giovedì 31 dicembre 2009

L’inconcludente summit di Copenaghen e la vera lotta ai cambiamenti climatici

autore: Guido Viale

Per decenni gli ambientalisti sono stati accusati dai teorici dello “sviluppo” e dagli epigoni dell’industrialismo ad oltranza di voler ritornare alla luce delle candele e alla vita nelle grotte. Adesso è ormai chiaro a tutte le persone e a tutti i governanti informati (purtroppo in Italia più rari, questi ultimi, che in qualsiasi piccolo Stato dell’Africa o dell’Oceania) che a farci tornare all’età della pietra saranno proprio loro, i teorici delle capacità autoregolative dei mercati (detto anche “pensiero unico”) e del business-asusual (in sigla, Bau) promosso e imposto dalle lobbies delle industrie petrolifera, automobilistica, energetica e dai costruttori di “Grandi opere”, se la loro presa sui governi usciti a mani vuote dalla Conferenza di Copenaghen non verrà azzerata.
Le conseguenze dell’inconcludenza di questo “Summit” sono state solo adombrate dal rapporto di Greenpeace di cui riferiva Antonio Cianciullo su questo giornale il 21 dicembre. Ma bastano pochi cenni a quello scenario tutt’altro che improbabile per rendersi conto che una vera politica industriale (ma anche, va da sé, energetica, agricola, alimentare, dei trasporti, delle infrastrutture e, vivaddio, culturale) adeguata ai tempi, cioè in grado di preservarci, almeno in parte, da una catastrofe già in corso, può solo adottare le soluzioni innovative che da anni gli ambientalisti propugnano.
Sono soluzioni messe a punto, per lo più con sostegno scarso o nullo dei governi e ancora più scarsi finanziamenti, spesso senza alcuna risonanza mediatica o addirittura circondate dal dileggio dei portavoce delle grandi corporation, da una schiera molto ampia di tecnici, di pionieri nel campo delle tecnologie, di imprese ed amministrazioni che hanno avuto il coraggio di andare controcorrente, ma anche da un numero sterminato di agricoltori, di consumatori attenti alla qualità, di quelle “comunità del cibo” di cui spesso parla Carlo Petrini su questo giornale.
Quelle soluzioni si chiamano efficienza energetica (misure largamente praticabili in grado di ridurre di un terzo, o della metà anche più, i consumi energetici a parità di efficacia), fonti energetiche rinnovabili, bioedilizia, mobilità sostenibile (fine della dittatura dell’auto privata), agricoltura biologica e a chilometri zero, rivalutazione delle colture autoctone, difesa della biodiversità e dell’assetto idrogeologico dei territori, educazione permanente. Non c’è altra strada percorribile e tutte le persone minimamente informate lo sanno.
Ma è ovvio che le resistenze verso una svolta del genere nascono dall’attaccamento ad abitudini consolidate che ciascuno di noi ha: sia come consumatori che come lavoratori (per lo meno finché il posto di lavoro legato alle vecchie produzioni non viene a mancare); ma che allignano anche di più nelle imprese (protagoniste, nella vulgata ufficiale, di tutti o quasi i processi di innovazione), nelle amministrazioni locali, nelle agenzie educative. Fino a ripercuotersi, in un processo di progressiva deresponsabilizzazione, nelle scelte di governi che vivono di sondaggi, di politica- spettacolo, con l’affanno di scadenze elettorali sempre più serrate. Di qui la generale inadeguatezza che dai governi si riverbera, con un processo circolare, sui governati; indotti a non allarmarsi “perché il problema non è poi grave come sembra” o addirittura “non esiste”.
Il fatto è che una riconversione ambientale dell’apparato produttivo, dei nostri stili di vita e della ripartizione globale delle risorse, quale quello necessario per prevenire la catastrofe incombente, non può essere governata dall’alto, o in modo centralistico: come può essere invece la decisione di costruire una o tante “Grandi opere”, o di incentivare la vendita sottocosto di automobili, o di ripianare i bilanci delle banche sull’orlo del collasso; cioè gli interventi con cui i governi di tutto il mondo hanno affrontato la crisi economica in corso, senza curarsi di quella ambientale e senza approfittare delle opportunità per cambiare rotta che entrambe offrivano.
Perché l’efficienza energetica e la bioedilizia richiedono interventi capillari e differenziati su ogni edificio, su ogni impianto, su ogni nuova apparecchiatura; le rinnovabili dipendono da fonti distribuite, differenziate sulla base dei carichi che devono sostenere e dell’accessibilità e disponibilità delle risorse; la mobilità sostenibile richiede soluzioni di trasporto pubblico – sia di massa che flessibile e personalizzato – ritagliati sulle caratteristiche del territorio e sulle esigenze delle loro popolazioni; agricoltura e alimentazione sostenibili richiedono un ridisegno completo dei piani colturali, degli approvvigionamenti e del sistema distributivo; le opere di salvaguardia degli assetti idrogeologici sono differenti in ogni area; l’educazione permanente non può essere promossa senza coinvolgerne nella sua programmazione i beneficiari. Insomma, la riconversione ambientale che può salvarci dal disastro climatico non può essere governata dal centro – anche se i governi dovranno sostenerla con norme e finanziamenti adeguati – ma può essere solo impostata, programmata e gestita in forme decentrate, area per area, comune per comune; al limite, tetto per tetto, coinvolgendo tutti i soggetti interessati: imprese disposte a cambiare rotta o a promuovere e sostenere la svolta; amministrazioni locali innovative, associazioni professionali e comitati di cittadini. È questo l’unico vero federalismo.
Naturalmente tra i governi centrali e l’iniziativa dei territori ci deve essere interlocuzione e il governo attuale del nostro paese, nonostante il conclamato federalismo, non sembra il più adatto né il più propenso a un approccio del genere. Ma se anche questo o un altro governo (domani, chissà?) decidesse di mettersi su questa strada, senza una robusta iniziativa dal basso e dalle periferie sarebbe del tutto impotente. L’unica strada percorribile per ottenere una vera svolta, tanto a livello locale e nazionale che planetario, e anche l’unica forma praticabile di riequilibrio nell’utilizzo delle risorse a livello globale, potranno solo scaturire – e in minima parte, lo stanno già facendo – dal rafforzamento dell’iniziativa locale.
Quello che ci insegna la Conferenza di Copenaghen, dunque, è che summit di questo genere non si devono più fare. La ribalta deve essere lasciata libera perché gli scienziati, attraverso un libero confronto anche con chi professa scetticismo – purché tutti dichiarino le fonti di finanziamento dei loro studi e delle loro pubblicazioni – possano informare il pubblico sui pericoli che corriamo; e perché chi sta già operando, in piccolo o alla grande, per il cambiamento possa presentare al mondo le proprie buone pratiche e farne valutare la replicabilità. Invece, perché i governi possano legittimamente riproporsi un accordo occorre che ciascuno abbia dietro le spalle programmi e misure in cui non solo siano fissati gli obiettivi, ma anche le risorse che intende impegnare, le misure adottate o da adottare, gli attori coinvolti o da coinvolgere; e perché questo avvenga occorre innanzitutto che governati e governanti si convincano che la riconversione ambientale non è solo un costo – come inevitabilmente viene percepita quando si fissano solo obiettivi di riduzione, senza la necessaria attrezzatura – ma una grande opportunità: di innovazione, di benessere, di occupazione, di equità e di convivenza più pacifica; e anche di business. Ma soprattutto di salvezza per il pianeta.
Repubblica, 23/12/2009

venerdì 25 dicembre 2009

Nucleare: Dalla rivincita italiana alla vittoria di Pirro

AVETE presente il finale di certi film westem in cui il vecchio sceriffo salta sull'ultima diligenza, per affrontare le incognite e i pericoli di un viaggio avventuroso, mentre sta arrivando in città la prima scoppiettante automobile? Ecco, la scena assomiglia a quella che stiamo vivendo in questo momento in Italia, dopo il rilancio del nucleare e l'approvazione dei due decreti legislativi varati ieri dal Consiglio dei ministri.


Una «revanche tricolore», è stata definita con qualche accento di trionfalismo, vale a dire una rivincita. Ma alla fine in realtà potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, se non proprio una sconfitta o addirittura una disfatta.
Il fatto è che – a più di vent'anni di distanza dal referendum popolare con cui la grande maggioranza degli italiani bloccò lo sviluppo dell'energia nucleare - il governo italiano rischia adesso di adottare gli impianti di terza generazione, considerati tuttora troppo costo si e insicuri, mentre stanno per arrivare sul mercato quelli di quarta generazione che dovrebbero invece affrontare alla radice il problema della sicurezza e in particolare delle scorie radioattive, favorendo perci l'abbattimento dei costi. Al di là di qualsiasi pregiudizio ideologico, dunque, oggi la questione è essenzialmente economica: non è più una guerra di religione , bensì una guerra di cifre e di soldi.
Si dice: l'Italia deve ridurre la dipendenza energetica dall'estero, causata dalle forti importazioni di petrolio e di gas. Giusto. Ma la verità è che il nostro Paese non ha neppure giacimenti di uranio e deve procurarselo altrove. E lo stesso uranio, come il petrolio e tante altre risorse naturali, è comunque in via di esaurimento. Si dice ancora che l'uranio, rispetto ai combustibili fossili, è pi economico.Vero. Ma non si tiene conto, o non si tiene conto abbastanza, che l'energia nucleare costa molto di più per la costruzione delle centrali e appunto per lo stoccaggio e lo smaltimento delle scorie. Poi c'è la questione delle fonti rinnovabili, a cominciare dal sole e dal vento, prodigate generosamente da madre natura. Negli ultimi tempi, la lobby filo- nucleare ha promosso la tesi che l'energia atomica e quella verde non sono alternative, anzi sono compatibili, vanno sviluppate entrambe. Bene. Ma di fatto l'enorme investimento che occorre per il nucleare minaccia di sottrarre troppe risorse alle rinnovabili che vanno comunque incentivate.
Alla luce di tutte queste considerazioni, allo stato degli atti il decreto legislativo predisposto dal governo non offre elementi rassicuranti in ordine alla localizzazione dei siti nucleari e nemmeno in ordine ai costi di costruzione e gestione delle centrali. E sono proprio i due punti su cui s'incardinano le resistenze degli ambientalisti e di buona parte dell'opposizione.
In base alla legge sviluppo approvata a metà agosto, l'elenco dei siti avrebbe dovuto essere già stilato entro sei mesi. E invece viene ulteriormente rinviato, con ogni probabilità per evitare un boomerang elettorale alle prossime regionali di primavera. Tanto più che le Regioni, a dispetto della propaganda sul federalismo, non verranno né interpellate nè consultate.
Quanto ai costi, a parte l'incertezza che pesa da sempre e ovunque su questo capitolo, il provvedimento contempla sia un meccanismo di compensazione a favore dei Comuni che accetteranno di ospitare le centrali sia una campagna d'informazione promozionale. Da una parte, insomma, c'è la cosiddetta monetizzazione del rischio ; dall'altra, un battage pubblicitario, presumibilmente a colpi di spot in tv, per convincere i cittadini ad acquistare il prodotto, come se si trattasse di un fustino per la lavatrice o di una nuova bibita ipocalorica. Con il consenso, si tende a comprare così anche la sicurezza, la salute, la vita.
Il culmine del paradosso è che l'Italia sta imboccando la via francese al nucleare proprio nel momento in cui Oltralpe 18 centrali sono bloccate per guasti o incidenti e la Francia è costretta a importare energia dall'estero. Nel frattempo, la fredda Germania continua a produrre pi energia solare di noi. E l'Umpi, una piccola azienda di Cattolica che ha sviluppato brevetti e tecnologie per il risparmio energetico nell'illuminazione stradale, applica già questi sistemi a oltre centomila punti luce in Arabia Saudita e illumina perfino La Mecca.
di Valentini Giovanni
repubblica, 23 dicembre 2009

mercoledì 23 dicembre 2009

Senza albero non è Natale: Ma è davvero così?

Senza albero non è Natale Ma è davvero così? I riti legati agli alberi sono stati diffusissimi in tutta l'antichità, anche nella penisola italica. L'abete natalizio è però una tradizione germanica, osteggiata dalla Chiesa cattolica fino al quindicesimo secolo perché considerata pagana.

Con l'arrivo dell'inverno, i popoli germanici piantavano un albero decorato di festini e ghirlande per augurare la rinascita della terra dopo il periodo del gelo. L'albero veniva poi bruciato e la sua cenere, posta sui campi, assicurava la crescita delle messi in primavera e estate.

Anche se tutti ritengono si tratti di una antichissima tradizione delle nostre terre, l'abete natalizio è comparso solo alla fine dell'Ottocento in Italia, e ha iniziato a diffondersi assieme ai prodotti del consumo di massa.
Negli ultimi anni si sono poi diffusi gli "alberi ecologici" in plastica colorata, ma come tutti gli oggetti in plastica, non sono molto ecologici, specie quando vengono abbandonati in strada dopo una settimana di utilizzo (peggio ancora se la plastica non è riciclabile).
Anche l'albero vivo può rappresentare qualche problema. Per esempio, che farne dopo le feste? Portare un albero nel clima caldo e secco di un appartamento riscaldato gli procura senza dubbio un trauma cui non molte piante resistono. Se l'albero sopravvive, non sempre è una buona idea quella di piantarlo in giardino o, peggio, nel vicino bosco. L'abete rosso, che è il più utilizzato a Natale, è adatto alle zone montane dell'arco alpino, ma nelle regioni più meridionali può essere addirittura nocivo, come ogni specie aliena. Meglio allora cercare in vivaio un corbezzolo, un viburno, un leccio o un alloro, che possono essere piantati nella regione senza danno. Anche se l'abete è una tradizione germanica, riti legati agli alberi e al rinnovo della vita si svolgevano anticamente anche nelle regioni mediterranee, impiegando però specie locali. Un abete natalizio, in una regione litoranea, può essere solo destinato al compostaggio, e non al cassonetto.
In ogni caso, l'albero deve sempre venire da un vivaio, in grado di garantire che la pianta non sia stata sradicata nei boschi. Infatti è più difficile verificare se l'albero provenga da sfoltimenti autorizzati, in questo caso fa fede la certificazione Forest Stewardship Council. Purtroppo molte piante (anche senza radici) sono importate dall'est europeo e dalla regione balcanica, dove i tagli illegali sono ancora frequenti.

da: http://www.salvaleforeste.it/alberi-di-natale-ecologici.html
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commento: noi non facciamo l'albero, ma per tradizione un piccolo "presepio" con vecchissimi personaggi di plastica (pastori e pecore, soprattutto) in un paesaggio fatto con un vecchio foglio di carta a colori verde-marrone. Per tradizione mia, metto i re magi distanti nel paesaggio, di spalle, come se fossero intorno a un fuoco, e il bambinello nel cassetto vicino al presepe. Lo tiro fuori il giorno di natale, come pure i re magi all'epifania li faccio arrivare davanti alla capanna.
Sul foglio di carta spargo un sacchettino di minuscoli sassolini, che riempiono il tutto. Sono molto affezionato a questi sassi, è come se fossero la vita che scorre, ogni anno, quando smonto il presepe, se ne perde qualcuno.....
greg


martedì 22 dicembre 2009

hellecasters

Hellecasters: escape to Holliwood, del 1993: bellissimo album strumentale, una specie di country , simile ai Dixie Dregs talvolta, incredibile suono di telecaster.
Vedi anche il sito http://www.hellecasters.com/

sabato 19 dicembre 2009

luca chittaro

I suoi articoli mi piacciono molto.
http://lucachittaro.nova100.ilsole24ore.com/

L'interpretazione dei segni

il futuro non è il posto dal quale ci arrivano le novità. È l'insieme delle conseguenze delle nostre azioni nel presente......

Progettiamo la forma dei nostri edifici, ma poi sono gli edifici a modellare la nostra vita.Poco importa che l'abbia detto proprio Winston Churchill. Forse, peraltro, vale anche il viceversa. E non solo per l'architettura: si può sostenere pure per la medicina, per la robotica, per i social network o per le enciclopedie.


Ammettere la complessità dei fenomeni non vuol dire rendersi la vita difficile:
piuttosto si vive male lontano dalla realtà, accoccolati nel realismo lineare delle relazioni causa-effetto. Un motore di ricerca non ci rende stupidi più del gioco dei pacchi televisivi. O dei pacchi finanziari. O dei pacchetti donati su Facebook. Il difficile è pensare bene, in un'epoca di cattivi pensieri. E non è certo colpa del fatto che sulla rete ci sono troppe informazioni: casomai abbiamo filtri insufficienti a gestirle. Come se sullo schermo di un pilota d'aereo che atterra nella nebbia ci fossero interruzioni pubblicitarie, chiamate degli amici, racconti di fantascienza e scariche elettriche incontrollate.

Nel caos dei segni, i fatti sono tracce solo se sappiamo che cosa stiamo cercando. Solo allora tentiamo di imparare a interpretarli. Per distinguere, ad esempio, le innovazioni destinate all'oblio da quelle che possono generare un cambiamento di lungo periodo. Per convivere con i timori e le speranze. Come stiamo trasformando il pianeta? Che cosa stiamo diventando noi esseri umani? Quale prospettiva di progresso possiamo coltivare?
Sui monitor del futuro ci sono ancora le angosce di Bill Joy, ragionevolissimo scienziato dei computer, che nell'aprile del 2000, su Wired, si domandava se robotica, genetica, nanotecnologia, elettronica e intelligenza artificiale non stessero creando le condizioni per l'emergere di una nuova specie, più adatta di quella umana a sopravvivere nel percorso evolutivo. Non è impensabile: qualche decina di migliaia di anni fa, sulla Terra coesistevano l'homo sapiens e l'uomo di Neandertal. Joel Garreau, autore di Radical Evolution, ha intervistato i responsabili dei laboratori di Darpa, agenzia delle ricerche avanzate della Difesa degli Stati Uniti, incaricati di progettare con le biotecnologie e le neuroscienze il soldato del futuro, capace di performance fisiche e mentali sovrumane. I fondi per quelle ricerche sono stati ridotti ultimamente, ma secondo un'inchiesta di World Politics Review la Darpa sta ancora lavorando a «trasformare i soldati cellula per cellula».
Per l'antropologo Alberto Salza, invece, il laboratorio dei replicanti è altrove: «Ad Aroma Beach, nelle Filippine, l'inquinamento del mare, delle sabbie e dell'aria è intollerabile per l'organismo umano. E, in quei posti, ci vanno solo i poveri».
Ma che cosa succede al patrimonio genetico delle persone che si trovano a vivere vicino alle discariche radioattive della Somalia o nei campi profughi del Sudan, super-esposti ai raggi ultravioletti? Salza, autore di Niente, come si vive quando manca tutto, osserva che i posti più tossici sono abitati dai più poveri, proprio coloro che generano più figli e che vivono al l'estremo la lotta per la sopravvivenza. Per questo Salza, ex fisico, oggi antropologo, suggerisce che: «I miserabili sono i mutanti».

Ipotesi o fantasie? Un fatto è certo: l'evoluzione della specie umana è avvenuta per via genetica, sociale e culturale: non solo il corpo, ma anche e, forse più efficacemente, l'organizzazione dei gruppi e dei saperi sono elementi mutanti attraverso i quali l'umanità è sopravvissuta e si è sviluppata. E anche in questo ambito evolviamo, con l'entrata in gioco delle macchine per la comunicazione e l'archiviazione digitale. Progettiamo quelle macchine, poi quelle macchine ci cambiano. Come? Il numero 200 di Nòva è ispirato da queste domande. Servono per dedicare maggiore attenzione a ciò che stiamo facendo, al pianeta e a noi stessi. È un modo per non subire l'idea che il fato sia l'unico comandante possibile della navicella spaziale che abitiamo.
Perché il futuro non è il posto dal quale ci arrivano le novità. È l'insieme delle conseguenze delle nostre azioni nel presente.

Ma qualunque teoria dell'azione è in fondo una teoria della prospettiva. Scrivono David Lane e Robert Maxfield, studiosi della complessità: «Ogni azione umana intenzionale è intrinsecamente temporale. Avviene nel presente, è diretta verso una trasformazione futura di certi aspetti del contesto presente, e il modo in cui è compiuta dipende dall'esperienza passata dell'attore. Possiamo pensare all'azione come a un ponte che gli attori costruiscono nel presente, per collegare il loro passato a un futuro desiderato».
La prospettiva e l'azione sono indissolubilmente legate. Perché se il mondo appare come un labirinto e la visuale è schiacciata sempre solo sul prossimo bivio, prima o poi ci si perde: come spiegava Umberto Eco ne Il nome della rosa, un labirinto si risolve pensandolo dall'esterno. O almeno pensando.
Questa non è l'epoca della certezza, forse... Ma di certo è un'epoca nella quale l'approfondimento e la riflessione sul senso di quello che stiamo facendo ci possono salvare.
Luca De Biase
lucadebiase.nova100.ilsole24ore.com
25 Novembre 2009

mercoledì 16 dicembre 2009

brescia.- regali di natale? saveriani!

A Natale, puoi regalare un libro, un cd...vai a fare un giro dai missionari saveriani, vicino a santa giulia:

http://www.saverianibrescia.com/csam.php

ci sono i cd del manifesto (con 10 euro te la cavi, e sono bellissimi) e molti altri libri ancora, rari da trovare nelle solite librerie zeppe di Vespa e Dan Brown....
E c'è anche una mostra carina sull'Amazzonia, con in vendita oggettini prodotti in loco....

lunedì 14 dicembre 2009

La grande rassegnazione

Il mercato, infatti, non ha volto, il mercato è nessuno. Ed è vero, come ci ricorda Romano Madera in Identità e feticismo (Moizzi editore) che «Nessuno, come già ci segnalava Omero, è sempre il nome di qualcuno», ma questo qualcuno, nel mercato globalizzato, è invisibile. Di qui la rassegnazione e la disperazione ......


Scrive Marx ne Il Capitale: «Le persone esistono solo come maschere economiche.
E, solo come personificazioni di rapporti economici, esse si trovano l’una di fronte all’altra»

Di lavoro si può morire, come accade in Francia. Manager che si suicidano sul posto di lavoro, come se il fallimento dell’azienda fosse il fallimento della loro vita.
Ci si identifica talmente con l’azienda che il suo fallimento crea una crisi esistenziale. Ma ci si suicida anche per mancanza di lavoro: sono due facce legate al lavoro, così osannato da certo capitalismo. Ma perché proprio ora? Perché la crisi ha messo a nudo la grande questione del lavoro. Marx messo in soffitta rispunta drammaticamente a ricordarci che il lavoro che diviene alienazione può distruggere l’uomo, il lavoro che ha come fine solo il profitto crea alienazione, l’uomo diviene un’altra cosa da sé.
Ma anche la sua mancanza riduce l’uomo a cosa. Ma non è solo Marx a impostare questo problema.
Se prendete San Tommaso, così come lo legge Vittorio Tranquilli nel suo monumentale Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, vi dice, arrivato a San Tommaso, che il lavoro fisico ha la stessa dignità di quello intellettuale e che ambedue hanno come fine l’uomo, creato da Dio. Vecchia riflessione, ma drammaticamente attuale.
Luciano Ferrari, Livorno ferrariluc@alice.it

