domenica 2 agosto 2009

Guido Viale: Tre generazioni e un patto verde

Insomma, perché, di fronte alla crisi, nessuno parla di riconversione produttiva?



GUIDO VIALE

Non c’è da dare molto credito agli impegni del G8 soprattutto per quanto riguarda la riduzione dei gas di serra fissata al 50 per cento per il 2050, senza obiettivi intermedi su cui attivarsi subito. Speriamo che il vertice sul clima di novembre a Copenhagen costringa i governi a una maggiore concretezza. Una volta fissati degli obiettivi intermedi – per esempio quelli per il 2020 – bisognerà "costruire le filiere"; promuovere una politica industriale con ricorsi decrescenti ai combustibili fossili e crescenti alle fonti rinnovabili.
Il nucleare su cui punta, con altri, il governo italiano non è una risposta. I rischi del nucleare sono altissimi, non solo per la sicurezza; c’è anche un rischio di blocco dei cantieri; poi quelli economici: i ritardi dilatano - come dimostra la fallimentare esperienza finlandese di Olkiluoto - i costi astronomici degli impianti. Poi il costo dell’uranio è decuplicato nonostante le riserve prelevate dagli arsenali nucleari. Ma con i programmi annunciati - soprattutto in paesi dove con democrazia e consapevolezza ambientale assenti - le riserve di uranio saranno esaurite, o già tutte accaparrate, quando ci saranno le prime centrali italiane. Poi il nucleare, irrealistico senza sovvenzioni pubbliche, sottrae risorse alle fonti rinnovabili: le uniche che garantiscono costi di investimento in calo e costi di esercizio bassi o nulli.
Ma che cosa significa "costruire la filiera"? Significa garantire l’autonomia nazionale e locale a tutte le fasi di un’economia a basse emissioni: fabbriche per l’impiantistica: pannelli solari termici e fotovoltaici (importiamo entrambi, nonostante i primi siano poco più di un tubo e una lastra di vetro); impianti termodinamici (inventati in Italia, che però non ne ha ancora neanche uno); pale e rotori eolici (macro e micro); impianti di cogenerazione diffusa (per sfruttare a fondo sia il metano importato che gli scarti agricoli e forestali, oggi abbandonati a generare altro gas di serra). Poi ricerca su generazione microidraulica, geotermia di profondità e moto ondoso.
Ma sui territori ci vogliono anche analisti, progettisti, installatori e manutentori: le fonti rinnovabili richiedono impianti diffusi e mirati sulle caratteristiche dei luoghi: tetto per tetto, campo per campo, bosco per bosco.
Per ogni territorio mix di fonti e assetti impiantistici diversi, e attenzione specifica per il paesaggio. Ma anche per i "carichi energetici" abbinati; in alcuni casi assorbono energia supplementare dalla rete, in altri la cedono.
Molte fonti sono "intermittenti" e la continuità dell’erogazione può essere garantita solo ridisegnando la rete. Poi ci vogliono interventi mirati anche per ridurre i consumi e accrescere l’efficienza energetica: su edilizia, trasporti, agricoltura, industria.
È un programma grandioso: se gli impegni assunti con tanta leggerezza dal G8 saranno rispettati, terrà occupate due o tre generazioni di scienziati, progettisti, tecnici, lavoratori e cittadini; soprattutto a livello locale, coinvolgendo municipalità, imprese, associazioni civiche, sindacati, università e ricerca. Perché mix impiantistici ed efficienza energetica richiedono attenzioni per i contesti locali che solo chi ci vive e lavora possiede e si possono programmare solo con la mobilitazione di saperi diffusi, oggi in gran parte inutilizzati, che potrebbe anche rivitalizzare la democrazia.
Ma che fanno marketing per chi intraprende in questi settori (l’Elettrolux di Scandicci, riconvertita alla produzione di pannelli solari, ne è un esempio) e a promuovere efficienza energetica nei paesi che non potranno mai raggiungere il "modello di sviluppo" dell’Occidente. Utopia? No. Se allo scoppio della seconda guerra mondiale Stati Uniti e Inghilterra riuscivano a riconvertire in pochi mesi il loro apparato industriale nella produzione di armi, la consapevolezza (che per ora manca) della sfida del clima dovrebbe spingere i nostri governanti a uno sforzo analogo. Ma quanto costerà, e chi pagherà, un programma del genere?
Non si tratta di interventi aggiuntivi, ma sostitutivi dei costi che oggi vengono affrontati per vivere e produrre con i combustibili fossili. Non solo i costi di petrolio, carbone e gas – e dell’inevitabile ritorno alle stelle dei loro prezzi – risparmiati con l’efficienza energetica; e neanche solo costi di nuovi impianti, termoelettrici o nucleari. Si eviteranno anche molti costi di settori che vanno a rotoli per i limiti raggiunti dalla "capacità di carico" del pianeta. Innanzitutto l’industria automobilistica, al cui sostegno è destinato quasi tutto il denaro pubblico non utilizzato per le banche: un’industria comunque destinata a ridimensionarsi. A che serve gettare miliardi, e trascinare in battaglie perse lavoratori e amministrazioni locali, per tenere in piedi impianti agevolmente riconvertibili all’impiantistica energetica? O incentivare vendite sottocosto di automobili, sapendo che chi compra oggi non comprerà più domani e il mercato tornerà a languire? Non è meglio finanziare un trasporto più efficiente, rapido, comodo, meno devastante per l’ambiente e i nervi? Perché sostenere l’occupazione nell’edilizia con nuovi edifici o allargando a vanvera quelli esistenti invece che con interventi di efficienza energetica? E perché sovvenzionare un sistema agroalimentare che tra fertilizzanti, pesticidi, motorizzazione, trasporti, catene del freddo, lavorazioni e imballaggi superflui produce solo gas di serra? Non sarebbe meglio rivitalizzare le colture locali e restituire la sicurezza alimentare a miliardi di abitanti affamati da una devastante agricoltura superindustrializzata? E così via. Insomma, perché, di fronte alla crisi, nessuno parla di riconversione produttiva?
(la Repubblica, martedì 28 luglio 2009)