Abbiamo appreso attraverso esperienze dolorose che un mondo cheap - dove il cibo costa sempre meno, la benzina è a buon mercato, il credito bancario sembra erogato a tassi generosi, è un mondo dove anche le donne e gli uomini valgono sempre meno».
NEW YORK Qual è da molti anni la prima destinazione assoluta degli americani in vacanza? Non è Parigi né Roma, non il Messico e neanche i Caraibi. Sono gli outlet, i centri commerciali dove si vendono prodotti di griffe superscontati. E' un sintomo dell' ossessione nazionale per i saldi, gli sconti, le liquidazioni, i prezzi stracciati, la gara a chi offre sempre di più per sempre meno, una vertiginosa corsa al ribasso.
E' il capitalismo «cheap», nel doppio senso di «poco caro» ma anche «scadente».
Cheap: l' alto costo della cultura dello sconto è il saggio-inchiesta di Ellen Shell, docente alla Boston University, che Richard Bernstein sul New York Times celebra come una lucida diagnosi delle patologie del consumismo made in Usa. La rincorsa al costo più basso possibile in America ha raggiunto degli estremi sconosciuti nel resto del mondo: la sola catena di ipermercati WalMart, se fosse uno Stato-nazione, sarebbe il decimo partner commerciale della Cina.
«Cheap» è decadimento generale di qualità, valori, professionalità: i supersconti praticati da Wal-Mart si traducono in bassi salari, impoverimento di conquiste sociali, inquinamento e sprechi. I mutui subprime e la benzina sono altri esempi di un cheap solo apparente, che si prende vendette feroci sul debitore o sull' ambiente.
Dalle fabbriche in rovina del Midwest impoverito dalle delocalizzazioni, alle desolanti cittadine nate attorno a uno shopping mall come centro di vita sociale, la Shelldenuncia il volto nascosto della cultura cheape il modo in cui ha trasfigurato l'America.
Cominciando con un"outing" espiatorio, un'autodenuncia.
L'autrice confessa di essere lei stessa una vittima dell'irresistibile attrazione del cheap. «Questo legame pericoloso - dice la Shell -lo conosco perché lo vivo. In un mercato che straripa di beni abbondanti e apparentemente equivalenti, il prezzo diventa il criterio decisivo e finale. Io non resisto all'offerta compri-tre-pa-ghi-uno da Target, dove per 15 dollari mi porto a casa tre paia di slip. Non c'entra la virtù del risparmio, scatta qualcosa di ben più profondo. Il prezzo basso diventa un fine in se stesso, dà un senso di vittoria. Ahimé, è solo un'illusione. Intanto ci riempiamo le case di roba inutile: cantine, soffitte, garage sono intasati di cataste di oggetti che abbiamo perfino dimenticato di possedere, dopo la voluttà momentanea dell'acquisto».
La Shell si è fatta guidare da esperti di psicologia e studiosi di marketing per smascherare un'impostura: nulla è veramente economico, perché noi consumatori non abbiamo un'idea di quanto costi quel che compriamo. La politica dei prezzi usata dai colossi della grande distribuzione è una raffinata manipolazione della psiche umana, un malefico gioco delle illusioni.
Donald Lichtenstein, professore di marketing all'università del Colorado, ha analizzato come la posizione dei prezzi nel menu di un ristorante influenza ciò che mangiamo. La neuropsichiatria ha scoperto che l'aspettativa di un "buon affare" fa scattare una vera e propria tempesta di neuroni nei nostro cervelli. Le manovre sui listini e sulle etichette, gli annunci dei saldi e degli sconti, governano il nostro comportamento di spesa in modi che non sospettiamo neppure.
«In un supermercato -spiega Lichtenstein-è altamente probabile che noi acquistiamo un prodotto in offerta speciale anche se il prezzo scontato in realtà è inferiore al prezzo normale praticato da una catena concorrente. B' irrilevante, perché a far scattare la nostra voglia di acquisto è la visione della differenza esibita tra il costo pieno e quello ridotto. Nella mente umana quello sconto viene vissuto come un vero e pròprio guadagno».
E' la ragione per cui la proliferazione degli outlet fa leva sulle stesse molle psicologiche che spiegano l'eterno successo di Las Vegas: «L'orgia dei saldi in tutte le stagioni, degli sconti a volontà, ci dà l'impressione di poter sconfiggere l'industria e la grande distribuzione, così come la voluttà del giocatore è legata alla fiducia di poter sbancare il casinò».
Sul fronte del Big Business, il trionfo del capitalismo cheap ha coinciso con potenti cambiamenti nel paesaggio delle imprese. Dagli anni '90 in poi l'America ha subito una concentrazione senza precedenti nel settore distributivo. Migliaia di catene commerciali sono scomparse, fallite o inghiottite da un numero ristretto di giganti. All'inizio di questo decennio i dieci protagonisti dominanti della distribuzione ormai concentravano il 72% di tutte le vendite di moda, abbigliamento e accessori. Di conseguenza la politica dei prezzi è nelle loro mani.
Come rivela uno dei boss della grande distribuzione: "Il prezzo finale lo fissiamo noi e lo imponiamo alle due estremità: il produttore e il consumatore".
Le scelte dell'industria manifatturiera, sulla qualità e sui metodi di produzione, sui salari e sulle delocalizzazioni, sono dettate imperativamente da quel che impone il distributore. Le stesse griffe della moda che un tempo ritenevano di poter chiedere un sovrapprezzo grazie all'immagine di lusso dei propri prodotti, sono diventate schiave consenzienti della cultura cheap.
Gli economisti Anne Coughlan della Kellogg School of Management, e David Soberman dell'Insead di Fontainebleau, hanno studiato il fenomeno della proliferazione degli outlet. All'origine si trattava di spacci aziendali riservati ai dipendenti. Poi si misero a smerciare prodotti che avevano qualche piccolo difetto, scarti, o gamme fuori stagione. Adesso marche come Gap, Brook Brothers, Ralph Iauren, Donna Karan e Ann Taylor «producono direttamente per gli outlet, hanno creato delle linee di fabbricazione a minor prezzo e qualità inferiore, il culmine di quell'inganno di massa che sono i saldi 365 giorni all'anno».
Funzionale, indispensabile al capitalismo cheap è il suo corrispettivo finanziario: l'ipertrofìa del credito al consumo. 850 miliardi di dollari: è l'ammontare di debiti che gli americani hanno accumulato sulle loro Visa e Mastercard.
La Shell non nega che la corsa verso la riduzione dei prezzi ha avuto alle origini una funzione democratica, perfino rivoluzionaria. Il capostipite fu Henry Ford, che nel 1908 decise un taglio drastico nel prezzo di listino dell'autovettura più popolare, il Modello T. In un colpo solo passò da 850 a290 dollari, uno choc salutare che aprì l'era della motorizzazione di massa. Improvvisamente gli stessi operai che lavoravano alle catene di montaggio di Detroit furono in grado di comprarsi l'automobile, non era più un lusso per pochi.
Lo storico Charles McGovern sostiene che nella prima metà del XX secolo «gli americani iniziarono a concepire il consumo come una forma di cittadinanza, un rito fondante dell'identità nazionale. Nacque così una sorta di nazionalismo materiale che mise l'acquisto dei beni di consumo al centro della vita sociale». E' il fenomeno che un'altra storica, Lizabeth Collins di Harvard, ha battezzato «la Repubblica del consumatore». Di cui l'ultima reincarnazione è il fenomeno Wal-Mart, la simbiosi America-Cina, l'uso delle importazioni a basso costo che ha beneficiato i consumatori più poveri. «Ma ora quel modello ha toccato i suoi limiti-conclude la Shell-Abbiamo appreso attraverso esperienze dolorose che un mondo cheap - dove il cibo costa sempre meno, la benzina è a buon mercato, il credito bancario sembra erogato a tassi generosi, è un mondo dove anche le donne e gli uomini valgono sempre meno».
Quando il NewYorkTimes ha aperto un forum dei lettori sulle sfide dell'era Obama, un intervento ha colpito la Shell perché segnala l'attrazione di un nuovo modello di vita, il ritorno del consumo frugale. "Pretendo-ha scritto il lettore-di pagare più caro quello che compro . Voglio avere il diritto di spendere di più per avere un prodotto che duri più a lungo, che sia di qualità superiore, che non nasconda pericoli per la mia salute".
Federico Rampini
Repubblica — 25 agosto 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA