venerdì 30 ottobre 2009

agosti, il ballo degli invisibili

Sto leggendo questo libro, molto bello. Racconti di tre pagine, frutto degli incontri di ogni giorno. Molto poetico. A mio parere, potrebbe essere usato come una specie di breviario, leggendo goni giorno un racconto nuovo......


S. Agosti "IL BALLO DEGLI INVISIBILI" Ediz. l'Immagine, Roma, 2007

SERGIO ZAVOLI dalla prefazione del libro.

"Caro Silvano,
Sei tra i pochi che mi ricordano una frase dettami da Fellini: "L'immaginazione è il modo più alto di pensare." Federico, con gli occhi, non sbagliava mai; e tu neppure con le tue utopie, le tue Shangri-là trasformate in metafore anche civili, con quel bisogno di equità, di pace.
Tienile vive per noi, fa come quando il più dolce dei nostri amici andava avanti per tenerci il posto! Tu sei tra quelli, sempre più rari, quasi scomparsi. Incontaminato."
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Il Ballo degli invisibili di Silvano Agosti è una raccolta di racconti , o meglio , come dice l’autore, di romazi brevi. Una raccolta tra impegno civile e leggenda.

Silvano Agosti è una persona sorprendente a partire dalla biografia, nato a Brescia nel 1938 uscì di casa a diciassette anni per andare a vivere a Londra, visitò tutta l’Europa e poi … partì a piedi per visitare il Medio Oriente.

Nel 1960 tornato a Roma si iscrisse al centro sperimentale di cinematografia, vinse il ciak d’oro, visse a Mosca dove si specializzò sull’opera di Ejzenstejn e ,tra le altre cose, lavorò con Bellocchio alla scenografia de “I pugni in tasca”.

Nel 1967 venne censurata in Italia la sua prima regia “il giardino delle delizie” ma fu ripagato dall’invito alla esposizione universale di Montreal. Diresse con Bellocchio, Petraglia e Rulli “Matti da slegare”.

La biografia di Agosti dimostra la sua curiosità per il mondo e l’essere umano ed il suo desiderio di mettersi in gioco.

Intorno agli anni 80 inizia la sua produzione letteraria che include “l’UOMO PROIETTILE” (candidato al Premio Strega) , “la ragion pura” e ”Lettere dalla Kirghisia” .

Un autore definito da molti “poetico e feroce”, predilige i rapporti umani ai rapporti di potere , vive a Roma e non chiude mai la porta di casa… ecco..un autore che mi piace ma soprattutto una persona che mi piace…

“L’arte è semplicemente un meccanismo per ricordare agli esseri umani che sono loro il vero capolavoro purché invece di imprigionare in sé la vita si limitino ad ospitarla. «Poiché - come dice Lucrezio - la vita a nessuno è data in proprietà, ma a tutti in uso»”. Silvano Agosti

lunedì 26 ottobre 2009

vigevano: leonardo e museo tradizioni

Bella la piazza di Vigevano, punto di incontro della gente.
In piazza, c'erano gli alpini che preparavano caldarroste e un ottimo castagnaccio.
Al castello e nelle scuderie, molto bella la mostra sul codice atlantico e il codice del volo di Leonardo . Aperta fino al 5 aprile 2010, presenta un ottimo lavoro di leonardo 3
che mette in mostra scan dei codici, con animazioni in 3d e ricostruzioni di alcune delle grandi idee di Leonardo: la macchina del volo, l'"elicottero", un multicannoni da mare, ecc.
Da non perdere a due passi, in Via del Popolo 17, il bel museo della vita quotidiana e della grande guerra. Una bellissima iniziativa che raccoglie oggetti, fotografie e altro materiale sulla vita quotidiana.



martedì 20 ottobre 2009

biografia morale di un cane

Ecco spiegata la metamorfosi: il cane cambia l’uomo entrato in relazione con lui. Lo rende più buono, più intelligente, più sano. Perfino lo riconduce dai vertici prepotenti delle ideologie allo “stare immerso nelle cose e cercare soluzioni parziali”.


Trattato d’amore domestico
Liù, una storia d’amore
Di Gad Lerner

“E l’ho mica voluto io, il cane”. La responsabilità della scelta, di fronte agli sguardi ironici dei colleghi e dei superiori, è meglio lasciarla al ben noto sentimentalismo da sesso debole: cioè alla moglie.
Fin dall’esordio di "Liù. Biografia morale di un cane "(Mondadori), Edmondo Berselli sollecita un moto d’immedesimazione nel lettore. Siamo con lui, imbarazzato, mentre rivela l’ingresso nella sua vita di un cucciolo di labrador femmina dal pelo nero, di fronte a persone autorevoli con le quali abitualmente discetta di scienza politica o al massimo cazzeggia di football.
Capisco quel che ha provato Berselli. Anni fa toccò pure a me ritrovarmi una bassotta a pelo ruvido inclusa nel “pacchetto” della mia nuova vita sentimentale. Non appena mi vide di fianco a tale quadrupede il direttore dell’epoca si sbellicò, insistendo che come penitenza percorressi l’intero open space della redazione, a esibire la retrocessione di status: maschio al guinzaglio.
A parziale risarcimento del disagio provato, sappia Berselli che pure quel direttore fu visto in seguito a passeggio con bestia, medaglietta e sacchetto per la raccolta delle deiezioni (viva il senso civico) foriero le prime volte del ben noto choc da tepore inaspettato della materia.
Il labrador è un animale specialmente bavoso e odoroso, le cui zampe ticchettano sul parquet domestico mentre il muscolo della coda detiene energia sufficiente all’abbattimento dei soprammobili. Il tractatus berselliano deve coprire dunque l’arco di un decennio, compresi i tre anni di insistenze della moglie, per darci conto di come infine Liù abbia conquistato il diritto di giacere sul fondo del lettone, tra i piedi dei genitori acquisiti.
Ci addentriamo nella macchinazione ordita dagli amici già proprietari di cani, ovvero già caduti nella trappola, e nelle ripetute visite ai cuccioli nell’allevamento varesotto di Cermenate, per seguire la cronaca intellettuale di un cedimento. L’autore, di fronte all’immagine di quei cotechini baffuti, si lascia andare: “come sempre quando vedo i neonati, a me viene da piangere”.
E’ l’inizio di una metamorfosi tanto prevedibile quanto stupefacente, scaturita da una scoperta preliminare, al cospetto di un cane altrui che “non si comporta proprio come un animale”. Di più: “Sembra possedere lo stigma di una individualità, un corpus di elementi singoli e coordinati che esulano dai comportamenti meccanici della specie”.
Prima di ammettere la metamorfosi, e anche dopo, Berselli ci tiene a esibire per intero il suo pedigree filosofico. Forse in competizione con le giravolte e i salti di Liù, l’autore a ogni pagina ci avvolge nei suoi virtuosismi teoretici esilaranti.
Che nessuno osi prenderlo sottogamba: “Cito Nietzsche in tedesco meglio di Galimberti e forse anche di Cacciari, che ha un accento un po’ troppo venessiàn”. Dunque è proprio il Berselli che conosciamo, niente affatto abbrutito, l’uomo che in un appartamento modenese ripulisce le pisciatine con l’alcol e accetta di essere leccato.
E’ il politologo raffinato l’uomo che si trascina nelle albe nebbiose al parco Ferrari, dove al primo sguardo si riconosce la tipologia dell’altro padrone di cane. E’ il cantore dell’ironia emiliana l’uomo destinato a commuoversi di fronte ai reclami bisognosi di compagnia di Liù, fino al passaggio decisivo: il giaciglio canino traslocato nella camera da letto, sancendo il definitivo ingresso in famiglia. La cagnolona. La reginetta della casa. L’elogio dell’intelligenza del cane. La filosofia della cagnara.
Prima dell’imperdonabile deroga già citata, il salto definitivo sul lettone: “E io tra di voi”.
In un sussulto di dignità Berselli ci tiene a precisarlo: “Sia ben chiaro che questa non è la storia di un cane”. E’ la storia della metamorfosi di Berselli, difatti. Ovvero di un cinquantenne sposato che a testa alta si infila nel “vicolo cieco spaventoso, dove il cane ti rende impossibile la vita, le vacanze, il lavoro, la normalità, e tu ti ridurrai a essere un povero disgraziato attaccato a un guinzaglio, un infelice costretto ai voleri indisponenti di un essere selvatico e senza creanza, possessivo ed egoista, nonché magari sciaguratamente innamorato proprio ti te”.
Ci voleva tanto a capirlo? Benché l’autore tenti di nasconderlo con tonnellate di aneddotica e quintali d’erudizione (troverete tutti, da Benedetto Croce a Shel Shapiro, passando per Wittgenstein e Indro Montanelli) con Liù Berselli rifonda da par suo il genere del trattato amoroso.
Ora non arrossisca e non si tiri indietro: nel descriverci l’amore che prova nei confronti delle sue due femmine, Marzia e Liù, il professor Berselli si rivela più Rimbaud che Alberoni.
Il crescendo sinfonico del libro, con gran finale movimentato allegro in cui è previsto –in sorta di commiato- il raduno di tutti gli amici in festa, trasfigura in uno scodinzolio collettivo il pretesto fornito da Liù. Che per fortuna viene amata per quello che è, un labrador, senza bisogno né di umanizzarla né di beatificarla: “Il cane non è buono in sé, è un produttore di effetti, un generatore di sentimenti, una polarità di emozioni e gesti e good vibrations”.
Ecco spiegata la metamorfosi: il cane cambia l’uomo entrato in relazione con lui. Lo rende più buono, più intelligente, più sano. Perfino lo riconduce dai vertici prepotenti delle ideologie allo “stare immerso nelle cose e cercare soluzioni parziali”.
Così il poema amoroso di Berselli ci cattura, e la suspense di una calza blu di cashmere ingoiata con pericolo d’intasamento digestivo ci scuoterà più di una qualsiasi disputa tra umani incapaci di relazione col bau bau di tutti i giorni. Perché il cane, succedaneo della prole in tempi di denatalità, si rivela infine il liberatore del nostro miglior spirito animale.
Edmondo Berselli, labrador nero, Liù. Biografia morale di un cane

