giovedì 13 agosto 2009

Birmania: processo farsa


“Dagli oppositori – spiega Giulietti - attraverso Cecilia Brighi, la coraggiosa sindacalista del sindacato internazionale, è arrivata la richiesta ad organizzare una catena di aiuti per far funzionare tre emittenti capaci di trasmettere nel territorio birmano; l’Italia potrebbe accogliere questa richiesta coinvolgendo le principali aziende del settore, la federazione degli editori e quella dei giornalisti”.

“Tra le varie iniziative vogliamo ricordare quella dell’11 settembre prossimo nell’ambito della Biennale del Cinema in collaborazione Cinecittà Luce per una sezione dedicata al tema dei diritti umani negati, dalla Russia, alla Cina, dall’Iran alla Birmania di Aung San Suu Kyi”.



Nella Birmania di oggi che processa San Suu Kyi.
"Il panorama è irreale: case colorate di azzurro o rosa, prati all'inglese, strade a sei corsie. Ma non un'anima Solo camion militari..."
di Raimondo BULTRINI
Fonte:REPUBBLICA.it
NAY PYI DAW (BIRMANIA) - A volte capita di avere fortuna viaggiando in un Paese governato da dittatori e di poter visitare indisturbati il centro del loro potere. Nel caso della Birmania un cuore politico nuovo di zecca, trapiantato quattro anni fa nei terrapieni del nord, meno umidi e piovosi della vecchia capitale Rangoon, creando il microclima ideale per il governo-ospizio dei generali ultrasettantenni al potere.

Visitare Nay Pyi Daw, o la Città dei Re, è ormai relativamente semplice, ma solo per le Ong autorizzate e per i sempre più presenti partner commerciali (a dispetto dell'embargo). Praticamente impossibile andarci da giornalista. Ma anche solo come turista, per di più alla vigilia dell'attesa sentenza contro la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, non è certo facile. C'è molta tensione e poche incerte indiscrezioni alla vigilia del verdetto più volte rinviato con il quale oggi i giudici condanneranno quasi certamente The Lady.
L'unico premio Nobel in cella, è accusata di aver ospitato un misterioso americano, John Yettaw, giunto a nuoto nella sua casa sul lago Ynya. Rischia altri 5 anni di carcere o, nella migliore delle ipotesi, agli arresti domiciliari. Chiusa nella prigione di Insein, Aung San Suu Kyi costituisce ancora la principale minaccia per i generali.

Lo stratagemma per raggiungere la loro città è - paradossalmente - quello di volersi recare alle rovine di un'antica città imperiale dove sono conservate le spoglie dell'unica imperatrice donna della Birmania. Ma le autorità locali, preoccupate che uno straniero possa pernottare nella stessa zona in cui due anni fa un terremoto fece crollare alcuni bunker nucleari, preferiscono che la sosta venga fatta proprio a Nay Pyi Daw. L'unico resort che ospita a prezzi esosi stranieri anche non autorizzati appartiene al tycoon del regime, Tai Za, un ex playboy, proprietario di 7 Ferrari e molto vicino alla figlia del generalissimo Than Shwe.

Il viaggio in treno da Rangoon attaversa una giungla di palme, acquitrini e baracche di bambù sfondate dal peso dei monsoni. Ma una volta giunti alla stazione della nuova capitale il panorama cambia, e si presenta come irreale. Nel verde pastello dell'erba piantata a prato inglese, la città assume l'aspetto di un modellino plastico senza esseri umani: lunghe file di edifici, colorati di celeste e rosa, si estendono in linee equidistanti. Uomini, donne e bambini vivono sicuramente lì dentro, ma non vanno a passeggio: di fronte hanno solo superstrade di collegamento a quattro e sei corsie. L'accesso ai carri armati è garantito da vaste arterie laterali dove il traffico è riservato ai mezzi militari che vanno e vengono dalle caserme e dalle residenze attorno al segretissimo quartier generale del governo. Uno dei primi e rari reporter a visitarla scrisse che il regime non aveva programmato di prevenire nella capitale una possibile rivoluzione attraverso le armi, ma a colpi di "geometrie e cartografie".

Sulla collina dei ristorantini un guardia-macchine che mastica betel rosso invita a guardare in basso, dove sono allineate le palazzine degli alloggi per ufficiali e dipendenti governativi. "Very beautiful", dice con la bocca impastata dalle foglie eccitanti. I parametri di bellezza in Birmania sono valutati sulla base della quantità di cemento usata al posto della paglia e del bambù. E a Nay Pyi Daw non si è badato a spese per gli alloggi dei generali, mentre manovali, camerieri e garzoni di bottega confessano di dormire tra gli edifici in costruzione, o sotto i tavoli e gli scaffali dei negozi.

L'ipotesi di una fine prossima del regime non è presa in considerazione seriamente da nessuno. L'attuale comandante, Than Shwe, con un tumore sotto controllo di tanto in tanto a Singapore, riceve a suo agio i dignitari cinesi, russi, indiani, nella pomposa Bayintnaung Yeiktha, il Palazzo simile a quello che ospitò le nozze miliardarie di sua figlia.
Il generalissimo non si cura troppo delle proteste interne e internazionali, tanto meno di quelle dei suoi dipendenti, trasferiti in massa a Nay Pyi Daw dall'oggi al domani secondo date precise dal sapore mistico e rituale: i primi 11 uffici ministeriali traslocarono quattro anni fa l'11 novembre alle 11 del mattino con un seguito di 1100 militari da 11 battaglioni. Ora i funzionari cominciano ad abituarsi, come quelli che si incontrano sulle carrozze "superiori" del treno Rangoon-Nay Pyi Daw, destinati a vivere e a far crescere i loro bambini in un'oasi controllata e distante dal resto del Paese. Interi capitoli delle vicende nazionali, come il massacro degli studenti dell'8 agosto '88, le elezioni vinte da Aung nel '90, sono sconosciute a gran parte delle nuove generazioni. "Nei corsi di specializzazione più dell'80% chiede computer, nessuno vuol saperne di Storia", ci dice una professoressa che aiuta i disastrati dal ciclone Nargis.

Il volontariato senza collegamenti internazionali è il cuore tenero di Myanmar (dall'89 nome ufficiale per la Birmania). I suoi collaboratori per recarsi nei villaggi da assistere attraversano due enormi corsi d'acqua a tratti grandi come il Gange. Tra questi il Pyanmelok, o "Fiume del non ritorno", in cui le piccole imbarcazioni spesso spariscono per le frequenti burrasche. Ma qualcuno deve portare gli aiuti anche lì, sebbene non sempre bene accetti dal regime.

"Molti sentono di essere stati abbandonati dallo Stato, per questo non escluderei la possibilità di una nuova protesta in occasione della condanna di un'icona popolare come Aung San Suu Kyi" ci dice un ex monaco che dopo le rivolte di due anni fa ora fa la guida turistica. "Del resto ben pochi, oltre ai soldati, oggi saprebbero come tenere in pugno il Paese.

Nemmeno la nostra Lady immagina più, se non per sentito dire, com'è fatta la sua Birmania: 800 kyatt al mercato per il riso, il salario di un giorno; 20mila dollari per una macchina scassata, le file dei mendicanti, degli orfani e dei bambini di strada che bussano nei conventi per ricevere un po' di educazione dai monaci, a loro volta sotto stretto controllo del regime". Se la corrente elettrica viene razionata fino a 12 ore in tutte le città e ancor di più in campagna, la rete dei cellulari funziona solo a tratti. Ma per ora è un problema che riguarda meno del 3% della popolazione. Nel resto del Paese è ancora pieno Medioevo.

Solo i tecnici cinesi, russi e indiani si sentono a casa a Nay Pyi Daw, dentro auto scure attraversano le vaste arterie semideserte. Con i generali fissano il prezzo delle pietre, dell'uranio e del gas prodotto al largo di Sittwe. Che siano risorse dell'intero popolo birmano è un dettaglio che non li riguarda. Chi ha scelto di fare affari con la Giunta non vuole nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi di un cambiamento, per di più incerto. L'alternativa è una donna rimasta isolata per vent'anni tra casa e prigione.



"Pena ridotta", così il regime ha eliminato The Lady dalla politica.
La condanna a tre anni, commutata a 18 mesi per Aung San Suu Kyi è un modo attento per ridurre al minimo le reazioni popolari in Birmania. Nel 2010 non potrà partecipare alle elezioni per il 30% dei seggi non riservati ai militari

di Raimondo BULTRINI
Fonte:REPUBBLICA.it

DI RITORNO DALLA BIRMANIA - La pioggia incessante per giorni si era mossa a raffiche e raccoglieva anche l'acqua del lago Inya sulle cui rive fradiciano senza manutenzione le vecchie mura della casa di Daw Aung San Suu Kyi. Anche dall'esterno del cancello su University Avenue si poteva notare che da più di due mesi non ci viveva nessuno, nemmeno le due domestiche trasferite nel carcere di Insein assieme a The Lady, la leader dell'opposizione ai generali che tra poco tornerà a vivere tra gli oggetti che le appartengono.

John Yettaw, l'americano che con la sua nuotata attraverso il lago fino alla casa degli Aung San ha provocato il processo e la condanna della Lady per violazione degli arresti domiciliari, ha ottenuto la pena più alta, sette anni di carcere con lavori forzati, sempreché con un accordo di estradizione non sarà rimandato negli Stati Uniti.

Più mite il verdetto per Aung San Suu Kyi, tre anni, sempre ai lavori forzati, trasformato dal generalissimo Than Shwe in persona a diciotto mesi agli arresti domiciliari "grazie a un'amnistia", come ha subito commentato in positivo l'agenzia cinese Xinhua ripresa dalla tv di Pechino. La riduzione ha sicuramente il solo scopo di concedere qualcosa alla comunità internazionale e anche al dissenso interno, così da evitare clamorose proteste semmai ne fossero state programmate. Del resto un anno e mezzo è giusto il tempo necessario per tenere Aung San Suu Kyi lontano dalla competizione elettorale del 2010, quando la Road map per la democrazia stabilita dai generali praticamente a tavolino prevederà una minima rappresentanza di "società civile" nel nuovo Parlamento.

Per il popolo dissidente, che non sembra avere la forza di scendere di nuovo in piazza a sfidare i fucili del tadmadaw, si riapriranno quantomeno finalmente le finestre della casa simbolo delle loro uniche speranze, anche se queste sembrano sempre più vane man mano che le settimane, i mesi e gli anni passano, con la residenza della Lady come sempre trasformata in prigione, nonché la sua eliminazione da ogni competizione elettorale e ogni ruolo attivo in politica.

All'indomani della sentenza per il reato di aver violato - dopo 20 anni di mansueta routine - le regole degli arresti domiciliari, filtrano ancora ben poche indiscrezioni a Rangoon sulle vere condizioni di salute e anche mentali di Aung San Suu Kyi. I rarissimi giornalisti autorizzati e diplomatici che l'hanno vista durante il processo, durato due mesi con poche udienze aperte compresa l'ultima, ci avevano detto che The Lady sta bene ed è in buon spirito. Conoscendo la realtà della giustizia e della politica tra i dittatori, tutti si auspicavano - come è successo - che i generali le concedessero almeno di tornare a casa. Una piccola vittoria sentimentale più che pratica, capace senz'altro di mitigare la rabbia dei supporter.

Non erano al minimo solo le speranze di vincere una sfida giudiziaria: ora che il dado è tratto - ovvero The Lady è legalmente e di fatto fuori dalla corsa al nuovo Parlamento - saranno ben poche anche le opportunità di sfruttare da parte della Lega nazionale per la democrazia e i suoi simpatizzanti la quota minoritaria del 30 per cento lasciata dai generali ai candidati senza stellette e quelli che saranno "regolarmente" eletti nel Parlamento a sovranità limitata del 2010.

Quanto alle reazioni della Lady, qualcuno dei suoi amici intimi, da anni interdetti dal farle visita, ci spiega che il segreto della forza di Aung San Suu Kyi è nella meditazione, nell'abbandonare ogni forma di attaccamento alla realtà come essa appare. Ma tra le immagini che la Nobel della Pace ha proiettato per oltre due mesi su quel muro di Insein dov'è stata reclusa, non potrà mancare di certo il volto paonazzo e imbarazzato del 53enne americano che l'ha messa consapevolmente o meno nei guai: quel John Yettaw, arrivato una sera a casa sua con le contrazioni dei crampi alle gambe e le sue ridicole pinne improvvisate, capaci però di fargli completare a maggio la lunga traversata del lago Inya fino alla casa proibita degli Aung San.

Yettaw ha passato due giorni nel piano inferiore di University Avenue, ricevendo rifugio e cibo dalle due domestiche - madre e figlia - che condividono l'isolamento della Lady. "Ogni vero buddhista - ci dice un anziano monaco che insegna la filosofia agli stranieri - si sarebbe dovuto comportare allo stesso modo e concedere ospitalità. Anche i generali lo sanno, perfino i poliziotti che l'hanno arrestata e i giudici che hanno emesso la sentenza. Per questo mi aspetto che la condanna provocherà comunque quantomeno una ulteriore ondata di sdegno in tutto il Paese, che sia visibile o meno...".

Già all'inizio di agosto, quando era prevista in origine la lettura del verdetto, l'esercito aveva nemmeno troppo discretamente pattugliato gli incroci principali della ex capitale e di Mandalay, il centro del più largo dissenso monastico al regime. Ma l'11 agosto - giorno dell'annunciato verdetto - la presenza dei tadmadaw era ancora più massiccia, specialmente a bordo delle camionette che hanno scorazzato attraverso tutte le arterie principali cittadine, a cominciare dal distretto dove si trova Insein.

Il regime è determinato a non ripetere l'errore del 1990 quando la Lega nazionale della democrazia guidata in piazza da Aung San Suu Kyi vinse la stragrande maggioranza dei seggi. Per garantirsi il potere, i militari hanno non a caso posto stavolta delle clausole che garantiscono all'esercito il settanta per cento dei seggi nel nuovo Parlamento, qualunque sarà il risultato del voto. Nella stessa logica, la condanna per violazione dei termini di arresto - e l'amnistia graziosamente concessa dal generale Than Shwe - sono unanimemente considerati dei semplici espedienti legali per assolvere Rangoon di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Qui siedono tre dei più grandi alleati di Rangoon, la Cina, la Russia e l'India, tutti interessati al gas, alle strade e ai porti birmani, e forse anche all'uranio delle colline a sud di Taunggyi, dove secondo fonti locali lavora anche una grande impresa italiana tradizionalmente presente in Asia.

Di fronte a questi scenari sembrano improvvisamente ridicole le eco del caso Yettaw, comprese le ormai celebri "visioni" mistiche del mormone sui pericoli per la vita della Lady. I sospetti che possa essersi trattata di una trappola del regime, visto com'è andato il processo, sono sempre più forti. Ma nessuno sembra poterci fare niente, tanto meno The Lady, più lontana, evanescente e isolata che mai. Al punto che la sua stessa figura di leader alternativa ai generali sembra ogni giorno sempre più in forse.



La Birmania conta sul silenzio cinese.
Federica CANTORE
Fonte:EUROPA quotidiano

Il mondo protesta per la condanna di Aung San Suu Kyi nell’indifferenza di Pechino

La condanna a tre anni di lavori forzati per violazione degli arresti domiciliari inflitti dalla magistratura birmana ad Aung San Suu Kyi, segna un nuovo capitolo della lunga vicenda della leader dell’opposizione non violenta nel Myanmar. Se il mondo occidentale protesta con forza, è il silenzio di Pechino a ipotecare la liberazione della numero uno della Lega nazionale democratica.

Quella della Repubblica popolare è infatti l’unica voce che potrebbe avere un peso reale presso la giunta militare birmania, visto che sono cinesi l’87 per cento degli investimenti stranieri nel paese.

Ma la Cina, in Asia come in Africa, non è solita intervenire nelle questioni interne degli altri paesi, sia per motivi di interesse economico, sia per non rischiare di essere ripagata con la stessa moneta ed essere a sua volta attaccata in materia di diritti umani, Tibet e Xnjiang.

C’è poi un altro importante fattore che rende Pechino sostanzialmente impermeabile alle critiche internazionali, soprattutto statunitensi. La Repubblica popolare sa, infatti, che avendo investito il 70 per cento delle riserve cinesi in titoli americani (e soprattutto in obbligazioni governative), nemmeno Washington può esercitare pressioni oltre un certo limite.

Subito dopo la sentenza, però, Maung Oo, ministro degli interni birmano, ha annunciato che il generale Than Shwe, capo della giunta, ha deciso di ridurre la pena a un anno e mezzo di arresti domiciliari. Maung Oo ha dichiarato che è stato tenuto conto del fatto che Suu Kyi è la figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana Aung San, e della «necessità di preservare la pace e la tranquillità della comunità e di prevenire eventuali deviazioni dalla road map verso la democrazia».

Ed è proprio sul voto del 2010 che si gioca la partita. Con questa condanna, infatti, il regime birmano si è assicurato l’esclusione dalle corsa elettorale di Aung Suu, la numero uno della Lnd, che aveva vinto le ultime elezioni libere svolte del 1990 e immediatamente annullate dai militari.

C’è addirittura chi ritiene che dietro la rocambolesca avventura di Yettaw, il pacifista americano condannato a sette anni di lavori forzati, che nel maggio scorso ha raggiunto a nuoto la villetta del premio Nobel facendole infrangere così i domiciliari, ci sia proprio la giunta. Ad ogni modo è sicuro che Than Shwe ha approfittato dell’episodio per liberarsi di una scomoda rivale, nonostante la costituzione scritta dal regime (e fatta ratificare dalla popolazione nel bel mezzo della devastazione del ciclone Nargys) garantisca ai militari il 25 per cento dei seggi del nuovo parlamento.

«È una condanna ingiustificata, priva di ragioni e legittimità» ha commentato Piero Fassino, inviato speciale dell’Unione europea in Birmania. E dalla comunità internazionale arrivano forti critiche alla giunta. Hillary Clinton ha chiesto di rilasciare il premio Nobel e gli oltre duemila prigionieri politici. Il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki moon, ha espresso «delusione» e condannato «con fermezza» il verdetto, mentre l’Unione europea ha minacciato pesanti sanzioni, alla quale hanno fatto seguito Gordon Brown, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy che ha domandato di prendere di mira «le risorse dalle quali il regime trae profitto diretto, come i legnami pregiati e quello dei rubini».

Secondo alcuni analisti, la sentenza di ieri dimostra che la strategia di isolare la giunta a livello internazionale non sta funzionando e che si dovrebbe cambiare tattica cercando di puntare sulla costruzione di rapporti diplomatico-commerciali.

Ma senza Pechino i giochi sono fermi.