LE VITE INCOMPRESE
guardo intorno e tutto ciò che riesco a vedere sono una scuola e un mondo che possono andare avanti anche senza di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura, non tarderà. E non potete far finta di non vedere. (Nota lasciata, da una quindicenne suicida).
Le scrivo perché un ragazzo di un liceo cittadino si è suicidato. Non lo conoscevo, ma immagino che fosse un ragazzo come tutti quelli della sua età, e i suoi amici me l'hanno confermato: estroverso, sensibile, luminoso, ricco di curiosità e interessi. Il giorno prima ha spento il cellulare. Ha scritto alcune lettere. La mattina presto è uscito di casa come se si fosse trattato di un giorno qualunque. A scuola non è mai arrivato. Ha parcheggiato ordinatamente il suo motorino e ha raggiunto la torre del castello. Oggi i suoi compagni e amici, accomunati da un pianto composto e silenzioso, hanno lasciato nella camera ardente una poesia che Alberto, così si chiamava, aveva scritto la scorsa estate. La trascrivo fedelmente: "Sono riuscito a legare con tutti. Sono riuscito a nascondere emozioni verso persone. In realtà c'erano. Sono riuscito a esprimere cose di me. In modo negativo. In parte anche positivo. Sono timido. Una timidezza che riesco a combattere. Dicendo cose non tanto sensate. Non le capiva nessuno. Sicuramente neanche io. Non mi davano ascolto. Altri invece capivano. Riuscivo a fare un discorso. Senza ridere. Credo sia riuscito a lasciare qualcosa di me. In ogni persona del gruppo. Positiva o negativa. Come loro. Mi hanno lasciato alcune cose". Maria Carla Scorza, Brescia mcscorza@tlscali.lt
Chi sono questi ragazzi che. senza nulla dire, se ne vanno per sempre con la stessa semplicità con cui escono di casa? In Italia, infatti, tra i giovani sotto i 25 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici, che solo per un differente livello di coscienza possiamo tenere distinti dai suicidi veri e propri.
So che la prevenzione al suicidio degli adolescenti non rientra nei programmi ministeriali della nostra scuola, ma non sono pochi i giovani che si tolgono la vita o tentano di farlo. Ci provano più di frequente le ragazze, riescono a farlo con più determinazione i ragazzi.
Quando non se ne vanno muti, per la sfiducia nell'ascolto da parte degli adulti, una sfiducia che hanno sperimentato nella loro breve esistenza, abbandonano messaggi come questo, dove in apparenza non traspare nulla di drammatico, se non l'assoluta irrilevanza della propria vita, passata inosservata a quanti sono così assorbiti dalla loro vita da non scorgere minimamente lo scollamento della vita altrui. Invito i genitori che si accorgono di avere dei figli solo quando questi deragliano dalle loro attese, e i professori che pensano di aver davanti una "classe" e non "tante facce diverse", da guardare davvero a una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, a riflettere su questa pagina che Freud scrisse nel 1909: "La scuola deve fare qualcosa di più che evitare dì spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere, e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo a allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò. e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l'interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l'occasione di fare una critica della scuola nella sua attuale struttura. Mi sia tuttavia consentito di mettere l'accento su un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non sì deve assumere la prerogativa dì inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita".
Non si travisi questa pagina di Freud come un invito alla nostra scuola a rinunciare alla disciplina e all'istruzione per privilegiare la cura psicologica dei nostri ragazzi. Ma il modo di disciplinare e istruire richiede quell'attenzione alle differenze individuali che già i medici, per esempio, adottano nell'applicare i loro protocolli, modificandoli a seconda della particolare condizione patologica del paziente. E se questo vale per i corpi, perché non deve valere per i percorsi delle esistenze giovanili, oggi così precarie, incerte, confuse, prive di riferimenti, al punto da prevedere anche la morte autoinflitta, in quella primavera della vita che dovrebbe far sbocciare fiori, invece di vederli reclinare nella de-motìvazione e nella depressione, fino a quel punto irreversìbile dove la morte sembra preferibile a una vita incompresa, cui nessuno ha prestato davvero attenzione.
Umberto Galimberti, la repubblica delel donne, 1 agosto 2009