Questo articolo è uscito su “Repubblica”. domenica, 18 ottobre 2009

domenica 11 ottobre 2009

imparare a insegnare

Per un'educazione emotiva, capace di seguire i percorsi individuali con cui ciascuno studente perviene al sapere, è necessario che una classe sia composta al massimo da quindici studenti, perché con venticinque o trenta alunni in classe è assolutamente impossibile non solo seguire, ma addirittura conoscere i percorsi emotivi, le turbolenze adolescenziali, le fasi di entusiasmo o di sfiducia, il lento scivolare nella demotivazione, fino allo scollamento dell'alunno dalla sua classe e alla fine l'abbandono.

Scrive Nino Giuliani in Fiabesca vita del maestro elementare Angelo Scaraboni (Editrice Versilia Club):
Non uso il pretenzioso 'insegno' perché in verità è molto più calzante il verbo
imparo'. C'è moltissimo da imparare dai nostri scolari"
Anch'io sento, come lei, il bisogno di una valutazione del corpo docente, non sempre all'altezza del proprio compito, a volte sul plano dei contenuti disciplinari, altre volte del metodo, spesso su quello relazionale, imprescindibile per un educatore a contatto quotidiano con adolescenti in formazione. Personalmente trovo che un valido parametro di valutazione della competenza disciplinare del docenti sia dato dall'effettiva preparazione degli alunni, misurata da Indagini garantite scientificamente e calibrate sulla realtà e specificità della scuola italiana. Molto meno facile è controllare l'equilibrio di un professore, la sua personalità, come lei auspica. A chi vogliamo o possiamo affidare, in un Paese come II nostro, questo controllo? A delle commissioni ministeriali? Al Dirigenti Scolastici? Il timore che si trasformi in una pulizia politica mi spaventa ancor più dell'attuale situazione di "deregulation". Vogliamo affidarlo alla "communis opinio" di genitori e famiglie? Oltre al rischio provato di sbagli clamorosi, dettati anche da fenomeni di Isteria collettiva, c'è la banale ma proprio per questo concreta probabilità che si scivoli verso un tacito "voto di scambio": gli insegnanti non saranno troppo rigorosi con gli studenti e questi ultimi non pregiudicheranno la loro carriera. Anche I migliori studenti, ahimè, alla fine cedono, per conformismo o calcolo: massimo risultato (numerico) con minimo sforzo. Per la competenza pedagogica e, come dire, "umana", emotiva, sulla quale spesso lei giustamente insiste, resta fermo il bisogno e l'urgenza di formare I professori anche sotto il profilo psicologico. Perché se è vero che il controllo e la valutazione della personalità di un essere umano è materia delicata, è pur vero che si possono educare emotivamente anche gli educatori. Ma come? Dove? Da chi? Questo è il nodo, caro professore, eminentemente pratico, organizzativo, politico. Monica Zefferl, Empoli monlca.zeffert@allce.lt

Risponde Umberto Galimberti:
Fatta eccezione per la scuola elementare, la preparazione dei nostri studenti è valutata tra le più scadenti in Europa, E più il livello culturale di un Paese degrada, meno prospettive si danno per il futuro di quel Paese. Quindi qualcosa bisogna fare. Da un lato le nostre scuole sono frequentate da ragazzi supergratificati in famiglia, a cui non è stato posto un vero limite ai loro desideri, per la scarsa autorevolezza dei genitori, sempre meno esemplari agli occhi dei loro figli. Dall'altro professori in cattedra che non hanno la più pallida cognizione della psicologia dell'età evolutiva, e che quindi non sanno che in quell'età l'acquisizione del sapere passa per canali prima emotivi che intellettuali. Ma per un'educazione emotiva, capace di seguire i percorsi individuali con cui ciascuno studente perviene al sapere, è necessario che una classe sia composta al massimo da quindici studenti, perché con venticinque o trenta alunni in classe è assolutamente impossibile non solo seguire, ma addirittura conoscere i percorsi emotivi, le turbolenze adolescenziali, le fasi di entusiasmo o di sfiducia, il lento scivolare nella demotivazione, fino allo scollamento dell'alunno dalla sua classe e alla fine l'abbandono. Ne consegue che se non si riduce il numero degli studenti in classe, moltiplicando le classi, occorre dire chiaro e tondo che la nostra scuola può al massimo "istruire", ma è strutturalmente nell'impossibilità-di "educare". E l'evidenza di questo fatto è sotto gli occhi di tutti. La professione di insegnante, infatti, non richiede solo competenze culturali, ma capacità di comunicazione e di fascinazione perché, da Socrate in poi, sappiamo che queste sono le condizioni dell'apprendimento. Infatti la tanto invocata "buona volontà" non esiste al di fuori dell'interesse che l'insegnante sa suscitare, l'interesse non esiste separato da un legame emotivo, il legame emotivo non si costituisce quando il rapporto tra insegnante e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione. E allora, per abilitare all'insegnamento, verifichiamo nei candidati queste capacità, che solo limitatamente si possono apprendere, perché sono di "natura". E come per l'assunzione in ogni professione si fanno dei colloqui, che in realtà sono dei veri e propri test di personalità, perché in una professione come quella dell'insegnante, che più delle altre richiede qualità umane e propensione naturale, queste verifiche non si fanno? I test esistono e sono sufficientemente collaudati. Usiamoli. Non risolveremo tutti i problemi della scuola, ma almeno non la lasceremo degradare oltre i livelli allarmanti a cui ormai siamo giunti.

la repubblica delle donne, 10 OTTOBRE 2009

ECONUTRIZIONE? E’ NEL WEB

ETICA E CONSUMI
Alla ricerca della dieta sostenibile: è nato in Internet un nuovo centro studi sugli stili alimentari e il loro impatto sull'ambiente

La salute del pianeta Terra legata a quella del suo inquilino uomo. Un circolo chiuso, in simbiosi, nel bene e nel male. In tempi di cambiamenti climatici e d'investimento di ogni ordine e grado, la specie umana gioca un ruolo determinante per la sopravvivenza propria e l'altrui.

Scendono in campo anche i sindaci d'Europa, reclutati dalla Commissione Europea per la lotta contro le alterazioni della biosfera e il riscaldamento globale. Il Patto dei sindaci, che prevede entro il 2020 la riduzione di oltre il 20 per cento delle emissioni di CO2 in 100 metropoli, comprese 15 capitali, per ora consiste solo in contatti "informali" tra città comunitarie.
Incontri virtuali
Lavora con rapporti "informatici" invece il trust internazionale di scienziati che si è riunito su Internet per salvare il micro e il macrocosmo. Sul banco telematico degli imputati, c'è la produzione di alcuni alimenti, accusata dì nuocere all'ambiente e all'organismo umano. L'antidoto al cibo inquinante è materia di studio degli internauti che, nel web, hanno formato il Neic-Centro internazionale di ecologia della nutrizione, per raccogliere in un sito multilingue (www.nutritionecology.org) i dati relativi all'influenza degli stili alimentari su clima, nutrizione e costi di produzione. Il pool astratto alla ricerca della dieta "sostenibile" è nato grazie all'incontro concreto tra il chimico Massimo Tettamanti, specializzato in valutazione di impatto ambientale e "nutrizione e benessere", e l'ingegnere Marina Berati, esperta di tutela dell'habitat e degli animali. Navigando in rete si sono imbattuti in una nuova scienza interdisciplinare concepita dall'università tedesca di Giessen.
«Il lavoro è iniziato nel 1986 ma la nährungsökologie è rimasta relegata agli ambienti universitari della Germania, mentre a noi è venuta l'idea di renderla alla portata di tutti e di costruire interventi concreti», racconta Tettamanti, ora presidente del Centro, cui fa eco la socia-fondatrice del Neic, promotrice anche di Vivo, Comitato per un consumo consapevole (www.consumo-consapevole.org): «L'Ecologia della nutrizione ci è piaciuta subito per i contenuti e soprattutto per il nome. Due sole parole racchiudono informazioni importanti e fanno capire quanto complesso sia il rapporto tra quello che scegliamo di mangiare e il suo effetto sul pianeta».
Il primo volo nell'iperspazio informatico è avvenuto per mezzo della Life Cycle Assessment (Valutazione del ciclo di vita), con cui hanno lanciato uno studio sull'impatto ambientale secondo tre tipi di dieta, onnivora, vegetariana, vegana e diversi metodi di produzione, ovvero allevamento intensivo e agricoltura convenzionale e gii equivalenti biologici. Ovviamente in testa alla classifica si sono piazzati l'alimentazione vegana e i prodotti senza chimica. In seguito al successo ottenuto e all'interesse dei media, gli studiosi hanno continuato la ricognizione certosina in
Internet e ben presto sì sono accorti che esistevano molti documenti in materia che, però, non venivano mai catalogati come Ecologia della nutrizione. A questo punto, la svolta. Tettamanti e Berati hanno preso contatto con i loro alter ego in ogni angolo del globo perché dessero contributi professionali e divulgassero il "verbo", creando di fatto, lo scorso febbraio 2007, il Centro internazionale di Ecologia della nutrizione.

L'unione fa la forza
I primi a essere convocati nel web sono stati alcuni ricercatori italiani. I fondatori del Neic avevano contatti con la nutrizionista Luciana Baroni, in quanto collaboratori e soci della Ssnv-società scientifica di nutrizione Vegetariana (www.scienzavegetariana.it ) di cui la dottoressa è presidente. La comunione d'intenti, espressi nelle Linee guida italiane per una corretta Alimentazione a Base Vegetale (www.vegpyramid.info), ha portato la Baroni a dedicarsi al panel "Nutrizione e benessere" del Neic. Nel mirino della studiosa sono finiti i vegetariani italiani, dei quali viene esaminato anche il profilo psicologico, oltre alle condizioni di salute e alla composizione della dieta. Da anticipazioni su questa analisi emergerebbe che i "non carnivori" sono persone equilibrate, dotate di un forte senso etico e attente alla propria salute e che la qualità della loro dieta è migliore di quella di chi mangia carne. Sulle malefatte di "Latte e latticini nella dieta", secondo il "credo" del Neic, invece indaga Alessandro Borgini, consulente dell'Arpa-Lombardia e dell'Istituto nazionale tumori, per l'epidemiologia ambientale. Benché i tre eternauti originari si connettano al web da Milano, al biologo programmatore, che applica la modellistica a simulazioni metaboliche, Tettamanti e Berati sono arrivati per caso (avevano chiesto una consulenza giuridica a suo fratello avvocato).

Attenti agli animali
Nel programma di Net non manca il panel "Sofferenza animale", che viene seguito a video da Monica Bertini, responsabile del Gruppo di studio sulle tradizioni violente e collaboratrice dell' Oncology Institute of Southern Switzerland. Gli elvetici sondano le informazioni sugli allevamenti intensivi, lo sfruttamento degli animali nei circhi e la riabilitazione delle cavie di laboratorio, con particolare riguardo alle indagini più moderne che correlano la violenza sugli animali a quella umana, alla bioetica e alle conseguenze su alimenti, lavoratori e consumatori. Sulla "Sperimentazione animale" invece è stata coinvolta l'indiana Shiranee Pereira, zoologa e biologa acquatica, scelta anche perché coordina I-Care {Centro internazionale per le alternative nella ricerca e nella didattica): il suo controllo informatico permette di scartare i risultati degli studi su animali che, a parere del Afe/c, non possono essere estrapolati e trasferiti all'essere umano a causa di differenze metaboliche, genetiche e biochimiche. La Pereira ha poi segnalato la biologa Maria Webb, PhD in Fitochimica e presidente della Società per l'antropozoologia del Portogallo, che così ha ricevuto la conduzione del panel "Impatto ambientale". Così il Neic ha iniziato a occuparsi anche di flussi di risorse e di gestione degli ecosistemi, verificando continuamente il grado di distruzione delle foreste equatoriali di Centro e Sud America.
Il filantropo interfaccia
Completato lo staff, gli studiosi del Net sono passati a far conoscere il loro Centro virtuale agli ambienti scientifici. Un veterinario indiano, un biologo romeno e un economista inglese, senza accordi preventivi, hanno inviato separatamente un primo comunicato sul Net, riservato agli specialisti, al filantropo Phil Wollen, vincitore del premio
"Australiano dell'anno" 2007 e di una Medaglia dell'Ordine dell'Australia "per i servizi resi a livello internazionale a favore del benessere delle persone e degli animali. Entusiasta del progetto, Wollen, che aiuta attivamente 300 organizzazioni meritevoli nel mondo, ha messo la sua interfaccia a disposizione dei fondatori italiani guadagnandosi la gestione del panel "Denutrizione e malnutrizione nel mondo" e si è anche autoinvestito del ruolo di "patron" dell'iniziativa, diffondendo le tematiche del Centro in varie parti del mondo.
In quattro dimensioni
Da non confondersi con l'econutrizione", che si limita a studiare le interazioni tra alimentazione e habitat, l’Ecologia della nutrizione vuole proteggere la salute della collettività e della Terra individuando i "punti critici" di inquinamento dei diversi cibi per indurre il minimo delle modifiche alimentari e ottenere il massimo del beneficio. Le quattro dimensioni, sociale, economica, salutistica e ambientale, considerate dal Net, sono il presupposto per giudicare la sostenibilità di un regime alimentare, che implica un tipo di sviluppo in grado di soddisfare le necessità attuali senza ridurre la possibilità per le generazioni future di godere delle stesse opportunità. Dal punto di vista della nutrizione, la sostenibilità è legata a stili di vita improntati su un'equa distribuzione delle risorse alimentari e sulla scelta di una qualità e quantità di cibo tali da assicurare una dieta adeguata rispettando l'ecosistema. Secondo il Net. per esempio, il depauperamento delle sorgenti idriche e da addebitare per il 70 per cento alla zootecnia, il 20 per cento all'industria e il 10 per cento alla popolazione. L'acqua utilizzata in un anno da una famiglia di quattro persone corrisponderebbe a quella adoperata per ottenere 5 chili di carne rossa. La produzione di proteine animali richiederebbe 26 volte più acqua e da 6 a 17 volte più terra rispetto a quella di proteine vegetali, meno dispendiosa anche per consumo di energia. Per ricavare proteine dal grano servirebbero 2,2 kcalorie per ogni caloria prodotta come cibo; per il pollo, 4 kcalorie, per latte e maiale 14, per uova 39 e per manzo 40. Precisa Tettamanti: «Per trasformare i consumi a livello mondiale, vogliamo suggerire cambiamenti economici, soprattutto a sostegno dell'agricoltura che offre prodotti meno inquinanti e più salutari». La prima iniziativa, quindi, è la proposta di far cessare i finanziamenti europei, per miliardi di euro all'anno, all'industria dell'allevamento e della pesca. Così, pensano i membri del Centro, sarà possibile incentivare il consumo di cibi con materia prima vegetale, ritenuti più sani e a basso impatto ambientale.

Politica verde
A supporto di questa tesi, c'è uno studio dei ricercatori britannici della Faculty of Public Health: migliaia di decessi prematuri avvenuti in Europa a seguito di patologie come diabete e infarto, associate a una dieta squilibrata, sarebbero in rapporto con la Politica agricola comune (Pac), che influenza in modo negativo le scelte alimentari individuali. Per più di 40 anni, questa, senza tener conto delle ripercussioni sulla salute dei cittadini, avrebbe sovvenzionato la produzione di carne rossa, latte e zucchero, e permesso la distruzione di enormi quantità di frutta e verdura, per mantenere alti i prezzi. L'aumento della richiesta di carne e latte sta interessando anche Paesi come India e Cina dove, nel giro di pochi anni, 400 milioni di soggetti raggiungeranno il potere di acquisto e il modello alimentare dell'Occidente. Il fenomeno è in controtendenza rispetto alle raccomandazioni dei nutrizionisti. Dopo 7.000 studi, condotti in 40 anni, la Fondazione mondiale sulla ricerca del cancro ha messo in relazione alcune neoplasie, tra cui quelle di seno, esofago, pancreas e reni, con un'eccessiva assunzione di carne e salumi. «Questo tipo di alimentazione è il presupposto di un duplice problema di malnutrizione: nei Paesi poveri, per la mancanza di cibo e acqua che riguarda più di 800 milioni dì persone; nei Paesi ricchi, per il surplus di proteine e grassi animali, tra i principali fattori di malattie mortali», puntualizza Marina Berati. «Le "fabbriche di proteine alla rovescia", che mutano cereali e leguminose in animali e pesci, costano tanto per dare in cambio poco cibo. Le Nazioni Unite stimano che il 70 per cento dei terreni a pascolo siano in via di desertificazione. In Amazzonia, l’88 per cento della foresta è stato abbattuto per avere pascoli e, nelle zone semiaride, come l'Africa, lo sfruttamento dei suoli per l'allevamento per l'esportazione in Occidente, riduce a zero la loro produttività».
Amici della terra
Nei prossimi anni, denuncia la rivista The Lancet, 1/5 delle emissioni di gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico, sarebbe a carico delle attività agricole. Gli scienziati delle università di Australia, Gran Bretagna e Cile invitano le istituzioni ad agire contro il disastro ambientale e gli attentati alla salute dell'uomo con la contrazione dei consumi e una convergenza verso un livello sostenibile. «Lancet invita a ridurre i prodotti animali nei Paesi industrializzati e a fissare una soglia per quelli in via di sviluppo, verso cui dovrebbero essere dirottati i raccolti», spiega Luciana Baroni. «Poiché la media globale della porzione giornaliera di carne è di 100 g a testa, con differenze anche di 10 volte tra le nazioni, si dovrebbe passare a non più di 90 g quotidiani procapite. In Italia, occorre arrivare a un consumo pari al 40 per cento di quello attuale, di circa 224 g al giorno», continua Baroni. «Chi eccede con la carne di solito mangia meno frutta e verdura i cui phitochemicals proteggono l'organismo». L’ American Dietetic Association, per esempio, suggerisce alimenti "amici della terra"- come le specie autoctone- e i prodotti ottenuti con pochi interventi. Inoltre propone la costruzione di fattorie urbane e il riciclaggio di avanzi e contenitori del cibo e collega la biodiversità alla sicurezza alimentare. Quest'ultimo concetto supporta quello del Neic sugli Ogm, che non sarebbero in grado di proteggere l'ambiente, ridurre la povertà e garantire la sicurezza alimentare, come sostengono alcune industrie biotecnologiche. A giudizio dell'ecologia della Nutrizione, i semi geneticamente modificati sono stati sviluppati per incrementare non i raccolti ma il profitto, e lasciano intatti i mali dell'agricoltura moderna.

