che non sono oggetto di adorazione sono Dei impotenti». Si sono imposti così, recita il principio numero sette, «Grandi Dei per Grandi Gruppi», ovvero gruppi religiosi che, come recita l’ultimo principio, «cooperano per competere».
Emigrato in Canada dal Libano a causa della guerra, Ara Norenzayan giunge con il suo ultimo principio al nodo della violenza religiosa. Constata che nei Grandi Dei vi sono parti che «possono generare e intensificare i conflitti», ma anche «impulsi che possono essere convogliati per attenuare e superare i conflitti». È piena di energia questa sfida a guardare al divino dal punto di vista dell’interazione tra mente e società, tra evoluzione biologica e culturale. L’attenzione sulla sorveglianza dall’alto pone questioni scomode. L’autore suggerisce che dopo il passaggio dalle piccole società alle società sotto «i grandi occhi del cielo», si profila ora il passaggio a società complesse in cui l’empatia e la compassione per il genere umano e la solidarietà sociale, unite a istituzioni laiche efficaci e non corrotte, con giudici indipendenti e Stato di diritto, si candidano a sostituire gli «osservatori soprannaturali».
È il passaggio che sembra intravvedersi nelle società scandinave, cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro, e in generale laddove i credenti, a differenza del commesso viaggiatore di Weber, riescono ad aver fiducia persino negli atei. Nella sua bella introduzione al volume, Telmo Pievani invita a non ridurre il pensiero di Norenzayan, com’è invece avvenuto negli Stati Uniti, alla divisione del mondo in svedesi laici, ricchi e tolleranti, e arabi religiosi, poveri e fondamentalisti. Il passaggio «dagli Dei vigili ai governi vigili» è certo cruciale. Ma la forza dell’autore sta altrove. Egli si sforza di adottare il punto di vista dell’occhio di Horus, raffigurato nei bassorilievi dell’antico Egitto, e degli occhi di Buddha, ritratti negli stupa del Nepal. Come fanno gli Dei, Ara Norenzayan guarda in fondo alla nostra mente.
Marco Ventura

lunedì 10 novembre 2014

Ma in quelle megalopoli non c'è nulla da esplorare

A seguito di un articolo di Repubblica, che parlava del turismo del futuro dove l'Asia scalzerà l'Europa, il grande Paolo Rumiz esprime bene anche  i miei dubbi sul turismo contemporaneo.
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di PAOLO RUMIZ
PERDEREMO il primato? Pazienza. Io mi tengo la mia Europa. Se l'industria pesante del turismo preferisce buttarsi in Cina all'assalto di shopping, aeroporti, megalopoli e aria condizionata, si accomodi. Lo dice uno che ha sempre amato e sognato l'Oriente. Oggi la terra del sol levante è un'altra cosa. Ha perso molto del suo mistero. La Transiberiana è sempre più un'avventura per ricchi, non ha più profumo di samovar e carovane. L'Afghanistan è uno spazio off limits, il Pakistan gli fa concorrenza. Il Kazakistan si è trasformato in una sequenza di pozzi petroliferi. Le strade russe sono governate dalle mafie e percorrerle da soli si rischia la vita, per saperlo basta parlare con un camionista. Buona metà del Caucaso fermenta di rivolte e bande armate. Il Tibet e lo Xinkiang sono schiacciate da un'indecente repressione.

lunedì 13 ottobre 2014

L'importanza di coltivare il dubbio davanti agli ogm

L'importanza di coltivare il dubbio davanti agli ogm

di MICHELE SERRA
08 ottobre 2014

L'importanza di coltivare il dubbio davanti agli ogm L'AFFERMAZIONE "la scienza ha sempre ragione" non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana. L'acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi su Repubblica di Vandana Shiva, Elena Cattaneo, Carlo Petrini, Umberto Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo "pro", che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come un macigno l'idea che il fronte degli oppositori sia un'accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l'emotività dell'opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d'azione, perché evocare, tra i soggetti "antiscientifici" in qualche modo assimilabili agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari.

Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, la Fao, mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità.