venerdì 23 gennaio 2015

gli animali vanno a caccia di diritti

Interessante articolo su "La lettura" del corriere della sera. Da non dimenticare , però, l'opera di Gino Ditadi in due volumi "I filosofi e gli animali", Isonomia editrice, disponibile anche in una sintesi su un unico volume.

http://www.scienzaevita.org/rassegne/40317920747026abc758e630d9d18cb3.PDF

giovedì 22 gennaio 2015

Islam e ora di religione


Islam
Un nuovo spettro si aggira per l’Europa
Come il comunismo anche l’Islam è totalizzante, nel senso che non è solo religione e ciò che questa porta con sé
Ma è anche politica
di Vito Mancuso


“UNO spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”. Così inizia il Manifesto del Partito Comunista che Marx ed Engels pubblicarono a Londra nel 1848 e da allora dovettero passare quasi 150 anni perché quello spettro si placasse trovando pace. Quanto tempo dovrà passare perché avvenga lo stesso per lo spettro che nel frattempo ne ha preso il posto? Anche oggi infatti uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dell’Islam.
Il parallelo con il comunismo non è casuale. Ben prima di diventare totalitario infatti il comunismo fu già da subito totalizzante. Non era cioè solo prassi politica, ma riguardava anche la dimensione interiore della persona alla quale si proponeva come cultura, etica, estetica, visione complessiva del mondo, non senza un’accentuazione religiosa per la fede e l’obbedienza richieste.
Allo stesso modo anche l’Islam è totalizzante, nel senso che non è solo religione e ciò che la religione porta con sé (etica, estetica, Weltanschauung); è anche politica, e nel suo essere tale anch’esso, da totalizzante, diviene spesso totalitario.
È possibile che una religione o un’ideologia totalizzante non diventi totalitaria? È possibile che le religioni (le quali sono tutte totalizzanti, perché per meno non sarebbero religio) non producano totalitarismi? Oppure, perché si possa dare libertà e quindi democrazia, occorre necessariamente la destituzione del pensiero totalizzante a favore del relativismo?
Per rispondere consideriamo il cristianesimo: come mai questa religione, che è stata totalizzante e totalitaria almeno quanto l’Islam, oggi non lo è più? La risposta consiste nel pronome personale “io”: il cristianesimo ha permesso alla coscienza di dire “io” e con ciò di distaccarsi dalla dimensione totalizzante di religione + politica. Lo strappo decisivo avvenne il 18 aprile 1521 a opera del frate agostiniano Martin Lutero che, a cospetto dell’imperatore Carlo V durante la Dieta di Worms, dopo che per l’ennesima volta gli era stato intimato di ritrattare, disse: «Non posso e non voglio revocare nulla, perché è pericoloso e ingiusto agire contro la propria coscienza. Non posso diversamente. Io sto qui. Che Dio mi aiuti. Amen».
Venne poi Cartesio che nel 1637 segnò la svolta del pensiero filosofico europeo dicendo «io penso, quindi sono» ( cogito ergo sum ), ovvero la più grande consapevolezza di me stesso in quanto uomo mi è data dal mio essere pensante. Da qui si aprì la strada all’Illuminismo e al cammino faticoso (e sanguinoso) verso la democrazia, dove l’io penso filosofico divenne un io penso politico e sociale.
La Chiesa cattolica si oppose sistematicamente a questo cammino: scomunicò Lutero, mise all’Indice Cartesio e gli illuministi, avversò ogni rivendicazione in tema di diritti umani, soprattutto la libertà di coscienza. Alla fine però dovette cedere e finì per rivedere la sua stessa dottrina: la libertà di coscienza, che Gregorio XVI in linea con molti altri pontefici aveva definito un “delirio” ( deliramentum), un secolo dopo, il 7 dicembre 1965, divenne parte della dottrina cattolica con il documento Dignitatis humanae del Vaticano II e oggi è parte integrante della predicazione dei Pontefici.
La Chiesa si è convertita? È stata costretta a convertirsi, avendo perso lo scontro con la modernità. La quale però, non lo si dimentichi, venne suscitata da credenti quali Lutero e Cartesio, e nutrita anche da altri credenti tra cui gli illuministi tedeschi Lessing e Kant, e se lo sottolineo è per evitare banali conclusioni laiciste e far comprendere quanto il discorso sia dialetticamente molto complesso. In ogni caso l’esito del processo di modernizzazione ci consegna oggi una religione quale quella cristiana che, mantenendo la sua carica totalizzante per la vita individuale, non cade per questo nel totalitarismo sociopolitico.
Potrà avvenire lo stesso per l’Islam? Potrà giungere esso ad accettare lo spirito della democrazia, della diversità, della dimensione plurale dell’esistenza che il mondo oggi impone? Nessuno lo sa e certamente sarà un processo molto duro che condizionerà la vita dell’Europa per tanti anni a venire.
Che fare per favorire questo processo? Vi sono misure a breve, a medio e a lungo termine. A breve termine si tratta di combattere il terrorismo con tutta la durezza necessaria, monitorando anche la predicazione dei vari imam e impedendo quella che si rivela fomentatrice di odio, ma senza mai associare al terrorismo l’Islam in quanto tale: la distinzione tra terroristi e musulmani è assolutamente decisiva se non si vuole avere un miliardo e mezzo di nemici e ostacolare l’evoluzione positiva dell’Islam.
A medio termine si tratta di giungere finalmente al riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese da parte della comunità mondiale e mettere fine per sempre alla progressiva espansione dei coloni ebrei, facendo anzi tornare costoro nei territori di provenienza.
Oggi in Europa occorre sorvegliare con le armi le sinagoghe, ma l’Islam non è mai stato antisemita, gli ebrei hanno vissuto per secoli nei territori islamici, e quando il grande filosofo Mosè Maimonide fu costretto a lasciare Cordova sua città natale perché era giunta al potere una dinastia islamica oltranzista, non pensò minimamente di rifugiarsi nella Francia cristiana ma rimase ancora in terra musulmana, prima in Marocco poi in Egitto.
Se oggi molti musulmani stanno diventando nemici degli ebrei è solo per l’umiliazione sistematica cui è sottoposto da anni il popolo palestinese, con la compiacenza degli Usa. L’Europa non può e quindi non deve permettere più il protrarsi di questa ingiustizia.
Per quanto concerne le misure a lungo termine entra in gioco il discorso economico ed educativo, ovvero la possibilità di avere un lavoro e la scuola. Mi soffermo su quest’ultima. Il compito della scuola è offrire strumenti per la comprensione del mondo. Ora è evidente che senza mettere in gioco la religione il mondo oggi non lo si capisce.
In questa prospettiva l’Italia non può più permettersi di sprecare un’occasione così importante come l’ora di religione, di grande rilievo per la potenzialità geopolitica e al momento ben lungi dall’essere all’altezza della situazione.
Occorre trasformare l’ora attuale da insegnamento della religione cattolica in un’ora in cui siano presentate “tutte” le religioni, ovviamente in proporzione all’importanza di esse per l’Italia, e quindi con particolare attenzione ai monoteismi, ma senza trascurare le religioni orientali. Quest’ora di “religioni”, in cui non si tratta di credere ma di conoscere, deve essere obbligatoria e avere la medesima dignità curricolare delle altre. La condizione è ovviamente togliere alla Chiesa cattolica ogni potere in merito a programmi e scelta degli insegnanti, costruendo un’ora del tutto laica, rispettosa in egual modo delle diverse religioni e super partes , dalla quale nessun cittadino deve temere condizionamenti a priori alla coscienza, per lo meno non diversamente da quanto li si tema nell’ora di letteratura o di filosofia.
Anche così i nostri ragazzi impareranno fin da piccoli a conoscere i lati positivi delle religioni altrui e a non averne paura, quella paura che genera l’odio di cui si nutre lo spettro che si aggira attualmente nelle nostre menti, ma senza la quale esso potrà placarsi e trovare finalmente accoglienza e pace. 

