domenica 9 agosto 2009

Fernando Meirelles - Blindness

Ogni volta che Fernando Meirelles, regista brasiliano 52enne, gira un film fa scalpore.
È stato così per l'ottimo City of God (2002), per The Constant gardener -La cospirazione (2005), lo è per Blindness - Cecità, che ha aperto il Festival di Cannes 2008 e ora approda in sala.
Il nuovo, discusso film è ispirato al capolavoro del Nobel portoghese José Saramago, una sorta di thriller filosofico, uscito nel '95, dove un'epidemia che provoca la cecità si diffonde di colpo in una città senza nome, sbriciolando alle fondamenta quella società.

Per vincere la sua sfida, Meirelles ha puntato sull'interpretazione dei bravissimi Julianne Moore (The Hours). e Gael Garcia Bernal (Babel). Lo Tsunami nel 2003, l'uragano Katrina 2 anni dopo, le emergenze sanitarie nel subcontinente africano: l'incessante serie di catastrofi planetarie l'ha spinta a raccontare il flagello descritto da Saramago? «Da tempo volevo procurarmi i diritti del libro. Ma Saramago non era daccordo, riteneva che fare un film dal suo libro sarebbe stato mal recepito dall'opinione pubblica. La cosa che m'ha affascinato la prima volta che l'ho letto è stata la percezione della fragilità della specie umana allo stadio attuale dalla nostra civilizzazione. Ci sentiamo solidi e forti, ma un solo evento catastrofico basta a farci tornare agli isitinti dell'età della pietra. Sconvolgente ma vero».
Bel rischio cimentarsi con un testo letterario di quel livello, non crede? «Confesso d'aver avuto dei dubbi: partendo da così in alto, il rischio di fallire è fortissimo. Wilder diceva: "Se devi fare un film ispirato a un romanzo, cercane uno scarso...". Invece ho rischiato. E quando, dopo anni, m'è arrivata la sceneggiatura da Don McKellar, mi sono tuffato nel progetto. I
dubbi iniziali sono tornati dopo, quando ho realizzato che il romanzo di Saramago ha influenzato milioni di lettori, nel mondo».
Cosa ci dice, nel profondo, il romanzo? «Ti porta alla consapevolezza di quanto sia vicino il rischio che il nostro mondo imploda su se stesso. Come ci comporteremmo se all'improvviso perdessimo la vista? 0 se qualcosa ci riportasse a un'esistenza in cui i soli istinti che contano sono il sesso e il cibo? Il tema è: un gruppo di esseri umani che in circostanze eccezionali riesce a sopravvivere e impara a vedere la vita con occhi nuovi. Un'allegoria sulla nostra cecità».
Ha parlato con Saramago mentre girava? «Una sola volta, a cena, a Lisbona. Per prima cosa gli chiesi perché la moglie del dottore è l'unica a non diventare cieca. Mi rispose: "Non lo so". Mi fece capire benissimo che non voleva essere coinvolto».
La grazia del romanzo corre sul filo sottile teso tra l'orrore della situazione disumana e l'ironia amara di certe sequenze. Come ha gestito questo equilibrio? «La prima volta che lessi il romanzo mi colpi l'elemento drammatico e claustrofobico della vicenda. Poi mi sono saltati agli occhi gli elementi comici che Saramago sparge qua e là nella storia: dove racconta il comportamento del governo il romanzo trabocca di sarcasmo. Se rigirassi il film, aggiungerei molta più ironia. Comunque ci sono già un paio di scene decisamente buffe».
Quando Bernal canta Stevie Wonder... «Quello era nato come uno scherzo durante una pausa, tutto improvvisato. La troupe è rimasta di sasso, poi è scoppiata a ridere: ho pregato Gael in ginocchio per farlo cantare di nuovo a cineprese accese...».
All'inizio, la scelta dell'attore per il personaggio dell'anonimo dottore era Sean Penn, ma lui s'è tirato indietro. Perché? «Mi disse: non posso lavorare su una figura senza nome, senza una storia alle spalle. Ma Saramago ha creato i personaggi senza riferimenti biografici e io ho rispettato la
scelta: la storia funzione bene, saperne di più su di loro sarebbe del tutto superfluo».
Gli altri attori hanno avuto problemi? «Ho chiesto a Bernal se per lui era un problema interpretare un personaggio senza storia. A lui non interessano gli sfondi biografici. "Quando inizio a girare", m'ha detto, 'l'unica cosa che m'interessa è cosa vuole il mio personaggio, dove pensa d'andare».
Nelle reazioni del pubblico ha notato differenze riconducibili a diversità culturali?
«Il film è uscito in Canada, Brasile e Usa: solo lì il pubblico s'è sentito "oltraggiato" perché la moglie dei dottore, Julianne Moore, non uccide il despota dopo la prima violenza carnale. La violenza carnale è un fatto orrendo ma solo per gli americani è naturale ammazzare subito il colpevole».
Nel romanzo i personaggi diventano ciechi all'improvviso, e senza motivi apparenti. «Difficile creare al cinema una situazione cosi, gli spettatori devono sentirsi come persi in un labirinto. Ci sono tanti trucchi per far perdere l'orientamento al pubblico. Quando i protagonisti sono chiusi nell'istituto dopo che hanno perso la vista, per 15 minuti in cui i dialoghi sono fuori campo, il pubblico prova le stesse sensazioni dei ciechi davanti allo schermo: sentono parlare delle persone senza poterle vedere».
La sua pellicola è una sfida ai sensi... «All'inizio abbiamo reso lo straniamento con lenti sfocate, poi un gioco di specchi mostra in contemporanea i personaggi da punti di vista differenti, deformando le immagini. È un effetto un po' cubista».
Ha provato come si sta senza vedere? «Mi sono bendato gli occhi 2 volte per 5 ore, mi muovevo toccando i muri con la testa. Provi a bendarsi a tavola, con gli amici. La conversazione cambia subito, se si sa dì non essere visti da altri. Ti ritrovi a raccontare cose intime, che mai diresti davanti ad altri. Come quando bevi un po' troppo».
1 AGOSTO 2009, la Repubblica delle donne