SEMPRE MENO PESTICIDI
In un rendez-vous in Franciacorta. sei filiere agricole biologiche hanno stretto un alleanza per sperimentare un sistema naturale di coltura più salubre e sostenibile che abbassi l'impatto ambientale e il bisogno di fertilizzanti, pesticidi e acqua delle coltivazioni, E porti prodotti con maggiori contenuti di antiossidanti e proprietà organolettiche migliori. La padrona di casa, I’Azienda vinicola Muratori, è stata la prima ad avviare una produzione-pilota di viti le cui radici sono state inoculate con microrganismi benefici per il suolo e il vegetale stesso. Ogni pianta e contraddistinta da un "consorzio" microbiologico specifico, composto da IO milioni di funghi e batteri diversi per grammo di terreno, che vive in associazione della sua parte apicale, le fa assorbire meglio i nutrienti e aumenta la sua capacita di fitosintesi. mentre arricchisce il terreno di sostanze organiche. Il ricorso alla "rizosfera", che rende ì vegetali più resistenti e ne definisce la fisiologia, interessa la produzione di olio d'oliva, pasta, verdure. erbe aromatiche e anche carne, rappresentata nel gruppo da La Granda. I! consorzio, che si e dotato dì un rigido protocollo e rispetta il benessere animale, allevato senza forzature, prevede l’inoculazione di microrganismi per i foraggi, coltivati in proprio. Ad altri partner, come l’lstituto per io studio e la cura dei tumori di Milano, spetta il compito di monitorare e certificare i prodotti delle sei filiere, i cui livelli superiori di antiossidanti verranno verificati dal Cnr di Pisa.

ACQUE (Ri)PULITE
Il possesso prezioso e sempre più raro dell'acqua sarà la scintilla in grado di scatenare guerre in un futuro non molto lontano, come e accaduto in passato per il petrolio. Litri di "oro liquido" trasparente sono indispensabili per realizzare anche solo 10 grammi di proteine commestibili: 130 per frumento, mais e legumi; 250 per latte e uova: 480 per la carne di maiale e 1.000 per quella di manzo. Per questo motivo, diventa categorico non sciuparne nemmeno una goccia. Ali ultimo convegno Cia-Chimica industria & ambiente ai Politecnico di Milano, è stata presentata una tecnologia innovativa per depurare e dissalare le acque reflue. Il processo di filtrazione a membrana, studiato da 35 anni, e perfettamente applicabile agli allevamenti e all'industria alimentare . informa Augusto Campanelli, professore di chimica industriale ali università di Genova e coordinatore del progetto e di un master sul tema. II processo non altera i prodotti naturali di partenza ma purifica l'acqua da composti nocivi, come i cloruri, e da corpuscoli estranei fino all'ordine di grandezza dei virus. Con la microfiltrazione. a costi contenuti si riequilibrano il bilancio idrico e la composizione salina dei terreni, riciclando I acqua sporca che, diventata sterile e di pregio, potrebbe essere destinata anche al consumo umano, come avviene in Australia.
Per la potabilizzazione delle acque di scarto municipali. TX! edizione di Ecomondo, salone tematico della Fiera di Rimini. ha lanciato due proposte. Il trattamento dell’ acqua con raggi UV. a Passo impatto ambientale. per cui e previsto un Osservatorio permanente del settore, riesce a disinfettare il liquido e ne assicura un ossidazione avanzata e la rimozione di contaminanti organici. Invece la Casa dell’ acqua, un piccolo e colorato chiosco da inserire nel contesto urbano, riprende l'idea delle antiche fontane di paese ed erosa dai suoi rubinetti tre tipologie di potabile. m alternativa alle minerali. Con risparmio di trasporti e di bottiglie di plastica da smaltire, altamente inquinanti, dalia rete idrica comunale i cittadini possono attingere liberamente 3.000 litri al giorno di acqua filtrata, >n versione naturale, gassata e persino refrigerata.
di Rosanna Ercole Mellone , la Rpubblica dele donne 8 marzo 2008

Flexi Time

Uffici pieni in orari fissi? Solo in Italia.
L’Europa sperimenta da anni nuove forme di organizzazione.
Che offrono vantaggi ai dipendenti. E fanno guadagnare di più le aziende

Nell'economia di oggi, non conta più quanto si sta in un luogo preciso. Conta soltanto ciò che si fa. Non c'è più spazio per la rigidità, neppure negli orari di lavoro. Perché il flexitime, come viene chiamato, in realtà fa bene all'azienda. E non in senso generico: la fa proprio guadagnare di più. Oltre a generare risparmi per la collettività, in termini di traffico, benzina, inquinamento. Questo hanno scoperto sia in Europa, sia in molti Paesi del mondo sviluppato.

E nelle sei imprese straniere che ci hanno spiegato la loro scelta. Mentre l'Italia pensa ancora agli uffici pieni in orari fissi. E interpreta la flessibilità come un beneficio graziosamente elargito dal datore di lavoro al singolo dipendente. Oppure come metodo di sfruttamento. Mascherato.
I risparmi dei teleworker
Brìtish Telecom, Gran Bretagna. Su 106 mila dipendenti, sono 80 mila, dal senior executive al programmatore, quelli che lavorano da casa o con orari "non standard" suddivisi in due, tre o quattro giorni a settimana. Secondo Caroline Waters, responsabile delle risorse umane, «oggi la competizione è agguerrita, occorre dare risposte rapide. L'orario dalle nove alle cinque non funziona più».
Primo effetto: l'assenteismo è sceso al 3,1%, mentre la media nazionale è all'8,5%, E sono diminuite anche le spese per gli uffici. Ogni dipendente che lavora da casa produce un risparmio di 6 mila sterline l'anno. Quasi nessuno si licenzia più, tanto che la mancata spesa alla voce "selezione del personale" determina un risparmio che è stato stimato in oltre cinque milioni di sterline. Prima, erano in fuga soprattutto le donne: in Gran Bretagna, oltre la metà di loro dopo la maternità lascia il lavoro. In British Telecom invece tornano. La senior project manager Rachel Baker, per esempio, a due anni dalla nascita del figlio Rueben spiega: «Ho scelto di lavorare tre giorni a settimana da casa. Quando la stanza comincia a starmi stretta, vado in uno degli uffici che l'impresa ha messo a disposizione per chi opera come me». E ora l'azienda pubblicizza il suo contributo sociale: ogni anno, evita il consumo di 12 milioni di litri di benzina e l'emissione di 54 mila tonnellate di CO2. Mentre i teleworker producono il 30% in più degli altri dipendenti.
Idee a spasso sotto il sole
Walter de Gruyter Publishers, Germania. Niente più cartellini da timbrare. Nessun badge. Nessun controllo. Nella sede berlinese di questa casa editrice, ognuno decide giorno per giorno quante ore lavorerà. Deve solo rispettare le scadenze dei progetti in cui è impegnato. La società, che oggi ha circa 200 dipendenti e un volume d'affari di 40 milioni di euro l'anno, è arrivata a questo risultato per superare una crisi: erano gli anni Novanta e il management decise che orari di lavoro più flessibili avrebbero aiutato. Da allora, ognuno gestisce il suo "conto orario" settimanale tra le sette del mattino e le otto di sera. Il dipartimento a cui fa capo deve garantire, nel suo insieme, un'unica presenza dalle nove alle tre e mezzo del pomeriggio. Sta quindi ai dipendenti annotarsi le ore lavorate e non superare il tetto stabilito dal contratto. Il modello è basato sulla fiducia e sull'adesione volontaria.
Carsten Burfeind, 39 anni, editor e project manager di un'enciclopedia della Bibbia, è entusiasta: «Quando sento di non trovare l'energia per lavorare al meglio e mi sembra di perdere tempo, esco. Durante la Berlinale sono andato a vedermi un paio di film che iniziavano presto" e se sbuca il sole, vado a farmi un giro. Le idee vengono anche cosi. In più, quando arrivo tardi o vado via presto mentre altri colleghi sono lì al lavoro, non mi sento più in colpa».
Wolfgang Bottner, del Consiglio d'amministrazione, fa il bilancio del cambiamento: «Riduzione dei costi degli straordinari, oltre a ricadute positive sul clima in azienda e sulla produttività». Entro fine 2008, sarà coinvolta anche la tipografia.

Yoga e tuttofare
Rmsi Geospatial Information, India. Specializzata in servizi di mappatura del sistema informativo geografico conosciuto come Gis, l'azienda è stata fondata nel 1992 da tre giovani appena tornati a casa dopo aver conseguito la laurea negli Stati Uniti. Ora ci lavorano quasi duemila persone. Gagan Yot, responsabile del personale, descrive la filosofia dell'impresa: «Le iniziative per favorire l'equilibrio tra attività professionale e impegni personali non riducono affatto la produttività, anzi». Per prima cosa, però, c'è la continua messa a punto dei carichi di lavoro, con un monitoraggio mensile che verifica gli squilibri e ridistribuisce compiti e responsabilità ogni volta che è necessario. Per i dipendenti, oltre alla possibilità di lavorare da casa o con orari ridotti, c'è a disposizione un "tuttofare" dedicato alle incombenze private: dai servizi postali alle pratiche in banca, agli appuntamenti con l'elettricista e l'idraulico. Al momento, se ne servono in 450. Riempiono un modulo e il giorno stesso un addetto sì presenta. Pronto ad aiutarli. Infine, ogni settimana e durante l'orario dì lavoro, ai dipendenti vengono offerti corsi di yoga per alleviare lo stress. È questa la cosa che piace di più a Kavita Yadav, ingegnere trentunenne: «Prima mi capitava di avere un fastidioso mal di schiena. Dopo i suggerimenti dell'istruttore di yoga, mi sento molto sollevata, anche su un piano psichico». E resta fedele all'azienda che l'ha assunta, due anni fa.

La borsa del tempo
Grupo Lacera, Spagna. Mai riunioni dopo le cinque, uffici vuoti il venerdì pomeriggio. D'estate, giornate a orario "compresso". E questo vale per duemila dipendenti, senza distinzioni. Sono cinque anni che l'azienda di pulizie e manutenzioni di Oviedo ha introdotto il "piano Concilia", pensato dal governo per favorire la flessibilità. E, nel 2006, è arrivato il premio del ministero del Lavoro. Anche perché grazie a Concilia, l'addetta alle pulizie Isabel Fernan-dez Galves, che alla Lacera lavora da 16 anni, ha finalmente potuto avere un turno pomeridiano. «La mattina», spiega, «posso accompagnare mio figlio a scuola, occuparmi della casa. Vado al lavoro quando torna mio marito». Grazie al monte ore mensili della "borsa del tempo", la signora Galves può anche prendere permessi, ridurre l'orario. E recuperare in seguito. L'impiegata Rachel, invece, può seguire le sue lezioni d'italiano e andare in palestra «senza il rischio di dover saltare un corso già pagato perché il capo convoca all'ultimo minuto una riunione non programmata». Il capo ora non può più farle, le riunioni "al volo". E, dal 2007, nuove misure favoriscono i congedi di paternità. Il manager Marcos Suarez è soprattutto consapevole dei benefici economici: «La nostra impresa non è una ong. Non agiamo secondo principi altruistici. Il fatturato cresce con costanza, l'indice di rotazione del personale e l'assenteismo diminuiscono e la produttività aumenta».
Fasi della vita
Allied Irìsh Bank, Irlanda. Su 24 mila dipendenti, al momento circa 1.800 sono in flexitime.
Ronan J. Sheridan, responsabile della comunicazione, spiega: «Abbiamo introdotto la flessibilità nel '95. Quei 1.800 sfruttano il job-sharing, dividendo l'impegno di un contratto a tempo pieno in due, oppure scelgono l'orario personalizzato o le pause di minimo sei mesi dei career break». L'opzione più popolare è quella dell'orario personalizzato: da un minimo di 14 ore a settimana divise in due giorni, fino a 31 ore da fare in quattro giorni. All'inizio la banca era abbastanza rigida e dopo la prima richiesta, per ottenere un secondo cambiamento di ritmi dovevano trascorrere alcuni anni. «Con il tempo però», prosegue Sheridan, «ci siamo resi conto che nella vita le persone attraversano diverse fasi e hanno bisogno di cambiamenti continui». Di fatto, dopo alcune resistenze del management, tutti si sono accorti che è meglio così. Le difficoltà sono finite. E in questo periodo quasi seicento impiegati sono in career break. Potrebbero tornare anche fra cinque anni.

Salvate i senior
Aria Foods, Danimarca, Nell'impresa lattiero-casearia che oggi impiega circa 18 mila dipendenti, il "progetto Senior" esiste dal '95. L'obiettivo? Che gli over 55 possano restare attivi all'interno dell'impresa. Lars Kaae, del dipartimento risorse umane, racconta come funziona: «Si concordano le modalità con cui la persona trascorrerà ì suoi anni da senior in azienda durante un primo colloquio, poi il dipendente segue un corso di formazione tenuto da medici, volontari, legali e rappresentanti dei fondi pensione». Buona parte dei senior sceglie di lavorare 3 o 4 giorni a settimana. Il bilancio è positivo: migliorate sia l'efficienza, sia la soddisfazione. «Ma soprattutto», sottolinea Kaae, «l'iniziativa ci ha permesso di continuare a tenere le persone, le loro competenze e il loro sapere all'interno dell'impresa».


ECCELLENZE SCANDINAVE
A scoprire il paradosso del flexitime che fa bene ai profìtti è stata Eurofound. la fondazione della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Un'indagine su oltre 21 mila imprese, pubblicata nel 2007, ha scoperto che le più dinamiche sono quelle che hanno ampliato l'uso di orari personalizzati e avviato misure per gestire la permanenza in azienda e il passaggio verso ia pensione dei lavoratori maturi. Il 19% di quelle aziende è in condizioni economiche ottime. Fra chi usa gli straordinari, invece, la collocazione nelle "ottime* scende a quota 13%. Finlandia e Svezia sono i Paesi dove la tendenza è più sviluppata, con il 33 e il 32% di aziende con flexitime e buoni profitti. La media europea è del 14%. L'Italia è all'11% - e non ci sono dettagli sugli effetti economici. In compenso, da noi un'azienda su quattro conosce bene la flessibilità" degli straordinari che chiede ai dipendenti. F.P.

IL CAPO ITALIANO? MANIACO DEL CONTROLLO SOCIALE
In Italia quella parola, flexitime, quasi non si conosce. La colpa? In buona parte, sta nella mentalità dei dirigenti. Parola di Paolo Criterio, presidente dell'Associazione dei direttori delle risorse umane italiani (Gidp). Duemila iscritti, tutti con poteri lievemente Inquietanti: sono loro, in genere, ad avere l'ultima parola su tanti destini personali. Ma è pur vero che sono sempre loro a conoscere meglio di tutti le dinamiche interne. «Da noi», spiega Citterio, «c'è un bisogno di controllo sociale dei capì sui subordinati. Li vogliono vedere lì intorno. Non capiscono che bisogna valutare le persone per gli obiettivi raggiunti, non per le prestazioni di tempo, fisiche, che forniscono. E poi c'è la pigrizia mentale. C'è il "si è sempre fatto così”. L'anno scorso la Gidp ha fatto un'indagine sul telelavoro, per scoprire che in Italia si usa morto poco. Gli ostacoli, vale la pena ripeterlo, sono nella mentalità di chi dirige: guadagna abbastanza da amare l'azienda e volerci vivere dentro, ma pretende lo stesso atteggiamento da chi guadagna morto meno». Da direttore del personale, Citterio ha introdotto varie innovazioni nell'impresa dove lavorava in passato. Palestra, sportello bancario e postale, addetti per le pratiche burocratiche personali. «Sono favorevole da sempre. Ma credo ci voglia anche un aiuto da parte di governo e sindacati, li primo potrebbe finanziare le spese di start up del telelavoro e rivedere, insieme ai secondi, certi limiti dello straordinario. Qui non parliamo delle fabbriche. Ma in settori come il terziario, gli obblighi di legge su riposi dopo lo straordinario, sabati lavorati e simili, andrebbero superati. L'ideale sarebbe permettere una certa autonomia di patti aziendali». Alessandra Baduel

La repubblica delle donne
15 MARZO 2008


venerdì 9 ottobre 2009

Guadagnare meno per vivere di più

«Scelta da parte di diverse figure di lavoratori di giungere a una libera, volontaria e consapevole riduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».

Via dal traffico, dalle città costose e dai lavori stressanti. Nel mondo oltre 16 milioni pronti a «scalare marcia»
Simone voleva uscire dall’ingorgo. La macchina era immobile da almeno mezz’ora, in coda con le altre sul Grande raccordo anulare. Sole a picco, aria condizionata che boccheggia. I telefonini che suonano all’impazzata. Dai finestrini delle altre auto, giacche e cravatte, facce stressate che riflettono la sua. «Così non va», disse. Fu allora, da fermo, che decise di scalare una marcia.
Era un manager. Ultimo incarico presso la Boston Consulting, prima era capo delle Relazioni esterne Sisal (quella del Superenalotto), un passaggio anche nell’editoria, Rcs. Ci ha messo dieci anni, per uscire da quell’ingorgo che era diventata la sua vita. Oggi Simone Perotti risponde al telefonino dalla sua casetta nelle campagne tra La Spezia e le Cinque Terre. Sono le 15 di una calda giornata feriale di inizio ottobre. È seduto su un tronco, pantaloncini corti e torso nudo. Ha appena finito di zappare l’orto. Questa sera deve «scendere» a mare per tenere un corso di vela. In mezzo, leggerà un libro, scriverà qualcosa. Non ha programmi. «Prima, la mia vita era completamente pianificata. Con un margine di ragionevole certezza avrei potuto immaginare tutto quel che mi sarebbe successo nei prossimi cinque anni».
Downshifting, si chiama così. L’anglismo è reso meno insopportabile per il fatto che su Internet ormai è questo il nome che identifica una pratica traducibile come scalare marcia, rallentare. In Australia, che ne è un po’ la patria, lo chiamano anche Sea-changing, parafrasando una fiction dove la protagonista molla il suo lavoro redditizio e superstressante per andare a vivere in un piccolo villaggio rurale. Da Wikipedia: «Scelta da parte di diverse figure di lavoratori di giungere a una libera, volontaria e consapevole riduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».
La definizione è corretta ma riduttiva. Del resto solo ora la pratica dello «scalare marcia» sta cominciando ad essere registrata dai radar di sociologi e studiosi dei comportamenti di massa. Datamonitor, agenzia londinese che si occupa di ricerche di mercato, stima che in tutto il mondo i lavoratori potenzialmente inclini a fare downshifting sarebbero 16 milioni. Ogni anno, circa 260 mila cittadini britannici fanno una scelta di vita che va in quella direzione. Nel 2008, il ministero dei Servizi sociali australiani ha stimato che sono almeno un milione le persone, tutte comprese nella fascia di età tra i 25 e i 45 anni, che hanno deciso di scalare una marcia. La stragrande maggioranza (circa il 79 per cento) lo ha fatto non solo cambiando lavoro e quindi regime di vita, ma anche scegliendo di abbandonare la città a favore di località costiere e di campagna. Non a caso, in Francia li chiamano néo-ruraux, neorurali, termine che però non si limita alla mera decisione di vivere in campagna, ma implica l’accettazione di ritmi diversi, l’appropriarsi del proprio tempo libero.
Centomila nel 2007, quasi il triplo nel 2008, secondo uno studio di Ipsos France che precisa come per rientrare nella categoria sia necessario non solo aver cambiato domicilio, ma anche lavoro. «Per quanto mi riguarda, il downshifting è però qualcosa di più di un abbassamento del salario in cambio di maggiore tempo libero. Si tratta di un cambio di vita netto, sia verso se stessi, sia verso il mondo dei consumi, per accedere alla libertà. Essere liberi, oggi, nel sistema occidentale, può rivelarsi estremamente difficile». Perotti ha scritto un libro, «Adesso basta» (edizioni Chiarelettere, nelle librerie da oggi) che può benissimo essere considerato come il primo vademecum italiano per chi vuole lasciare lavoro e cambiare vita senza però per questo essere costretto a inseguire irraggiungibili utopie. Ci vuole metodo, ci vuole costanza. Qualcosa di molto diverso dal sogno del chiosco sull’isola deserta, del 6 al Superenalotto, dell’eredità milionaria da una zia sconosciuta.
Il cammino verso la semplicità è a sua volta un lavoraccio, da pianificare con cura lavorando principalmente su se stessi. Ognuno dei molti siti dedicati al tema sottolinea questo aspetto. Lo studio «Getting a life: understanding the downshifting phenomenon in Australia» rivela come coloro che ci provano vengano sottoposti all’ostilità dell’ambiente che si preparano a lasciare, proprio per la loro scelta di rompere codici predefiniti e uscire dal gioco in anticipo. Coloro che restano aldiquà della linea li considerano anomalie. C’è da affrontare la solitudine, gli amici lavorano come sempre, tu sei alle prese con la gestione del tempo libero inframmezzata da piccoli lavori, tutta un’altra cosa. Lo scalino più alto è appunto quello economico. Guadagnare facendo ciò che si ama, e non sempre una persona ha le idee chiare in proposito.
Scalare una marcia è possibile soltanto al termine di un processo di risparmio, dell’accumulo di un gruzzolo che poi verrà lentamente eroso. Il cambio di città è motivato quasi sempre con la necessità di trovare posti dove il costo della vita sia più basso. La propensione al risparmio deve diventare ferrea, e questo significa cambiare pelle rinunciando alla naturale propensione al consumismo. Occorre essere molto sicuri di sé, perché non avere più lo stipendio fa paura.
La libertà da lavori e vite totalizzanti ha molto a che fare con i conti della serva più che con il gabbiano Jonathan Livingston. E il piano necessita di tempo per essere realizzato, downshifting non è l’equivalente inglese di colpo di testa, tutt’altro. Basta guardare quanto ci si mette a realizzare la propria fuga da Alcatraz. Dieci anni per Perotti, addirittura 15 per John Drake, autore di «Downshifting: how to work less and enjoy life more», uno dei libri di riferimento per chi sta pensando alla rivoluzione esistenziale. «Downshifters, Guide to re-location », «The essential downshifter», «Downshift to the good life», nel Regno Unito il racconto in prima persona sta diventando un sottogenere letterario, segno di una domanda decisamente in crescita.
Su 19 libri a tema pubblicati tra il 2007 e il 2009, solo due raccontano l’esperienza di una famiglia. Avere figli è uno spartiacque importante che rende l’impresa non impossibile ma senz’altro più difficile. La marcia da scalare riguarda un profilo di persona abbastanza definito. Media borghesia almeno, in possesso di un lavoro stressante e redditizio al tempo stesso, possibilmente con una buona rendita a disposizione, di natura ereditaria o dal risparmio.
Ne viene fuori il ritratto di una generazione, a ben vedere. I quarantenni di oggi. Quando è venuto allo scoperto, Perotti ha mandato una mail a tutti e 1.600 i contatti della sua agenda. Amici, colleghi, conoscenti. Gli hanno risposto tutti, alcuni increduli, almeno 800 ammirati, invidiosi, comunque d’accordo con la scelta che il quasi ex manager stava per fare. «Curioso: siamo passati dallo yuppismo interiore a cui abbiamo devoluto tutto a una forma di rifiuto per quello che abbiamo conquistato. Abbiamo creato un meccanismo dal quale siamo stati strangolati, e siamo la prima generazione che se ne sta rendendo conto. Quelli che hanno maggiormente goduto di questo sistema, alla fine non sono felici. Così nasce un nuovo fenomeno sociale».

Ci vuole coraggio, e si può sempre tornare indietro. Alcuni lo fanno, con il cappello in mano, vivendola come una sconfitta. La scorsa settimana, Simone Perotti ha ricevuto una telefonata. Era uno dei più grandi cacciatori di teste presenti in Italia. Gli stava offrendo the big one, l’offerta di lavoro a cui non si può rinunciare. Gli ha risposto nel corso della conversazione, e la risposta era «no». La prossima volta, potrebbe non essere così, potrebbero esserci ripensamenti. «Per il momento, sono libero da vincoli e costrizioni, e libero di gestire il mio tempo. Scalare una marcia significa questo». Mentre parla, in sottofondo si sente il rumore del mare.
Marco Imarisio corriere della sera
08 ottobre 2009

mercoledì 7 ottobre 2009

vacanze in organic farm


Vacanze in fattorie in cambio di lavoro.
Interessante sarebbe monitorare espereinze di questo tipo.

http://www.wwoof.com/

lunedì 5 ottobre 2009

Bauman: se la vita diventa consumo

Un brano da “Consumo, dunque sono” di Zygmunt Bauman (Laterza, pagg. 199, euro 15)

Al giorno d' oggi la prassi manageriale di provocare un' atmosfera di urgenza o di presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita.
«Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare», sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l' apprendimento e l' oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra loro.
La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare.
C' è un «non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per assicurare che l' obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e irrisolta. (...) Siamo di nuovo alla questione dell' uovo e della gallina...
Devi «buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»? Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che l' economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano.
Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La crescita economica non è forse alimentata dall' energia e dall' attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un fiume che non scorra... Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie.
In una società di consumatori e in un' era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l' economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l' acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l' altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l' etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev' essere il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c' è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi?
Una situazione di questo tipo - di breve durata, si spera - si può chiamare solo con il suo nome: «noia».
Gli incubi che ossessionano l' Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre - i ricordi delle cose, animate o inanimate - che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...) L' economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l' idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata.
Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità; l' atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori. La minaccia e la paura dell' ostracismo e dell' esclusione aleggiano anche su chi è soddisfatto dell' identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere. La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano l' insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l' identità acquisita e verso l' insieme di bisogni attraverso i quali viene definita.
Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio. - ZYGMUNT BAUMAN
Repubblica — 07 novembre 2008 pagina 48 sezione: CULTURA

baremboim: fare musica

La musica, per molti aspetti, è una sfida alle leggi fìsiche: una di esse è il rapporto con il silenzio.

La principale differenza tra una sinfonia di Beethoven e i sonetti di Shakespeare è che, sebbene le parole, così come sono scritte nel libro, siano un'annotazione dei pensieri di Shakespeare, allo stesso modo in cui la partitura non è altro che un'annotazione di ciò che Beethoven immaginava, la differenza sta nel fatto che i pensieri esistevano nella mente di Shakespeare e anche nella mente del lettore. Ma nelle sinfonie di Beethoven c'è un elemento aggiuntivo, portare questi suoni nel mondo: in altre parole, i suoni della Quinta sinfonia non esistono nella partitura.
Questa è la fenomenologia del suono: il fatto che il suono sia effimero, che il suono abbia un rapporto molto concreto con il silenzio. Spesso lo paragono alla legge di gravità: proprio come gli oggetti sono attratti al suolo, così i suoni sono attratti dal silenzio e viceversa. E se si accetta questo, allora si coglie l'intera dimensione delle inevitabilità fìsiche che, come musicista, puoi tentare di sfidare. Ecco perché il coraggio è parte integrante del fare musica. Beethoven era coraggioso non soltanto perché era sordo, ma anche perché dovette affrontare sfide sovrumane.
Il semplice atto di fare musica è un atto di coraggio, perché nel compierlo cerchi di sfidare molte leggi della fisica. La prima è una questione di silenzio. Se vuoi mantenere il suono e vuoi creare la tensione che nasce da un suono tenuto, il momento iniziale del rapporto è tra il primo suono e il silenzio che lo precede, e il momento successivo è quello tra la prima e la seconda nota e così via all'infinito. Per ottenere questo, sfidi la legge di natura: non permetti al suono di morire, come farebbe naturalmente. E perciò, nel corso dell'esecuzione, oltre a conoscere la musica e a comprenderla, la prima cosa importante che deve capire un musicista è: come funziona il suono quando lo porti in questo mondo, quando lo porti in questo spazio? In altre parole, cos'è il riverbero? Che cos'è il prolungamento del suono ?
E l'arte di fare musica per mezzo del suono è, per me, l'arte dell'illusione. Quello che crei con il piano è l'illusione di essere capace di fare crescere il suono su una nota, cosa che il piano è completamente incapace di fare, fisicamente. È una sfida. Crei questa illusione per mezzo del fraseggio, con l'uso del pedale, in molti altri modi. Crei l'illusione della crescita di un tono, che non esiste, e puoi creare anche l'illusione di rallentare la diminuzione del volume. Con l'orchestra è diverso perché alcuni strumenti possono ottenere questi effetti. Ma il primo elemento che mi colpisce in un'esecuzione è l'arte dell'illusione e l'arte di sfidare le leggi fisiche. Ed è proprio questo che dobbiamo preparare e provare: ma non certo per arrivare a una formula dell'esecuzione, cosa che, disgraziatamente, a mio avviso, accade molto spesso.
DI DANIEL BARENBOIM

lunga vita al servizio sanitario nazionale


Il sottoscritto oggi si è sentito male in ufficio: sensazione di svenimento, palpitazioni, faccia che formicola, ecc.
Abbiamo chiamato l'ambulanza della croce rossa che è arrivata in minuti 2, mi hanno portato alla Poliambulanza dove, dopo una attesa di 10 minuti, mi hanno visitato, fatto un prelievo, fatto una lastra al torace, un'altra visita, ricoverato in osservazione monitorato con pressione, cardiogramma, ecc. Il dottore mi ha visitato due volte, fatto ecografia alle carotidi e al cuore. Il tutto in un'ora.
Dopo 4 ore tranquillo mi hanno dato un té coi biscotti e mi hanno dimesso, dicendomi di cambiare vita...
IL tutto a costo ZERO, pagato dal servizio sanitario nazionale al quelle verso le tasse al 100% e sono contento di farlo, finchè funziona così.
Altro che gli States!
Grazie alla croce rossa e a tutto lo staff del Dr. Pasqua alla Poliambulanza di Brescia.