Risponde Umberto Galimberti
Marx nell’Ottocento e Heidegger nel secolo scorso (due filosofi dalle idee politiche radicalmente opposte) segnalavano la progressiva riduzione dell’uomo alla sua funzione “mercantile”, nel senso che l’individuo è costretto a presentarsi con quella maschera (Charakter Maske, dice Marx) in cui sono scolpiti i tratti del suo impiego o, come dice Heidegger, del suo essere «im-piegato (be-stellt) al fine di assicurare l’impiegabilità (Bestellbarkheit)», a cui l’economia, regolata dalle leggi di mercato, destina uomini e cose.
Con la maschera in volto, l’uomo non è più in rapporto con il mondo, ma esclusivamente con le leggi che governano il sistema mercantile in cui il singolo si trova ad operare. Il suo agire non lo esprime, ma esprime la razionalità dell’apparato economico che determina non solo la sua azione, ma anche la relazione con i suoi simili, mediata dalle leggi che connettono la produzione, lo scambio e il consumo delle merci. Tutto ciò, e questo è il tragico, non è “oppressione”, ma “sistema”.
Di oppressione si poteva parlare prima dell’avvento dell’economia di mercato oggi globalizzata, dove la reificazione dell’uomo, la sua riduzione a cosa, avveniva per la volontà di un altro uomo, sia che questi si esprimesse come individuo o come classe, per cui era possibile da parte dei “reificati” individuare, nell’abbattimento
di quella “volontà”, la condizione della loro liberazione.
E tutte le rivoluzioni che hanno scandito i passaggi d’epoca nelle età precedenti la globalizzazione erano praticabili, perché accadevano all'interno dell’umano, tra una volontà opprimente e una volontà oppressa, o come dice Hegel, «tra un servo e un signore».
Perché le rivoluzioni esplodessero era sufficiente quella «presa di coscienza », secondo l'espressione di Marx, capace di segnalare la base irrazionale dell’oppressione e la conseguente razionalità della successiva liberazione.
Ma quando la reificazione, la riduzione dell'uomo a cosa, non è più l’effetto di una volontà, quindi di un evento irrazionale, ma l’effetto della razionalità del mercato, allora non avremo più, come nelle età che hanno preceduto la globalizzazione del mercato, il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini, servi o signori che siano, i quali non si trovano più contrapposti l’uno all’altro, ma entrambi dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità che regola le leggi di mercato, contro cui ogni rivoluzione è impraticabile.
Per questo i giovani accettano con rassegnazione qualsiasi lavoro temporaneo o in nero, per questo chi perde il lavoro va in crisi d’identità e non sa come uscire dalla notte buia della disperazione. E questo non perché si sono identificati con il loro lavoro, ma perché non hanno una controparte dal volto riconoscibile con cui confrontarsi. Il mercato, infatti, non ha volto, il mercato è nessuno. Ed è vero, come ci ricorda Romano Madera in Identità e feticismo (Moizzi editore) che «Nessuno, come già ci segnalava Omero, è sempre il nome di qualcuno», ma questo qualcuno, nel mercato globalizzato, è invisibile. Di qui la rassegnazione e la disperazione che affliggono sia la classe imprenditoriale sia la classe dei
subordinati, per la prima volta nella storia non più in contrapposizione, ma entrambi sottomessi alla dura legge della “razionalità” (?) del mercato.
La repubblica delle donne D 222 12 DICEMBRE 2009

domenica 13 dicembre 2009

cacciatore scambiato per una preda

Questi "sportivi" sparano a qualsiasi cosa che si muove....
Per ulteriori info vai su: http://www.cacciailcacciatore.org/
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12 dicembre 2009
La vittima, Paolo Braschi, 42 anni, è stata colpita al collo e al volto
ed è morta sul colpo. L'uccisore lo aveva scambiato per una preda
Partecipa ad una caccia alla volpe
uccide un altro cacciatore

BERTINORO - Incidente mortale di caccia questa mattina nei pressi di Polenta, frazione di Bertinoro (Forlì-Cesena). Paolo Braschi di 42 anni residente a Bertinoro, è stato ucciso intorno alle 8 e 30 da due colpi di fucile esplosi da un altro cacciatore, un cesenate di 52 anni. La vittima, che era a poche decine di metri di distanza da chi gli ha sparato, è stata colpita al volto e al collo ed è morta in pochissimo tempo. Quando sono arrivati i soccorritori del 118 era già senza vita.

A quanto pare, il cacciatore che ha sparato era impegnato in un battuta di caccia alla volpe con altri tre amici, mentre la vittima era sola. Braschi era in fondo ad un ripido canalone, ricco di arbusti e alberi, mentre gli altri quattro, divisi in due gruppi, si aggiravano sulle due sponde, dopo aver notato un paio di volpi in movimento.

Braschi nel muoversi dovrebbe aver attirato l'attenzione di uno dei quattro che, pensando di avere di fronte a sè una volpe, ha esploso in rapidissima successione i due colpi mortali. Per recuperare il corpo del cacciatore, a causa della zona impervia, è stato necessario l'intervento di un elicottero dei vigili del fuoco decollato da Bologna.

sabato 12 dicembre 2009

morale e politica

Morale e politica
Non è possibile affrontare, e tanto meno risolvere un problema, se non si tiene conto del radicale mutamento del contesto in cui quel problema si pone.




C'è una parola che è rimasta incastrata nei dizionari, su qualche manuale di filosofia, sulle labbra di qualcuno degli ultimi predicatori, bacchettoni di provincia, decaduti filantropi, per assestargli il definitivo colpo di grazia, il Ko che l'ha stesa e confinata in esilio. La parola é moralità.
Certo questa mia non sarà una ricerca bigotta di un senso da applicare a questa parola, né tanto meno un ulteriore j'accuse al "lombardo Sardanapalo", cioè il signor Silvio Berlusconi.
Il mio intento è un altro: domandare perché la moralità è stata confinata, alle soglie del XXI secolo, e perché il binomio "moralità e politica" oggi risulta irrealizzabile e anacronistico.
Siamo cresciuti - nel senso che abbiamo studiato - la moralità occidentale come legata, in un rapporto di significante simbiosi, alla libertà.
Già da Kant abbiamo acquisito l'imperativo: "Devi agire moralmente, perché libero, seguendo la tua legge morale".
I secoli a venire sono stati attraversati da questo legame, da questo percorso di consapevolezza della propria libertà e autodeterminazione, della personale moralità. Ma quel "personale" e quella "libertà" hanno assunto nell'ultimo cinquantennio risvolti grotteschi: la libertà é degenerata in un'esasperante assuefazione a un culto egotista, rendendo vana, vuota, puramente teorica la moralità.
O forse, signor Galimberti, é la libertà stessa che nel suo ultimo stadio ha liberato l'uomo dall'alter-ego morale, e oggi egli é finalmente realizzato? O forse l'inganno é intessuto da Kant in quel "La legge morale dentro di me", inaugurando un percorso individualistico la cui degenerazione é questo tempo? Sono le domande di uno studente liceale alle prese con la "questione morale", fuori da ogni cronaca giornalistica.
Giuseppe Di Vetta giuseppe.divetta@libero.it

Risponde Umberto Galimberti:
Del rapporto tra la morale e la politica si discute dal tempo di Platone, quando la filosofia greca ha inaugurato questi due scenari che nel corso della storia sono entrati spesso in conflitto fra loro. Per il mondo greco, morale e politica non potevano che coincidere, dal momento che, come scrive Aristotele nella Politica, "gli uomini hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all'uomo migliore e alla costituzione migliore".
Con l'avvento del cristianesimo l'individuo si separa dalla società, perché alla sua individualità, alla sua "anima" si prospettano un destino ultraterreno in cui l'individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione.
Alla vita collettiva, regolata dalla politica, è affidato il compito di creare le condizioni per la realizzazione del bene individuale, quindi il compito della limitazione del male.
In questo modo la realizzazione individuale (la morale) viene separata dalla realizzazione sociale (la politica), e, in nome della sua interiorità e della sua destinazione ultraterrena, l'individuo cristiano prende a vivere, come scrive Agostino nel De civitate Dei, separato nel mondo, e poi dal mondo.
Questa è anche la ragione per cui Rosseau scrive nel Contratto sociale che "il cristiano non é un buon cittadino": lo può essere di fatto, ma non a partire dalle sue credenze.
La filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana, che sono le due radici dell'Occidente, hanno deciso di volta in volta, e con vicende alterne, di dare il primato alla morale o alla politica, fino al giorno in cui la tecnica, divenuta il vero soggetto della storia, ha subordinato a sé sia la morale, sia la politica, rendendo tutte le discussioni relative al primato dell'una o dell'altra questioni subordinate.
Per quanto concerne la morale, come opportunamente scrive Emanuele Severino in Il destino della tecnica (Rizzoli): "Come fa la morale a impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può?"
E ancora, aggiungo io: come può una morale, i cui princìpi discendono dalla natura concepita come immutabile, valere nell'età della tecnica che ha risolto la natura in materia prima, in ogni suo aspetto manipolabile?
La politica, a sua volta, non è più il luogo della decisione, perché per decidere la politica guarda l'economia, e quest'ultima, per decidere i suoi investimenti, guarda le risorse tecnologiche. Per cui il luogo della decisione si è spostato dalla politica alla tecnica.
Questo spiega tutte quelle scorribande in sede politica e in sede morale, che sempre più appaiono, purtroppo, luoghi inessenziali al corso della storia. Non dico queste cose con piacere, ma mi pare necessario segnalare il mutamento dello scenario in cui l'antico problema del rapporto tra morale e politica oggi si presenta: per evitare discussioni che diventano inutili se non si prende atto del mutamento radicale del contesto.

repubblica delle donne, 14 novembre 2009

venerdì 11 dicembre 2009

La corsa folle che non tollera più la pausa pranzo

Ciò che l'uomo moderno teme di più è ciò che in passato lodava di più: il riposo, il distacco dalle passioni e dalle ambizioni. Ciò che più desidera, la lotta per la ricchezza e per il potere, è anche ciò che lo rende nemico all'amico.


Pare che i cocainomani italiani siano in crescita continua, specie nella classe dirigente.
Vale a dire: coloro che, per censo e conoscenze, dovrebbero essere più degli altri in grado di intendere e di volere scelgono deliberatamente di non essere, per varie ore della giornata, compos sui, padroni completamente di sé.
Che cosa trovano nella droga? Dicono che toglie la stanchezza e illumina la mente, che moltiplica e prolunga il piacere sessuale, che ti dà coraggio e inventiva.
E quali i prezzi da pagare? Molti, e crescenti nel tempo: il rapporto con i fornitori esosi e infidi, la minor difesa contro le malattie, l'usura cerebrale. L'uso delle droghe, il bisogno delle droghe, è antico quanto l'umanità e nella modernità sembra necessario a sopportare i ritmi e le fatiche.
Il modo di vivere della maggior parte degli italiani che contano è una sfida mortale allo sfinimento e alle ansie.
Vi siete accorti che oggi il saluto abituale non è più «buona giornata» o «buona salute» ma «buon lavoro»?
Si è rovesciato il nostro rapporto con la vita, non più con i suoi piaceri e i suoi riposi, ma con il lavoro, nei tempi biblici considerato una condanna da pagare con il sudore della nostra fronte.
Perché l'uso della droga cresce nei Paesi più ricchi? Perché i Paesi più poveri la coltivano e gliela vendono? Perché i modi e i tempi del lavoro nella modernità ricca sono demenziali.
Sui giornali si legge degli impegni degli italiani importanti: politici, industriali, professionisti, giudici, sacerdoti. Cinque o sei appuntamenti al giorno, dal primo mattino a tarda sera, abolite quasi tutte le forme di ozio o di riposo, riprovevoli le pennichelle pomeridiane, obbligatori gli impegni di rappresentanza, ricercate freneticamente le apparizioni tv, perseguita affannosamente l'ubiquità, per essere presenti dovunque, un vizio più che una necessità, seguiti sempre da segretarie che ti ricordano la catena giornaliera degli impegni di un lavoro che, essendo diventato la più forte delle droghe, esige l'uso delle droghe chimiche per resistere.
Ciò che l'uomo moderno teme di più è ciò che in passato lodava di più: il riposo, il distacco dalle passioni e dalle ambizioni. Ciò che più desidera, la lotta per la ricchezza e per il potere, è anche ciò che lo rende nemico all'amico.
Il lato più sgradevole di questo modernissimo tempo è di essere circondato da concorrenti, pronti a eliminarti. E il ministro Gianfranco Rotondi propone anche di abolire la pausa pranzo.

Giorgio Bocca, venerdi di repubblica, 11 dicembre 2009

giovedì 10 dicembre 2009

Zygmunt Bauman:banali leader

"Appaiono per scomparire. Si attaccano al potere per perderlo. L'unico vantaggio che sembrano avere su noi comuni mortali è una morte pubblica"
di Zygmunt Bauman

Avendo già iniziato a commentare lettere altrui - anziché scriverne di mie - permettetemi di cimentarmi ancora una volta in una simile impresa. Il motivo che mi spinge a farlo è il medesimo: come nel caso del film-lettera Il matrimonio di Lorna, ritengo che quest'altra lettera nascosta sia molto più penetrante ed esemplificativa di quanto io avrei saputo scrivere, e immagino abbia richiesto un'immaginazione, un talento e un gusto estetico che non potrei uguagliare.
Mi riferisco a La tribù con gli occhi al cielo, il racconto di Italo Calvino.
Come suggerisce il titolo, la storia narra di una tribù dedita a contemplare il cielo. La volta celeste offre uno spettacolo interessante e regala molte soddisfazioni a chi vi volge lo sguardo, attraversata com'è da "nuovi corpi celesti": aerei a reazione, dischi volanti, razzi e missili telecomandati.
La tribù osserva, e vedendosi obbligati a dare una spiegazione su tali fenomeni, gli stregoni del villaggio dichiarano che questi offrono un segno inequivocabile dell'imminente fine della servitù e della miseria che da secoli affliggono la tribù. Presto la "savana incolta produrrà sorgo e mais", e la tribù non sarà più costretta a cibarsi esclusivamente di noci di cocco. Dunque - e qui sta il punto - "non si stia ad almanaccare su nuovi sistemi" per uscire dall'attuale situazione; "confidiamo nella Grande Profezia, stringiamoci attorno ai suoi soli retti interpreti, senza chiedere di più".
Sulla terra, nella valle dove la tribù ha costruito le proprie capanne di paglia e fango, nel villaggio da cui gli uomini ogni giorno partono alla ricerca di noci di cocco e a cui ogni sera fanno ritorno, le cose stanno cambiando. In passato qui giungevano di quando in quando dei mercanti, per acquistare noci di cocco. I mercanti imbrogliavano sui prezzi, ma gli indigeni, scaltri, riuscivano a loro volta ad ingannarli.
Adesso però i mercanti non si vedono più. Al loro posto è sorto un ufficio della moderna "Coccobello Corporation, che compra tutto il raccolto in blocco e impone i prezzi". Non si contratta più, e imbrogliare è impossibile: i prezzi vengono stabiliti in anticipo, prendere o lasciare. Naturalmente, "lasciando" si rischia di non sopravvivere sino al raccolto successivo. C'è qualcosa che accomuna gli stregoni e i rappresentanti della Coccobello Corporation: sia gli uni che gli altri parlano di razzi e dei presagi che questi annunciano, ed entrambi (di nuovo qui sta il punto) affermano le stesse cose: "è nella potenza dei bolidi celesti che risiede tutto il nostro destino!".
Il narratore del racconto condivide il destino e le abitudini del villaggio. Anche lui, come il resto della tribù, trascorre le serate sulla soglia della sua capanna di paglia e fango, intento ad osservare il cielo. Anche lui, come gli altri, ascolta e ricorda ciò che gli stregoni e gli agenti della Coccobello Corporation ripetono di continuo. Ma al tempo stesso pensa (anzi, nella sua mente i pensieri si pensano da soli): "un'idea ho in testa che nessuno mi leva: che una tribù che s'affida solo al volere dei bolidi celesti, per bene che le vada, continuerà sempre a vendere le sue noci di cocco sottocosto".
In un altro racconto, La decapitazione dei capi, Italo Calvino fa notare come la televisione (e qui lo scrittore va dritto al punto, saltando a piè pari la metafora del cielo e dei bolidi celesti) "ha cambiato molte cose". Benché non necessariamente le stesse che ai nuovi stregoni (che adesso chiamiamo spin doctors) piace riconoscersi il merito - e riconoscerlo alla tv - di aver cambiato.
La televisione ha cambiato, tra l'altro, il modo in cui vediamo i i nostri leader. Un tempo questi ci apparivano come figure distanti, poste in alto, su un palco, o erano raffigurati in ritratti "atteggiati a espressioni di una fierezza convenzionale". Adesso invece, grazie alla tv, ognuno può scrutare in loro "il minimo moto di lineamenti, lo scatto infastidito delle palpebre, alla luce dei riflettori, il nervoso umettare delle labbra tra parola e parola".
In breve: i nostri leader sono diventati terribilmente banali, come tutti noi. E, al pari di noi, mortali. Vengono per poi andarsene. Appaiono per scomparire. Si attaccano al potere per perderlo. L'unico vantaggio che sembrano avere su di noi, comuni mortali, è di essere destinati ad una morte pubblica - una morte a cui "siamo certi d'assistere, tutti insieme".
Con un tono non del tutto ironico, Calvino si spinge a suggerire che è proprio questa consapevolezza a spiegare il motivo per cui un politico, fino a quando è in vita, è "circondato dal nostro interesse ansioso, anticipatore".
Quelle che seguono sono parole così intense da meritare di essere citate testualmente e per esteso: "Per noi la democrazia comincia solo dal giorno in cui si ha la certezza che nel giorno stabilito le telecamere inquadreranno l'agonia della nostra classe dirigente al completo, e, in coda allo stesso programma (ma molti degli spettatori a quel punto spengono l'apparecchio), l'insediamento del nuovo personale, che resterà in carica (e in vita) per un periodo equivalente". Tutto ciò, conclude Calvino, viene contemplato "da milioni di spettatori con raccoglimento sereno, come chi osserva i movimenti dei corpi celesti nel loro ciclico ripetersi". Uno "spettacolo che quanto più ci è estraneo tanto più sentiamo come rassicurante". L'abitudine di tenere gli occhi puntati verso il cielo non è, si direbbe, la prerogativa di un'unica, remota tribù. Né i motivi per farlo, o le conseguenze che ne derivano, differiscono molto da una tribù all'altra. A cambiare sono gli strumenti necessari a dedicarsi a tale attività/passività. E i nomi, e le storie degli stregoni - ma non il messaggio di quelle storie, né le intenzioni di coloro che le raccontano. (Traduzione di Marzia Porta)
da: la repubblica delle donne, 28 novembre 2009

I lavoratori sui tetti

Si domanda il filosofo Franco Totaro in Non di solo lavoro: "I fini della tecnica e dell'economia globalizzata sono anche i nostri fini?"

Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma


Sono un lavoratore e delegato sindacale. Gli episodi di crisi del lavoro, avvenuti nelle scorse settimane, come il caso Innse, Colosseo e Lasme, mi fanno meditare seriamente.
Mi domando perché, oggi, un lavoratore per far valere i suoi diritti deve ricorrere al fai da te, attirando l'attenzione della politica (che sempre meno conta) attraverso i media. Una volta l'iscrizione al sindacato offriva identità, si facevano le assemblee per spiegare la piattaforma e sensibilizzare i lavoratori allo sciopero.
Negli anni 70 la produzione veniva interrotta, si occupavano gli stabilimenti finché i padroni non davano l'aumento. Le tre confederazioni erano unite e la concertazione con i governi dava risultati (ben cinque patti sociali conclusi negli anni Novanta).
Essere sindacalisti significava sacrificare in buona parte la propria vita (come ha fatto mio padre per tanti anni nella Cisl). Oggi sembra significhi solo salvarsi il...
Eppure, pensare a un mondo senza parti sociali mi torna difficile, vuol dire tornare all'Italia degli anni Cinquanta, o peggio. Manca ormai da tempo una vera conoscenza sindacale, capace di responsabilizzare, mobilitare i lavoratori. In tutto il mondo sviluppato si evidenzia una diminuita adesione ideologica al sindacato, e ahimè c'è una sfiducia maggiore da parte dei giovani (18-25 anni), e in confronto un atteggiamento più benevolo da parte degli adulti.
Questo declino è oggi in parte compensato nel sindacato dalla presenza degl'immigrati regolari, attraverso patronati, pacchetti di servizi che assicurano sostegni individuali nei momenti di crisi. Certo, i tempi cambiano. Ieri la dimensione collettiva era il destino e la speranza di ognuno. Oggi è la dimensione individuale a dominare, favorita da altri fenomeni quali la rivoluzione digitale, la flessibilizzazione, la mancanza, spesso, di un unico padrone e altro.
Ognuno per sé e vinca il migliore, con il licenziamento come ultimo tabù. Per poi magari sentir dire "San Precario lavora per noi".
La domanda che allora le pongo è la seguente: se il lavoro industriale, che ha contrassegnato un secolo di promozione sociale e di riscatto dal bisogno, è ormai in declino, come lo è la fine del posto fisso, lo dobbiamo a un sindacato poco adeguato ai tempi, oppure il problema è più grave e complesso? Grave come teorizza l'economista Rifkin, quando parla "della fine del lavoro", e l'inizio di una nuova era? Siamo di fronte a un sistema entropico? Massimo Merli Brandini, Roma maxrott63@hotmail.it

Risponde Umberto Galimberti:

Gi operai vanno sui tetti delle fabbriche perché ormai da tempo la realtà è stata sostituita dalla rappresentazione televisiva, per cui se non compari in tv non esisti, e nessuno si accorge di te e del tuo dramma. Soprattutto nella nostra cultura che si alimenta solo della rimozione del disagio e della sofferenza.
Detto questo, è evidente che più avanza la tecnologia, più si riducono i posti di lavoro. E siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d'area e i lavori socialmente utili, la disoccupazione non può che avanzare, indipendentemente dalla crisi che stiamo attraversando, che spesso diventa a sua volta una giustificazione utile per sfoltire i posti di lavoro. Tutto questo in nome della razionalità del mercato, che, come un'entità impersonale, tende a far passare le sue leggi quasi fossero "leggi di natura", mentre invece sono solo le leggi del profitto, divenuto ormai l'unico generatore simbolico di tutti i valori.
Già Marx avvertiva, in pieno Ottocento, che "gli uomini esistono solo come rappresentanti delle merci".
Oggi potremmo aggiungere che le merci hanno una libertà di circolazione, nei vari paesi del mondo, che gli uomini si sognano.
Ma almeno, al tempo di Marx i lavoratori potevano opporsi ai datori di lavoro. Oggi, sia gli uni che gli altri si trovano dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità del mercato, contro cui nessuno solleva obiezioni.
Ma come si fa, oggi, a rimettere al centro l'uomo e non solo il profitto? L'indicazione di Franco Totaro è quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come "produzione", ma anche e soprattutto al lavoro come "servizio", di cui la nostra società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si dedicano all'assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento finanziario, se l'economia non pensasse solo alla produzione, ma anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone.
Qui forse si annida anche il segreto di una maggior felicità sociale, che certamente non è data dall'ultima generazione di automobili, di telefonini o di computer, come, ingannandoci, la pubblicità cerca di farci credere.
Di questo parere e anche Frédéric Beigbeder, che nel suo libro Euro 13,89 (Feltrinelli) scrive: "Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello che vi vende tutta questa merda. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità e che non resta mai nuova. C'è sempre una novità più nuova, che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma".


repubblica delle donne 28 novembre 2009


L'intelligenza è niente senza un tocco di pigrizia

L'intelligenza è niente senza un tocco di pigrizia
Hans Magnus Enzensberger, nato a Kaufbeuren, in Germania, nel 1929, è una dette più importanti figure detta cultura europea: poeta, filosofo, saggista, giornalista, traduttore. Il brano che segue è tratto da Hammerstein o dell'ostinazione, pubblicato da Einaudi nel 2008.
Erich von Manstein, il futuro feldmaresciallo condannato nel 1949 per crimini di guerra, nelle sue memorie ha espresso su Kurt Hammerstein il seguente giudizio: «Proveniva come me dal 3° reggimento guardie di fanteria e insieme al generale von Schleicher era forse una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Aveva coniato l'espressione "le norme sono per gli stupidi", e intendeva tutte le persone nella media, una frase che lo caratterizzava. In guerra sarebbe stato un condottiero eccezionale. Come comandante in capo dell'esercito in tempo di pace non coglieva l'importanza di occuparsi anche del lavoro minuto, e del resto provava un senso di compassione verso l'"operosità",una caratteristica, diceva, ormai indispensabile all'uomo medio. Dal canto suo, ne faceva un uso moderato, visto che, con la sua intelligenza rapida e la mente acuta, poteva permetterselo». (...)
Un giorno, quando chiesero ad Hammerstein da quale punto di vista valutasse i suoi ufficiali, disse: «Li divido in quattro tipi. Ci sono ufficiali intelligenti, laboriosi, stupidi e pigri. Il più delle volte due di queste caratteristiche coincidono. Se sono intelligenti e laboriosi, devono entrare nello stato maggiore generale. Poi ci sono gli stupidi e pigri che costituiscono il 90% di ogni esercito e sono adatti per compiti di routine. Chi è intelligente e insieme pigro si qualifica per gli incarichi di comando più elevati, perché dispone della chiarezza mentale e della stabilità emotiva per prendere decisioni difficili. Bisogna guardarsi da chi è stupido e laborioso e non affidargli responsabilità, perché combinerà solo disastri».

martedì 8 dicembre 2009

limite dei 150 orari

Elevare il limite di velocità a 150 è un vero atto criminale. Primo: viste le tolleranze, si andrà a multare chi va oltre i 160. Secondo: se oggi un ubriaco al volante viene (forse) fermato se supera i 130, domani? Terzo: più aumenta la velocità, più aumenta l'inquinamento. Tanto che, nei giorni di allerta ambientale, la velocità nelle autostrade a ridosso delle grandi città sarebbe da ridurre a 110. Quarto: avete mai provato a
scendere dall'auto in autostrada, e mettervi a livello strada (nell'ottica, per esempio, di un cane abbandonato)? Vedreste le auto come schegge impazzite, che corrono , già a 130 all'ora, ad una velocità folle.

lunedì 7 dicembre 2009

Un week end a Torino


Torino, 5/6 dicembre 2009.
Da Brescia, siamo arrivati in auto passando per Milano. Col treno era più semplice, ma non volevamo vincoli di orario e volevamo visitare la mostra di arte moderna a Rivoli.
Il problema a Torino, se si arriva con l'auto, è circolare sui vialoni: teoricamente facile, praticamente ci vuole un "trucco" per svoltare a sinistra: ovvero, andare nella corsia extravialone di destra, svoltare a sinistra e poi immettersi nell'altra corsia extra vialone opposta...talvolta funziona, poi ci sono le eccezioni...
Comunque, ottimo l'albergo vicino alla stazione Art Hotel Boston Via Massena 70, 110 euro la doppia + 15 euro di parcheggio a notte, che è è una galleria d'arte ...ottima colazione e tranquillità.
Vista la bella giornata, abbiamo passeggiato al parco del Valentino e visitato il "borgo medievale" lasciato dall'esposizione del 1880, per poi visitare il bellissimo museo del cinema presso la mole antonelliana.
Anche rilassante...sulle chaises longues del grande tempio, mentre osservavamo una bella selezione di balli nella storia del cinema, ci siamo anche fatti una dormitina....Il museo merita il viaggio, e anche un ritorno.
A Torino è pieno di pasticcerie e cioccolaterie, buone per continue soste.
Stavolta niente visite gastronomiche particolari, da segnalare comunque: evitare la farinata e la pizza in una strada vicino al Valentino, untissime; ok il gelato da Grom, vicino alla stazione, via Paleocapa 1/d, e utile e buono il self service lì vicino.
Il giorno dopo, domenica, visita al castello di Rivoli, appena fuori Torino. Il castello non è granchè, ma è stato trasformato in museo di arte moderna, con bella permanente. C'era una bella mostra temporanea di Gianni Colombo, che non conoscevamo.



domenica 29 novembre 2009

gambero rozzo: verona "al solito posto"

Il locale è carino, a due passi dalle arche scaligere (bellissimo il confronto fra quella restaurata, magnifica, e quella corrosa da restaurare).
I proprietari oggi evidentemente erano in giornata no (pochi clienti anche se sabato?) e quindi niente particolari cordialità.
Abbiamo preso le specialità consigliate dal "Gambero rozzo", ma i bigoli all'amarone e uvetta con scaglie di grana erano...sommersi dal grana che asciugava il tutto e copriva il sapore. Il baccalà era molto buono, ma accompagnato da una fetta (tagliata a carrè) di polenta che aveva l'aria del subito pronto hard discount.
Il buffet di verdure era molto ricco.
Bicchiere di lugana buono..
Voto: 6, 7 sulla fiducia per una prova d'appello



lunedì 23 novembre 2009

registrazioni

Verrà il giorno in cui il cd su cui è registrato ogni nostro pensiero, ogni ricordo e ogni immagine della nostra vita, sarà illeggibile per mancanza di lettori di cd; allora forse qualcuno prenderà quel dischetto, che è in effetti la nostra anima, e lo adopererà come sottocoppa per la tazza da tè o per il vaso di fiori.
da: Benvenuti nella società delle registrazioni di Maurizio Ferraris il sole 24 ore 8 novembre 2009

venerdì 20 novembre 2009

Rubare i sogni

LE AVETE RUBATO I SOGNI
Poco più di un anno fa, quando facevo ancora il
procuratore della Repubblica, è arrivata nel mio ufficio
una ragazzina. Faceva il IV anno di Giurisprudenza e mi ha
spiegato che voleva scrivere una tesi sulla lentezza dei
processi penali in Italia (cause e possibili soluzioni); e che
cercava informazioni sul campo, intervistando magistrati e
avvocati.

Io l’ho guardata un po’ meglio e ho capito che
tutto era meno che una ragazzina. Poi ha tirato fuori un
registratore e abbiamo parlato per non so quanto tempo;
era così acuta e determinata, così pronta a identificare
l’essenziale di ogni problema, che le ore sono volate.
E’ andata via ringraziandomi garbatamente. Un anno dopo
mi è arrivato un grazioso bigliettino (da ragazzina) su cui
era scritto “è solo una tesi …” e una pen drive che la
conteneva. Sì, era solo una tesi; molto ben scritta e
drammaticamente accurata. Poi l’ho dimenticata: quello
che lei aveva scritto lo conoscevo fin troppo bene; e ciò che
mi divideva da lei era la meditata sfiducia nelle “possibili
soluzioni”, tanto più “impossibili” quanto semplici ed
efficaci.
Qualche giorno fa la ragazzina mi ha mandato una
e-mail: “Si ricorda ancora di me?”, era l’oggetto. Mi
ha raccontato che fa la cameriera in un paese straniero
dove cerca di “imparare una lingua che a scuola non ho mai
studiato” e dove frequenta un master in materie che “non
hanno nulla a che fare con i miei sogni di bambina”. Io lo
sapevo quali erano i suoi sogni: voleva fare il magistrato. Mi
aveva detto, mentre discutevamo della sua tesi, che voleva
servire il suo paese. Adesso, mi ha scritto, non sogna più;
adesso ha capito che “non potevo sprecare la mia vita per
salvare un paese che non vuole salvare se stesso. Che non
avrei potuto passare la vita ad applicare leggi espressione
di un Parlamento che non mi rappresenta: che dei
delinquenti potessero promulgare leggi che facciano in
modo che la giustizia funzioni sarebbe stata un’illusione
alla quale nemmeno la grande sognatrice che ero poteva
c re d e re ”. Così, ha scritto, ha deciso di “s c e n d e re ”; e se ne è
andata. Adesso studia e lavora in un altro paese, lontana
dai suoi affetti e dai suoi
luoghi. E’ – così si è definita –
“una piccola fuoriuscita” che
ogni giorno legge, con altri
come lei, il Fatto, ingoiando
una rabbia che l’essere scesa
dalla giostra non
ammorbidisce. “Poi – mi ha
scritto – ci sono giorni come
oggi, quando il professore ti
prende in disparte e ti chiede:
‘What the hell is happening in
Italy?’. Questi sono i giorni in
cui non mi importa di essere
una straniera che fa fatica a
trovare il suo posto nel mondo,
tutto quello che so è che sono
felice di essere scesa”.
Adesso non credo che io e
molti altri come me potremo
dimenticarla; non lei e
nemmeno i “piccoli
fuoriusciti” suoi amici. E ora
che ho finito di raccontare di
Paola, vi chiedo: vi rendete
conto di cosa avete fatto a
una ragazzina?
di Bruno Tinti, il fatto, 20 novembre 2009

lunedì 16 novembre 2009

L' uomo e il camoscio quel poetico duello come Moby Dick

Recensione di “Il peso della farfalla” di Erri De Luca – Feltrinelli, 72 pp 7,50 euro

Paralleli in tutto, anche nel presagio di morte. Cacciatore e camoscio, il re dei bracconieri e il vecchio capobranco. Due campioni a fine carriera, uniti nella sfida come Achab e il Leviatano, ma stavolta senza il demonio dentro.

Non c' è spazio per l' Orrore sui monti scintillanti di novembre, tempo di morti per gli uomini e di amori per gli animali del bosco, quando terra e cielo si avvicinano. Racconto montanaro scabro, levigato come ciottoli di fiume, con una prosa "orale" sul filo dell' endecasillabo, questo di Erri De Luca, Il peso della farfalla (Feltrinelli). Storia spremuta dagli scarponi e dall' andatura, dalla pioggia e dai silenzi di quota, dalla grandine vetrata e dalle stelle d' inverno che scendono come briciole dal cielo. E' quello, ci dice lui stesso, «l' albume, la proteina della scrittura». Metafore che salgono dai piedi, non scendono dalla testa.
Il vecchio re dunque. Fiero, solitario e imbattuto, un campione come non s' era mai visto, con una farfalla bianca che sventola a bandiera sopra il corno sinistro. In basso, le sue femmine in estro, odore buono di mandorla che esce da una ghiandola sul collo, il grembo che si prepara a covare nuove creature «nel punto più salvo e più caldo dell' inverno». E i figli inquieti, maschi concorrenti, «usciti dalla spinta dei suoi fianchi».
Dall' altra parte l' uomo, fucile 300 Magnum con pallottola da undici grammi, «ladro di vita indomita e sovrana, lasciata incustodita sotto il sole dal padrone di tutto». Il cacciatore, bandito ma protetto dalla comunità, imprendibile dai guardiacaccia, arrampicatore provetto proprio perché arrampicare non è il suo scopo. Alpinista al contrario, che disperde le tracce anziché lasciarle.
Tra i due un corteggiamento mortale, un inseguimento che parte da lontano, anni prima, quando la bestia col fucile uccide la madre del re ancora bambino. Il camoscio la sente tornare, nel sole di novembre, prima che «la saracinesca dell' inverno» sigilli nuovamente il mondo alpino. Sente salire dal basso l' odore inconfondibile di «grasso rancido che nessuno sterco può mascherare». L' odore dell' uomo. E l' uomo sale, in silenzio. E' ancora forte, ma sente in bocca il presagio della fine, avverte che quella sarà la sua ultima caccia.
Anche il vecchio camoscio imbattuto sente per la prima volta la vita volargli via, ma segue il nemico da lontano, gli gira attorno, disegna arabeschi sui ghiaioni senza far cadere una pietra. La gravità, per lui, non è una legge ma «una variante sul tema». La sua discesa è un arpeggio. Il suo salto «un rammendo fra bordi, un punto di sutura sul vuoto». Entrambi, con i sensi affilati dall' esperienza, vanno dove altri non osano, si cercano in campo aperto per bruciare in simultanea la loro ultima stagione di supremazia. Entrambi hanno imparato non a ripararsi ma a vestirsi degli elementi: vento, neve, pioggia, folgore. Ma l' uomo, a differenza dell' animale, pensa al futuro. Non vive il «qui e ora». Il cacciatore è attanagliato dal futuro e dai presagi, non si accorge che il presente è sopra di lui, perché il camoscio, in silenzio, lo ha raggiunto alle spalle e lo domina. Si volta appena in tempo. Quello che gli piomba addosso per incornarlo non è un animale, ma una furia scatenata, «vento vestito di zampe e di corna». E allora che il re, fallito il colpo per un nulla, raggiunte le sue femmine, si gira verso il nemico e si immobilizza in cima a un masso come un monumento a se stesso.
Uno sparo ed è finita; il monarca dalle corna a uncino resterà imbattuto per sempre. Così i ruoli s' invertono: è il camoscio ad aver vinto, mentre l' uomo capisce che la sua è una sconfitta. La bestia col fucile si inchina davanti a quel corpo enorme, vuole solo il suo trofeo di corna, ma non può accettare che il re finisca con gli occhi beccati dai corvi, così se lo carica sulla schiena con uno sforzo immane, arranca su per un ghiaione per nasconderlo sotto un nevaio e seppellirlo l' estate seguente. Ma il cuore non regge.
E quando la bianca farfalla del re torna a posarsi sul corno sinistro, quel peso da nulla in più è determinante e lo schiaccia. I due corpi saranno trovati insieme da un boscaiolo, dopo «un inverno di neve gigantesca», e insieme saranno sepolti in montagna. Seguiva i boscaioli, il re dei camosci, per mangiare dagli alberi appena abbattuti l'inarrivabile ciuffo che sta sulla cima degli abeti. Stava lì il concentrato ultimo della vita della pianta. Era quello il segreto della forza del re.
Ed ecco che la storia del duello — più pagana che biblica — ne produce una seconda, più breve, per gemmazione, dedicata appunto a un albero. Un cembro contorto sui monti di Fanes, un eroe piantato sopra il vuoto.maestro di eleganza e di silenzio. Un figlio della terra e del cielo, nato dove la folgore un giorno ha marcato l'abbraccio nuziale fra i due.
E' con simili campioni solitari che vale la pena di restare, finché s'accende la prima stella della sera. Ed è qui che il cerchio magico si chiude tra uomo, albero e animale.

PAOLO RUMIZ
Repubblica — 14 novembre 2009 pagina 42 sezione: CULTURA

domenica 15 novembre 2009

decrescita felice

Decrescita, non medioevo
Non vuol dire ritorno al carro e alla candela, né ripudio per la tecnologia. Vuole dire rallentare questa corsa impazzita
di Maurizio Pallante

Il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da diverse forme di crisi: economica, ambientale, sociale, finanziaria, spirituale.
I rimedi che si propongono sono però sempre gli stessi, a partire da un improbabile rilancio dei consumi. Oggi tutti parlano di crisi, ma nessuno si prende la responsabilità di affermare che, ormai, l’unica via per uscirne è modificare l’approccio che noi tutti stiamo avendo non solo con l’economia, ma anche con la realtà.
Nessuno si prende la briga di dimostrare che la soluzione sta nel cambiare l’uso che si fa della tecnologia, il tipo di partecipazione politica e i propri stili di vita. Il termine “decresci ta ” nasce in ambito economico, come ferma contestazione al concetto di crescita economica illimitata (impossibile in un ambiente limitato) ed al Pil come metro di misura del benessere (il Prodotto interno lordo, infatti, cresce anche quando si comprano armi o psicofarmaci, o semplicemente quando si resta imbottigliati per ore nel traffico a respirare gas di scarico), per poi passare in ambito filosofico, come proposta di un nuovo paradigma culturale che ci liberi dalla schiavitù del produttivismo forsennato che ci ha attanagliati in particolare negli ultimi decenni. E che ci ha portato all’attuale situazione di “crisi” (economica, occupazionale, ambientale, sociale, climatica) causata dal mito della crescita economica e dell’aumento del Pil.
Il Movimento per la Decrescita Felice si pone quindi lo scopo di introdurre nel dibattito politico il tema, appunto, della decrescita economica.
Attenzione: decrescita non vuol dire ritorno al carro e alla candela, né tanto meno ripudio per la tecnologia. Vuole semplicemente dire rallentare questa corsa impazzita che ci sta portando (se non lo ha già fatto) al punto di non ritorno.
Vuole tornare a parlare di qualità, piuttosto che di quantità, a dare valore a cose che ne hanno perso troppo negli ultimi tempi, a partire dall’ambiente fino ad arrivare alle relazioni umane.
Felice perché unire l’attuale livello culturale a certi usi imprudentemente abbandonati ci potrebbe portare a migliorare notevolmente la qualità della nostra vita. Addirittura diminuendo la quantità di denaro necessaria a farlo.
Decrescita non è sinonimo di recessione, ma una presa di coscienza e, conseguentemente, una scelta di vita. È un ritorno alla semplicità, da non confondere appunto con il dramma di chi, all’improvviso e senza nessun mezzo per farvi fronte, si trova disoccupato a causa della famigerata crisi occupazionale dovuta alla succitata recessione.
La decrescita è come mettersi a dieta per motivi di salute, la recessione è morire di fame perché non si dispone più di cibo.
La felicità dovrebbe essere intrinseca al discorso della decrescita, perché da sempre le cose più semplici e più genuine sono quelle che danno più gioia. Anche a coloro i quali si sono ormai convinti che non sia così.
Il Movimento per la Decrescita Felice, per quanto riguarda la tecnologia si fa promotore di ogni tipo di soluzione che porti a un risparmio di energia, a un ridotto uso di risorse, a un allungamento della vita utile di ogni tipo di oggetto e, ovviamente, a una riduzione della produzione di rifiuti.
A livello politico collabora con enti locali e liste civiche in tutto il paese, fornendo “linee guida” che possano aiutare ad orientarsi meglio tutti coloro che hanno a cuore la gestione del proprio territorio, ma che vogliono fare politica al di fuori delle istituzioni esistenti.
Riguardo agli stili di vita, invece, la migliore risposta alla crisi arriva dalla nascita, sempre al suo interno, dell’Università del Saper Fare, primo grande collettore italiano di conoscenza e scambio per l’autoproduzione.
È chiaro che ci sono beni che non si possono né autoprodurre né scambiare (occhiali, computer, visite mediche specialistiche etc, da procurarsi sottoforma di merci), ma appunto capiamo che la sfera mercantile è sì necessaria, ma non “necessariamente” invasiva e totalizzante come la nostra società, che si basa sul mito della crescita, ci ha praticamente costretto a credere.
Ciò può essere un rimedio all’attuale crisi economica, sociale e ambientale, perché risparmiare energia e risorse, o smettere di acquistare merci (spesso dalla dubbia utilità) che finiscono in tempi sempre più brevi nella spazzatura, vuole dire risparmiare denaro. Aumentare la nostra capacità di badare a noi stessi, sia attraverso l’autoproduzione della maggior quantità possibile di beni, sia grazie alla riscoperta del dono e della reciprocità (e quindi della convivialità), può non solo emanciparci dall’economia di mercato evitandoci di dover lavorare sempre di più per guadagnare sempre di più per consumare sempre di più, ma può anche portarci ad avere di meglio con molto meno.
La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione.
La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ricollochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio. Perché tutto è possibile: una nuova economia, un nuovo approccio con la realtà, un rinnovamento delle classi dirigenti. L’unica cosa che non è possibile continuare a fare, per quanto a molti possa dispiacere, è crescere all’infinito, o anche solo pensare di poterlo fare.
www.decrescitafelice.it

Da: il fatto , 15 novembre 2009

venerdì 13 novembre 2009

Gli effetti del cellulare sul nostro cervello

Un nuovo studio condotto in Svezia rileva un cambiamento biologico in seguito all'esposizione prolungata ai dispositivi senza fili
Per la prima volta misurata una modificazione biologica nel liquido cefalorachidiano associata all'uso prolungato di telefoni wireless (Lapresse)
MILANO - Per ora l'unico dato certo è che producono un effetto biologico sul nostro cervello. Non è ancora chiaro se ciò comporti anche dei rischi, ma viene comunque consigliato di usare con la massima accortezza (e tutte le precauzioni del caso) telefonini e altri dispositivi senza fili.


GLI EFFETTI - Da uno studio condotto dall'Università di Örebro in Svezia è emersa una forte correlazione tra l'uso dei cellulari e una proteina contenuta nel liquido cefalorachidiano, responsabile tra le altre cose di proteggere il cervello dalle influenze esterne. L'utilizzo intenso di dispositivi wireless tende a far crescere il livello di questa proteina (la transtiretina) nel sangue.

PRUDENZA - I ricercatori consigliano ancora prudenza nell'interpretazione di questi dati. Non è del tutto chiaro se l'aumento della proteina debba essere considerato un segnale di rischio per la nostra salute. Ad ogni modo, c'è ora evidenza scientifica che i cellulari producono un cambiamento biologico nel nostro cervello che, per auto-difendersi dal flusso costante di segnali wireless, tende a produrre in quantità maggiore transtiretina.

MAL DI TESTA - Una seconda parte dello studio si è focalizzata anche sui sintomi che bambini e adolescenti associano all'uso regolare dei cellulari. Sono stati rilevati mal di testa, disturbi asmatici e problemi di concentrazione. Anche in questo caso, però, è ancora troppo presto per arrivare a delle conclusioni: «È necessario svolgere ulteriori accertamenti per escludere la presenza di altri fattori».

PRECAUZIONI - In attesa di avere dati più certi sui rischi, è comunque consigliabile adottare alcune precauzioni. Solo il 2% dei bambini e degli adolescenti, ad esempio, utilizza gli auricolari. «Il che è preoccupante - sottolineano i ricercatori svedesi - Non sono stati ancora chiariti gli effetti sul lungo periodo dell'esposizione alle onde elettromagnetiche. Al momento si prende in considerazione solo il riscaldamento prodotto dai cellulari (il cosiddetto "effetto termico"). Ma potrebbero esserci altri fattori indipendenti dal riscaldamento di cui potremmo renderci conto solo dopo molti anni».

Corriere della sera
Nicola Bruno
12 novembre 2009

giovedì 12 novembre 2009

gli intoccabili

Dal famoso film “Gli intoccabili”. Dopo l’incredibile e inaspettata
condanna, Robert De Niro, nelle vesti di Al Capone si
rivolge alla giuria e al giudice urlando inferocito: “Signor
giudice, ma che democrazia è questa?!!! Ma che cos’è questa
storia!!! Avvocato dì qualcosa!!! Avvocato!!!!!

lunedì 9 novembre 2009

Colin Beavan a impatto zero

ECOLOGIA
Colin Beavan ha vissuto un anno nel rispetto più rigoroso dell'ambiente: e l'ha fatto a Manhattan. Ora in un libro, un blog e un documentario, racconta l'equazione - rifiuti + felicità


PAPA' A IMPATTO ZERO
Quattordici tazze da caffè in plastica, due in carta e quattro in polistirene. Diciannove tovagliolini e quattordici borse di carta, posate (mai usate) e tre contenitori di cibo d'asporto di plastica, più quattro d'alluminio e uno in carta rinforzata per le patate fritte. Tre fogli di carta stagnola e due scatole di cartone per l'imballaggio di due lampade. Ci fermiamo qui. Lasciamo incompleto l'inventario dei rifiuti di quattro giorni di vita quotidiana di una famiglia di tre persone a Manhattan: fuori resterebbero i pannolini della bambina e gli alimenti andati a male.
La famiglia in questione è quella di Colin Beavan, scrittore e attivista verde, che, imbarazzato di fronte a questa sua collezione meticolosa e molto anti-ecologica, ha deciso, in un impeto di coerenza personale, di limitare lo spreco, buttando stavolta nella spazzatura un intero stile di vita. Come ha fatto? Lo racconta nel libro (in carta riciclata) No Impact Man, appena uscito negli Usa da Farrar, Straus and Giroux, cronaca dettagliata di un anno vissuto senza creare impatto sul pianeta. "Non è la spazzatura in sé a farmi pensare", scrive l'autore, "ma il fatto di buttare via cose usate per meno di cinque minuti".
Quale strategia adotta ora per salvare la Terra? In sintesi, riduzione radicale dei consumi ed eliminazione drastica dello shopping, eccezion fatta per i prodotti alimentari locali. La fatica è tanta e la conclusione singolare: rinunciando a tutto si è più felici. Il concetto non è inedito, ma il paesaggio circostante lo è, la città dalle mille luci, seppur ridotte per via della recessione: sostituire le candele alle lampadine è stata lì una sfida dura, solitaria e improbabile.
Colin Beavan ci ha provato lo stesso. Ne nascono il libro e una organizzazione no-profit. Viene anche girato un documentario di 90 minuti che ritrae
la trasformazione verde della famiglia giorno dopo giorno, diretto da Laura Gabbert e Justin Schein, poi presentato al Sundance Film Festival.
Il suo blog NolmpactMan.com viene nominato da Time tra i 15 siti ecologici più autorevoli, il New York City's Lo-wer East Side Ecology Center lo incorona Eco-star 2008, l'HuffingtonPost ora sponsorizza le No Impact Weeks, per chi vuole tentare un approccio ecosostenibile alla Terra. Incontriamo Beavan nella libreria Barnes & Noble di Tribeca, Manhattan.
È con la moglie Michelle e la figlioletta Isabella (il cane Frankie è rimasto a casa), coprotagoniste dell'esperimento.
Non solo niente luce elettrica, ma nemmeno ascensore, auto, mezzi pubblici, cibi dei supermercato, televisione, riscaldamento e carta igienica.
Che tipo di felicità ha trovato? «Vorrei chiarire subito che io non predico l'ascetismo e la rinuncia. Semplicemente mi sono chiesto se esaudire certi desideri porti la felicità. Mi riferisco a quello che gli psicologi positivisti chiamano "la ruota edonistica".
Comprare un nuovo cellulare, un televisore, un'altra casa, procura un piacere immediato ma temporaneo. Così, per rinnovare la sensazione di felicità dobbiamo acquistare ancora. La felicità si incontra invece interrompendo questo ciclo. Le relazioni sociali, le aspirazioni personali, la dedizione a una attività, sono la vera soddisfazione».
Come viveva prima? «Come tante persone a New York. Lavorando e consumando. La nostra giornata tipo cominciava svegliando, cambiando e sfamando la nostra bambina. Il consumo di un pannolino e una bottiglia di latte in plastica. Un veloce giro intorno all'isolato per far camminare Frankie, usando un sacchetto di plastica per pulire i suoi bisogni. Colazione al caffè all'angolo (anche lì, carta o plastica). Accompagnare Isabella dalla baby sitter, andare al lavoro producendo le relative emissioni di gas con i mezzi di trasporto. Tornare a casa, farsi recapitare la cena da un ristorante della zona (altre emissioni, carta, plastica). Un'ora di tv (spreco di energia). Un altro giro con Frankie. Non c'era il tempo per fare la spesa, preparare da mangiare e stare insieme a tavola. Da quando abbiamo iniziato l'esperimento, abbiamo imparato a gustarci una cena casalinga, senza l'invadenza del video. Questo è stato uno dei punti a nostro vantaggio e a vantaggio dell'ambiente». Sua moglie come ha vissuto questa esperienza?
«Ha imparato a mangiare sano. Ha smesso di acquistare abiti od oggetti inutili in maniera compulsiva. Ha ritrovato la forma fisica, girando a piedi o in bicicletta e salendo nove piani di scale per arrivare al nostro appartamento, più volte al giorno. Anche il nostro rapporto si è arricchito. Abbiamo trovato le occasioni per stare insieme condividendo un'avventura impegnativa. E mia figlia ci ha aiutati, perché ha affrontato la situazione con la leggerezza di un gioco. Se il regolamento ci imponeva di non usare più la luce elettrica, Isabella si divertiva ad accendere le candele, come se fosse un normale cambiamento. Mi chiamava No Impact Daddy!». Quindi non eravate felici prima? «No, non molto. Gli Usa sono i maggiori responsabili della crisi ambientale e i maggiori consumatori del pianeta. Dovremmo essere il popolo più felice del mondo, invece non è così. A New York siamo tutti infelici, lo lo ero, i miei amici lo erano, o lo sono tuttora. Ero la classica persona che pur di sentire il fresco in casa al ritomo dal lavoro lasciava l'aria condizionata accesa tutta la giornata.
Oggi a chi rivendica la libertà di fare scelte diverse, rispondo chiedendo: ha senso spendere metà dello stipendio per mantenere un'auto? È questa la libertà? Sono convinto che possiamo cambiare le nostre cattive abitudini. È come smettere di fumare». Terminato l'esperimento, quali buone abitudini avete mantenuto? «Continuiamo a non guardare la tv. Il frigorifero funziona di nuovo, non il congelatore. La lavastoviglie si è rotta e non ne abbiamo comprata una nuova. Continuo a usare la bicicletta, ma ho preso qualche taxi, qualche aereo, e viaggio in metropolitana, se piove. Se vogliamo fare una cosa la facciamo.. Per esempio, pur continuando a non mangiare carne, nostra figlia a un certo punto ha annunciato di non voler più essere vegetariana. Le abbiamo dato del tacchino per il giorno del Ringraziamento. Ne ha assaggiato un pezzo, poi ha chiesto del formaggio». Per dire: come viaggia il suo libro per raggiungere le librerie? «Ovviamente è una contraddizione e un problema. Il punto è capire come usare al meglio le risorse anche a costo di qualche compromesso. Credo che far giungere il messaggio del mio libro sia prioritario. Ci tengo però a sottolineare che il volume è fatto al 100% di carta riciclata senza clorina, composta usando energia generata da biogas».
di Francesca Gentile repubblica delle donne 31 ottobre 2009

L'arduo sentiero dell'amicizia

Scrive Platone: Se uno, con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore del’occhio dell’altro,vede se stesso” (Alcibiade I, 133a)
E l'amicizia? Che fine ha fatto? Si è dissolta, forse si è nascosta, oppure è un sentimento in via di estinzione? In quest'assurda società, carica di valori inconsistenti, che posto occupa l'amicizia?
Non solo, ma aggiungo - forse, con uno spietato senso della realtà - c'è ancora posto per l'amicizia o è stata surrogata da brutte copie di un sentimento che non s'incontra più? Ci sarebbe tanto da dire sul tema in questione, stranamente ancorato alla nozione di tempo che tutti noi abbiamo a disposizione - e che si assottiglia sempre di più - lasciando invero pochi brandelli per quel valore aggiunto che dovrebbe arricchire a dismisura ogni essere umano e che viene invece evitato con fastidio, quasi fosse viziato da un insospettabile retrogusto amaro che di conseguenza ci fa desistere dal valorizzare. Nella vita sciatta di tutti i giorni, noto con triste ripetizione lo sbandieramento quasi sfrontato (e a tratti cafone) di inutili trofei, segno dei tempi, ma non sarebbe più bello se tutti noi potessimo mostrare tanti amici come tratto distintivo di vera ricchezza? Antonio Ludovico, avvocato studlolegalelutlovlco@gmaH.com

Più la società diventa di massa - o nella forma di quella solitudine che ci incolla davanti a un computer vittime di una bulimia affettiva, per cercare non tanto amici quanto riconoscimenti della propria identità che non sappiamo dove altro reperire, o nelle adunate di massa in occasione dì concerti, o davanti a teleschermi per i grandi eventi, o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo o la fede che già possediamo - più l'amicizia diventa difficile e impraticabile. A meno di non intendere con questa parola amori che non si ha il coraggio di intraprendere, rapporti coniugali resi esangui dall'abitudine, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni un po' ipocrite e un po' convenzionali nella speranza che un giorno possano tornare vantaggiose.
Oggi conosciamo solo il singolare e il plurale. Così vuole la nostra grammatica. Nel singolare incontriamo la solitudine dell'anima che vagheggia mondi e ideazioni, che mai avremmo il coraggio di rivelare in pubblico, che si inabissa in dolori che la buona educazione ci induce a non manifestare, che si esalta in entusiasmi che sfuggono a ogni misura e moderazione. Al singolare conosciamo quello che nel pubblico verrebbe rubricato come eccesso o follia. Anche se è proprio questa follia a darci vita, senso e spessore. Al plurale dobbiamo dar prova di sano realismo che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere più una risposta agli altri che propriamente noi stessi. E tutto questo per essere accettati, riconosciuti, identificati, e nei casi estremi persino applauditi. Ma l'amicizia disabita il singolare e il plurale, perché conosce unicamente il duale, con cui gli antichi Greci coniugavano le loro forme verbali quando il discorso era fra due, carico di quella valenza simbolica del linguaggio che ben conoscono gli innamorati in quel breve periodo in cui non riescono a concepire se stessi senza l'altro. Tra l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l'amicizia, che abita il duale, consente di comprendere tutte quelle eccedenze di senso che segreto la nostra anima crea. Eccedenze che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia, mentre nell'ascolto accogliente dell'amicizia possono dirsi e, invece di restare soffocate e inespresse, svelare la nostra intima verità. Per questo, penso, non si possono avere molti amici, come invece lei si augura, ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima, a cui svelare il nostro segreto che l'altro segretamente custodisce. Non per confidarci o cercare consenso o conforto, ma per vedere che cosa nella comunicazione duale il segreto ha da svelarci. Silenziosamente, a poco a poco, incontro dopo incontro. Perché così chiede il ritmo dell'anima, che vuol dirsi e insieme custodirsi, per non spegnere le sue creazioni e nello stesso tempo non disperderle nel rumore del mondo. Se questa è l'amicizia, la nostra cultura, che conosce solo l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, non è la più idonea a favorire quell'incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso, e che lo sguardo accogliente dell'amico potrebbe incominciare a raccontare e a delinearne i contorni. Perché in fondo è la scoperta di noi quello che l'amicizia favorisce e propizia.
Umberto Galimberti, repubblica delle donne, 31 ottobre 2009

domenica 8 novembre 2009

Due cacciatori stanno camminando nel bosco....

Uno psicologo inglese dell'Università dello Hertfordshire ha stabilito qual è la barzelletta considerata più divertente: «Due cacciatori stanno camminando nel bosco. Uno dei due cade a terra, privo di sensi. L'altro chiama il soccorso sanitario: "Il mio amico è morto.
Cosa devo fare?". Il medico risponde: "Prima di tutto si accerti che sia morto davvero".
In sottofondo si sente uno sparo.
"Ok" riprende il cacciatore "e adesso?"».

venerdì 30 ottobre 2009

agosti, il ballo degli invisibili

Sto leggendo questo libro, molto bello. Racconti di tre pagine, frutto degli incontri di ogni giorno. Molto poetico. A mio parere, potrebbe essere usato come una specie di breviario, leggendo goni giorno un racconto nuovo......


S. Agosti "IL BALLO DEGLI INVISIBILI" Ediz. l'Immagine, Roma, 2007

SERGIO ZAVOLI dalla prefazione del libro.

"Caro Silvano,
Sei tra i pochi che mi ricordano una frase dettami da Fellini: "L'immaginazione è il modo più alto di pensare." Federico, con gli occhi, non sbagliava mai; e tu neppure con le tue utopie, le tue Shangri-là trasformate in metafore anche civili, con quel bisogno di equità, di pace.
Tienile vive per noi, fa come quando il più dolce dei nostri amici andava avanti per tenerci il posto! Tu sei tra quelli, sempre più rari, quasi scomparsi. Incontaminato."
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Il Ballo degli invisibili di Silvano Agosti è una raccolta di racconti , o meglio , come dice l’autore, di romazi brevi. Una raccolta tra impegno civile e leggenda.

Silvano Agosti è una persona sorprendente a partire dalla biografia, nato a Brescia nel 1938 uscì di casa a diciassette anni per andare a vivere a Londra, visitò tutta l’Europa e poi … partì a piedi per visitare il Medio Oriente.

Nel 1960 tornato a Roma si iscrisse al centro sperimentale di cinematografia, vinse il ciak d’oro, visse a Mosca dove si specializzò sull’opera di Ejzenstejn e ,tra le altre cose, lavorò con Bellocchio alla scenografia de “I pugni in tasca”.

Nel 1967 venne censurata in Italia la sua prima regia “il giardino delle delizie” ma fu ripagato dall’invito alla esposizione universale di Montreal. Diresse con Bellocchio, Petraglia e Rulli “Matti da slegare”.

La biografia di Agosti dimostra la sua curiosità per il mondo e l’essere umano ed il suo desiderio di mettersi in gioco.

Intorno agli anni 80 inizia la sua produzione letteraria che include “l’UOMO PROIETTILE” (candidato al Premio Strega) , “la ragion pura” e ”Lettere dalla Kirghisia” .

Un autore definito da molti “poetico e feroce”, predilige i rapporti umani ai rapporti di potere , vive a Roma e non chiude mai la porta di casa… ecco..un autore che mi piace ma soprattutto una persona che mi piace…

“L’arte è semplicemente un meccanismo per ricordare agli esseri umani che sono loro il vero capolavoro purché invece di imprigionare in sé la vita si limitino ad ospitarla. «Poiché - come dice Lucrezio - la vita a nessuno è data in proprietà, ma a tutti in uso»”. Silvano Agosti

lunedì 26 ottobre 2009

vigevano: leonardo e museo tradizioni

Bella la piazza di Vigevano, punto di incontro della gente.
In piazza, c'erano gli alpini che preparavano caldarroste e un ottimo castagnaccio.
Al castello e nelle scuderie, molto bella la mostra sul codice atlantico e il codice del volo di Leonardo . Aperta fino al 5 aprile 2010, presenta un ottimo lavoro di leonardo 3
che mette in mostra scan dei codici, con animazioni in 3d e ricostruzioni di alcune delle grandi idee di Leonardo: la macchina del volo, l'"elicottero", un multicannoni da mare, ecc.
Da non perdere a due passi, in Via del Popolo 17, il bel museo della vita quotidiana e della grande guerra. Una bellissima iniziativa che raccoglie oggetti, fotografie e altro materiale sulla vita quotidiana.



martedì 20 ottobre 2009

biografia morale di un cane

Ecco spiegata la metamorfosi: il cane cambia l’uomo entrato in relazione con lui. Lo rende più buono, più intelligente, più sano. Perfino lo riconduce dai vertici prepotenti delle ideologie allo “stare immerso nelle cose e cercare soluzioni parziali”.


Trattato d’amore domestico
Liù, una storia d’amore
Di Gad Lerner

“E l’ho mica voluto io, il cane”. La responsabilità della scelta, di fronte agli sguardi ironici dei colleghi e dei superiori, è meglio lasciarla al ben noto sentimentalismo da sesso debole: cioè alla moglie.
Fin dall’esordio di "Liù. Biografia morale di un cane "(Mondadori), Edmondo Berselli sollecita un moto d’immedesimazione nel lettore. Siamo con lui, imbarazzato, mentre rivela l’ingresso nella sua vita di un cucciolo di labrador femmina dal pelo nero, di fronte a persone autorevoli con le quali abitualmente discetta di scienza politica o al massimo cazzeggia di football.
Capisco quel che ha provato Berselli. Anni fa toccò pure a me ritrovarmi una bassotta a pelo ruvido inclusa nel “pacchetto” della mia nuova vita sentimentale. Non appena mi vide di fianco a tale quadrupede il direttore dell’epoca si sbellicò, insistendo che come penitenza percorressi l’intero open space della redazione, a esibire la retrocessione di status: maschio al guinzaglio.
A parziale risarcimento del disagio provato, sappia Berselli che pure quel direttore fu visto in seguito a passeggio con bestia, medaglietta e sacchetto per la raccolta delle deiezioni (viva il senso civico) foriero le prime volte del ben noto choc da tepore inaspettato della materia.
Il labrador è un animale specialmente bavoso e odoroso, le cui zampe ticchettano sul parquet domestico mentre il muscolo della coda detiene energia sufficiente all’abbattimento dei soprammobili. Il tractatus berselliano deve coprire dunque l’arco di un decennio, compresi i tre anni di insistenze della moglie, per darci conto di come infine Liù abbia conquistato il diritto di giacere sul fondo del lettone, tra i piedi dei genitori acquisiti.
Ci addentriamo nella macchinazione ordita dagli amici già proprietari di cani, ovvero già caduti nella trappola, e nelle ripetute visite ai cuccioli nell’allevamento varesotto di Cermenate, per seguire la cronaca intellettuale di un cedimento. L’autore, di fronte all’immagine di quei cotechini baffuti, si lascia andare: “come sempre quando vedo i neonati, a me viene da piangere”.
E’ l’inizio di una metamorfosi tanto prevedibile quanto stupefacente, scaturita da una scoperta preliminare, al cospetto di un cane altrui che “non si comporta proprio come un animale”. Di più: “Sembra possedere lo stigma di una individualità, un corpus di elementi singoli e coordinati che esulano dai comportamenti meccanici della specie”.
Prima di ammettere la metamorfosi, e anche dopo, Berselli ci tiene a esibire per intero il suo pedigree filosofico. Forse in competizione con le giravolte e i salti di Liù, l’autore a ogni pagina ci avvolge nei suoi virtuosismi teoretici esilaranti.
Che nessuno osi prenderlo sottogamba: “Cito Nietzsche in tedesco meglio di Galimberti e forse anche di Cacciari, che ha un accento un po’ troppo venessiàn”. Dunque è proprio il Berselli che conosciamo, niente affatto abbrutito, l’uomo che in un appartamento modenese ripulisce le pisciatine con l’alcol e accetta di essere leccato.
E’ il politologo raffinato l’uomo che si trascina nelle albe nebbiose al parco Ferrari, dove al primo sguardo si riconosce la tipologia dell’altro padrone di cane. E’ il cantore dell’ironia emiliana l’uomo destinato a commuoversi di fronte ai reclami bisognosi di compagnia di Liù, fino al passaggio decisivo: il giaciglio canino traslocato nella camera da letto, sancendo il definitivo ingresso in famiglia. La cagnolona. La reginetta della casa. L’elogio dell’intelligenza del cane. La filosofia della cagnara.
Prima dell’imperdonabile deroga già citata, il salto definitivo sul lettone: “E io tra di voi”.
In un sussulto di dignità Berselli ci tiene a precisarlo: “Sia ben chiaro che questa non è la storia di un cane”. E’ la storia della metamorfosi di Berselli, difatti. Ovvero di un cinquantenne sposato che a testa alta si infila nel “vicolo cieco spaventoso, dove il cane ti rende impossibile la vita, le vacanze, il lavoro, la normalità, e tu ti ridurrai a essere un povero disgraziato attaccato a un guinzaglio, un infelice costretto ai voleri indisponenti di un essere selvatico e senza creanza, possessivo ed egoista, nonché magari sciaguratamente innamorato proprio ti te”.
Ci voleva tanto a capirlo? Benché l’autore tenti di nasconderlo con tonnellate di aneddotica e quintali d’erudizione (troverete tutti, da Benedetto Croce a Shel Shapiro, passando per Wittgenstein e Indro Montanelli) con Liù Berselli rifonda da par suo il genere del trattato amoroso.
Ora non arrossisca e non si tiri indietro: nel descriverci l’amore che prova nei confronti delle sue due femmine, Marzia e Liù, il professor Berselli si rivela più Rimbaud che Alberoni.
Il crescendo sinfonico del libro, con gran finale movimentato allegro in cui è previsto –in sorta di commiato- il raduno di tutti gli amici in festa, trasfigura in uno scodinzolio collettivo il pretesto fornito da Liù. Che per fortuna viene amata per quello che è, un labrador, senza bisogno né di umanizzarla né di beatificarla: “Il cane non è buono in sé, è un produttore di effetti, un generatore di sentimenti, una polarità di emozioni e gesti e good vibrations”.
Ecco spiegata la metamorfosi: il cane cambia l’uomo entrato in relazione con lui. Lo rende più buono, più intelligente, più sano. Perfino lo riconduce dai vertici prepotenti delle ideologie allo “stare immerso nelle cose e cercare soluzioni parziali”.
Così il poema amoroso di Berselli ci cattura, e la suspense di una calza blu di cashmere ingoiata con pericolo d’intasamento digestivo ci scuoterà più di una qualsiasi disputa tra umani incapaci di relazione col bau bau di tutti i giorni. Perché il cane, succedaneo della prole in tempi di denatalità, si rivela infine il liberatore del nostro miglior spirito animale.
Edmondo Berselli, labrador nero, Liù. Biografia morale di un cane

Questo articolo è uscito su “Repubblica”. domenica, 18 ottobre 2009

domenica 11 ottobre 2009

imparare a insegnare

Per un'educazione emotiva, capace di seguire i percorsi individuali con cui ciascuno studente perviene al sapere, è necessario che una classe sia composta al massimo da quindici studenti, perché con venticinque o trenta alunni in classe è assolutamente impossibile non solo seguire, ma addirittura conoscere i percorsi emotivi, le turbolenze adolescenziali, le fasi di entusiasmo o di sfiducia, il lento scivolare nella demotivazione, fino allo scollamento dell'alunno dalla sua classe e alla fine l'abbandono.

Scrive Nino Giuliani in Fiabesca vita del maestro elementare Angelo Scaraboni (Editrice Versilia Club):
Non uso il pretenzioso 'insegno' perché in verità è molto più calzante il verbo
imparo'. C'è moltissimo da imparare dai nostri scolari"
Anch'io sento, come lei, il bisogno di una valutazione del corpo docente, non sempre all'altezza del proprio compito, a volte sul plano dei contenuti disciplinari, altre volte del metodo, spesso su quello relazionale, imprescindibile per un educatore a contatto quotidiano con adolescenti in formazione. Personalmente trovo che un valido parametro di valutazione della competenza disciplinare del docenti sia dato dall'effettiva preparazione degli alunni, misurata da Indagini garantite scientificamente e calibrate sulla realtà e specificità della scuola italiana. Molto meno facile è controllare l'equilibrio di un professore, la sua personalità, come lei auspica. A chi vogliamo o possiamo affidare, in un Paese come II nostro, questo controllo? A delle commissioni ministeriali? Al Dirigenti Scolastici? Il timore che si trasformi in una pulizia politica mi spaventa ancor più dell'attuale situazione di "deregulation". Vogliamo affidarlo alla "communis opinio" di genitori e famiglie? Oltre al rischio provato di sbagli clamorosi, dettati anche da fenomeni di Isteria collettiva, c'è la banale ma proprio per questo concreta probabilità che si scivoli verso un tacito "voto di scambio": gli insegnanti non saranno troppo rigorosi con gli studenti e questi ultimi non pregiudicheranno la loro carriera. Anche I migliori studenti, ahimè, alla fine cedono, per conformismo o calcolo: massimo risultato (numerico) con minimo sforzo. Per la competenza pedagogica e, come dire, "umana", emotiva, sulla quale spesso lei giustamente insiste, resta fermo il bisogno e l'urgenza di formare I professori anche sotto il profilo psicologico. Perché se è vero che il controllo e la valutazione della personalità di un essere umano è materia delicata, è pur vero che si possono educare emotivamente anche gli educatori. Ma come? Dove? Da chi? Questo è il nodo, caro professore, eminentemente pratico, organizzativo, politico. Monica Zefferl, Empoli monlca.zeffert@allce.lt

Risponde Umberto Galimberti:
Fatta eccezione per la scuola elementare, la preparazione dei nostri studenti è valutata tra le più scadenti in Europa, E più il livello culturale di un Paese degrada, meno prospettive si danno per il futuro di quel Paese. Quindi qualcosa bisogna fare. Da un lato le nostre scuole sono frequentate da ragazzi supergratificati in famiglia, a cui non è stato posto un vero limite ai loro desideri, per la scarsa autorevolezza dei genitori, sempre meno esemplari agli occhi dei loro figli. Dall'altro professori in cattedra che non hanno la più pallida cognizione della psicologia dell'età evolutiva, e che quindi non sanno che in quell'età l'acquisizione del sapere passa per canali prima emotivi che intellettuali. Ma per un'educazione emotiva, capace di seguire i percorsi individuali con cui ciascuno studente perviene al sapere, è necessario che una classe sia composta al massimo da quindici studenti, perché con venticinque o trenta alunni in classe è assolutamente impossibile non solo seguire, ma addirittura conoscere i percorsi emotivi, le turbolenze adolescenziali, le fasi di entusiasmo o di sfiducia, il lento scivolare nella demotivazione, fino allo scollamento dell'alunno dalla sua classe e alla fine l'abbandono. Ne consegue che se non si riduce il numero degli studenti in classe, moltiplicando le classi, occorre dire chiaro e tondo che la nostra scuola può al massimo "istruire", ma è strutturalmente nell'impossibilità-di "educare". E l'evidenza di questo fatto è sotto gli occhi di tutti. La professione di insegnante, infatti, non richiede solo competenze culturali, ma capacità di comunicazione e di fascinazione perché, da Socrate in poi, sappiamo che queste sono le condizioni dell'apprendimento. Infatti la tanto invocata "buona volontà" non esiste al di fuori dell'interesse che l'insegnante sa suscitare, l'interesse non esiste separato da un legame emotivo, il legame emotivo non si costituisce quando il rapporto tra insegnante e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione. E allora, per abilitare all'insegnamento, verifichiamo nei candidati queste capacità, che solo limitatamente si possono apprendere, perché sono di "natura". E come per l'assunzione in ogni professione si fanno dei colloqui, che in realtà sono dei veri e propri test di personalità, perché in una professione come quella dell'insegnante, che più delle altre richiede qualità umane e propensione naturale, queste verifiche non si fanno? I test esistono e sono sufficientemente collaudati. Usiamoli. Non risolveremo tutti i problemi della scuola, ma almeno non la lasceremo degradare oltre i livelli allarmanti a cui ormai siamo giunti.

la repubblica delle donne, 10 OTTOBRE 2009