Repubblica 22.1.15

giovedì 15 gennaio 2015

Non sappiamo più guardare


Contemporaneità. Tecnologie e mode ci focalizzano sul particolare, come un cecchino; non sull’universale, come uno stratega
e
Il cinema su smartphone ha ucciso il cinema e la nostra capacità di osservare il mondo

È il 1957, Charlie Chaplin gira Un re a New York. A un certo punto il protagonista, re Shahdov, monarca europeo sempre più stranito dal Paese che visita, va a vedere un film in Cinemascope, la novità del momento. La scena è famosa ed esilarante: piazzato in una delle prime file Shahdov (Chaplin stesso) cerca disperatamente di seguire quello che succede sullo schermo muovendo velocemente la testa a destra e a sinistra, come a una partita di tennis, affannato a cogliere tutto il «visibile» proiettato sul grande schermo. Come molte trovate comiche, la gag è basata sull’esasperazione. Certo quelle proiezioni gigantesche fornivano uno spettacolo mai visto prima. «Cinemascope », peraltro, è un brand commerciale che è passato a designare per antonomasia ogni proiezione con un rapporto altezza- base di 1:2,35 contro il tradizionale 1:1,33: il formato quasi quadrato del cinema classico di tutta la prima metà del Novecento. Si tratta di un procedimento tecnico che enfatizza un sentimento connaturato al rapporto tra film e spettatore: e cioè che il cinema è larger than life, come dicono gli americani. «Più grande della vita»: non solo per dimensione fisica, ma come amplificatore di emozioni, storie, percezioni.

A 50 anni e rotti di distanza dalla gag di Chaplin stiamo assistendo a un processo inverso, che implica dei cambiamenti radicali, quanto trascurati. Da oltre vent’anni siamo testimoni di una progressiva miniaturizzazione delle superfici di proiezione (il concetto stesso di proiezione è cambiato, in effetti). Da quando i film sono disponibili sui supporti informatici, si è passati dallo schermo delle sale ai monitor dei computer, fino ai display dei tablet e dei telefonini. Non solo: la qualità delle immagini è, paradossalmente, molto peggiorata. Se metti un video in streaming o su YouTube, devi scegliere tra velocità di download e «peso» dell’informazione. Quasi sempre questo significa una definizione mediocre dell’immagine, che però viene compensata, per così dire, dalla rapidità del consumo. In due parole: si vede sempre più piccolo e, tendenzialmente, peggio.

Contemporaneamente, nel campo degli apparecchi televisivi è successo il contrario. Le tv oggi cercano di copiare il cinema proponendosi come suoi surrogati: schermi di 50 e passa pollici in 16:9, sistemi audio in dolby surround 5.1, alta definizione a 2k (presto a 4k). Ma nonoantropologico. Il cinema tradizionale, quello larger than life, si basava su uno sfruttamento totale delle potenzialità dell’occhio, come ironizzava Chaplin. Era una visione che «apriva», in tutti i sensi: sia fisicamente che emotivamente. Guardare dentro un iPad o uno smartphone, invece, corrisponde a un’esperienza del tutto diversa: il fuoco della visione non si apre, si chiude in un angolo sempre più stretto. Non a caso è un guardare privato, mai comunitario.

Questa chiusura del fuoco su quello che hai immediatamente davanti agli occhi a scapito di quello che ti sta intorno, del contesto senza il quale l’immagine perde riferimento, rivela un più generale decadimento dell’attività del guardare. Non potrebbe essere altrimenti quando, dei 140 gradi di cui è capace il campo visivo degli occhi, se ne usano soltanto un terzo. Questo comporta conseguenze che non riguardano solo il cinema. Siamo diventati incapaci di leggere e decodificare quello che ci sta intorno nella vita reale, perché il fuoco è sempre sull’oggetto, mai sul contesto: in tutti i campi, dal politico al sentimentale. Guardare sempre più da vicino fa perdere il senso delle dimensioni, di quella proporzione dello sguardo umano che il cinema classico manteneva. Quello del cinema era, è uno sguardo oggettivo e condiviso; quello dei tablet o degli iPhone è uno sguardo soggettivo, più simile al rapporto che uno ha con un microscopio, una lente — o con un mirino. Non è un caso che molti videogame (che vengono giocati sugli stessi schermi su cui si vedono i film) siano «in soggettiva», se non addirittura «vissuti» attraverso il mirino di un’arma. Se il cinema classico ci faceva sentire simili a generali con una visione globale del campo di battaglia, la visione contemporanea è più simile a quella di un cecchino. Da cui derivano anche automatismi comportamentali pavloviani: lo stratega elabora piani, il cecchino schiaccia un grilletto…

Rovesciando la prospettiva, questo processo è perfettamente rappresentato dalla moda dei selfie. Di tutto quello che si può documentare riguardo alla propria presenza in un certo luogo, il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto. Rispetto all’autoscatto classico, che veniva usato per immagini più complesse (le tradizionali foto di gruppo, ricordate?), la meccanica del selfie conferma la tirannia dello sguardo da vicino: al massimo, la lunghezza di un braccio o di un piccolo supporto. Un cortocircuito rivelatore del fatto che oggi dalle immagini non ci si aspetta qualcosa di nuovo da scoprire, ma la conferma di quello che si sa.

Non si tratta di fare del moralismo o, tantomeno, di essere nostalgici. Si tratta piuttosto di rendersi conto di come attività apparentemente naturali — come il guardare — siano in realtà prodotti culturali condizionati dallo spirito dei tempi. Questa «chiusura» dello sguardo, per esempio, ricorda quello che capita al cavallo quando gli si mette il paraocchi: vede solo quello che gli sta di fronte. Cioè, solo quello che interessa al padrone che lui veda. Quella che sembra una semplice discussione accademica diventa allora subito una questione che ha a che fare con la libertà. E quindi ecco perché, come regista che ha sempre creduto nella capacità catartica del cinema, sono preoccupato dalla sua «riduzione» tecnologica. Un processo fisico che è anche artistico, morale e ideale; un processo che mette in crisi il rapporto tra narratore e spettatore. «I film liberano la testa», diceva Fassbinder.

Chissà se è ancora vero.

Davide Ferrario
La letura, corriere della sera, 2 gennaio 2015