martedì 23 marzo 2010

Celibato - perché entra in crisi il vincolo dei sacerdoti



di Vito Mancuso in “la Repubblica” del 18 marzo 2010
«Non è bene che l'uomo sia solo», dice Dio di fronte al primo uomo. Per rimediare crea gli animali, ma l'uomo non è soddisfatto. Allora gli toglie una costola, plasma la donna e gliela presenta. A questo punto l'uomo non ha più dubbi: «Questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne.
La si chiamerà išà (donna) perché da iš (uomo) è stata tolta». Una voce fuori campo commenta: «Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Genesi 2,23-24).
Questa scena mitica, mai avvenuta in un punto preciso del tempo perché avviene ogni giorno, insegna che la relazione uomo-donna è scritta dentro di noi e che, ben prima dei genitali, riguarda la carne e le ossa.
La Sacra Scrittura esprime così nel modo più intenso che noi siamo relazione in cerca di relazione, che viviamo con l'obiettivo di formare "una carne sola" e di compiere l'uomo perfetto, quello pensato da subito nella mente divina come maschio+femmina, secondo quanto insegna Genesi 1,27: «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò».
La vera immagine di Dio, che è comunione d'amore personale, non è né il monaco né il prete celibe e neppure il papa, ma è la coppia umana che vive di un amore reciproco così intenso da essere "una carne sola". Per questo, secondo un detto rabbinico, «il celibe diminuisce l'immagine di Dio». Lo stesso si deve dire della paternità e della maternità. Se Dio è padre che eternamente genera il Figlio e che temporalmente genera gli uomini come figli nel Figlio, la sua immagine più completa sulla terra sono gli uomini e le donne che a loro volta generano figli e spendono una vita di lavoro per farli crescere. Per questo la Bibbia ebraica considera la scelta celibataria di non avere figli qualcosa di innaturale che trasgredisce il primo comando dato agli uomini cioè "crescete e moltiplicatevi".
Naturalmente tutti sanno che Gesù era celibe, e così anche san Paolo. Ma mentre Gesù conservava una visione positiva del matrimonio, san Paolo giunge a ribaltare quanto dichiarato da Dio al principio dei tempi («non è bene che l'uomo sia solo») scrivendo al contrario che «è cosa buona per l'uomo non toccare donna» (1Cor 7,1). Per lui il matrimonio è spiritualmente giustificabile solo «a motivo dei casi di immoralità», nulla più cioè che un remedium concupiscentiae per i deboli di spirito che non sanno controllare le passioni della carne. L'apostolo non poteva essere più esplicito: «Se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere» (1Cor 7,9).
Da qui sorge la visione che domina la tradizione occidentale che assegna una schiacciante superiorità morale e spirituale al celibato e solo un valore secondario al matrimonio. Da qui la chiesa latina del secondo millennio sarà portata a legare obbligatoriamente il sacerdozio alla condizione celibataria.
Ma su che cosa si fondava l'idea di Paolo? Qualcuno parla di sessuofobia, ma a mio avviso il motivo è un altro e si chiama escatologia: ovvero la sua ferma convinzione che «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), che «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31), che quanto prima cioè giungerà la fine del mondo con il ritorno di Cristo.
La Prima Corinzi, lo scritto decisivo in ordine alla fondazione del celibato ecclesiastico, è dominata dall'attesa dell'imminente parusia (vedi 15,51- 53): se Cristo tornerà a momenti, «al suono dell'ultima tromba», a che serve sposarsi e mettere al mondo figli? Il mancato ritorno di Cristo al suono dell'ultima tromba ha portato naturalmente a moderare l'impostazione già nelle lettere deuteropaoline, tra cui in particolare quella agli Efesini i cui passi si leggono spesso durante le cerimonie nuziali, ma questo avrà solo l'effetto di giustificare il matrimonio in quanto sacramento, non di ritenerlo spiritualmente degno almeno quanto il celibato. Anzi, la tradizione ascetica e mistica dei padri della chiesa e della scolastica è unanime nell'affermare la superiorità indiscussa del celibato rispetto al matrimonio.
Tommaso d'Aquino la sintetizza col dire che «indubitabilmente la verginità deve essere preferita alla vita coniugale» (Summa theologiae II-II, q. 152, a. 4), e il decreto del Concilio di Trento del 1563 arriva persino a scomunicare chi osi dire che «non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio» (DH 1810). Una scomunica che, a ben vedere, colpisce lo stesso Dio Padre per quella sua frase imprudente all'inizio della Bibbia!
Oggi assistiamo alla fine abbastanza ingloriosa del modello di vita sacerdotale sancito dal Concilio di Trento, e in genere portato avanti nel secondo millennio cristiano, con il legare obbligatoriamente alla vita sacerdotale la scelta celibataria. I crimini legati al clero pedofilo (che la gerarchia conosceva e copriva per anni) stanno scavando la fossa, anzi hanno già scavato la fossa, alla falsa idea della superiorità morale e spirituale del celibato. Naturalmente non intendo per nulla cadere nell'eccesso opposto di chi ritiene la vita celibataria alienante e disumana a priori. Conosco preti celibi straordinari, modelli integerrimi di vita serena, pura, felicemente realizzata.
Voglio piuttosto esprimere la mia ferma convinzione che ciò che conta per un uomo di Dio (perché nulla di meno il prete è chiamato a essere) sia avere l'anima piena della luce e della gioia del vangelo, e che a questo scopo la condizione migliore sarà per uno vivere nel celibato e per un altro metter su famiglia, a seconda del temperamento e dell'attitudine personali. Il che è esattamente quello che avveniva tra gli apostoli, come ci fa sapere san Paolo quando scrive che, a differenza di lui, «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa» vivevano con una donna (1Cor 9,5).
I capi della Chiesa non avevano ancora dimenticato che «non è bene che l'uomo sia solo».

Vito mancuso, repubblica 18 marzo 2010-03-23