La presentazione del libro di Jean-Claude Carrière e Umberto Eco, «Non sperate di liberarvi dei libri».
Sono d'accordissimo: quello che ancora resiste nel tempo sono le cose "definitive" e (apparentemente) semplici come i libri su carta. Un libro, graffiato, bucato, bruciacchiato, unto, lo leggi ancora. Un dvd che contiene una biblioteca......è da buttare!!!
La resistenza della carta
di Cesare De Michelis
Immaginate di assistere a una conversazione tra Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, lo sceneggiatore dei più importanti film di Bunuel a partire dagli anni Sessanta, e sentirli discorrere del destino dei libri in questo tempo di sorprendenti innovazioni tecnologiche che annunciano il tramonto del libro di carta e l'avvento dell'e-book, con quel che ne segue.
Sin dal titolo i nostri sono apodittici: Non sperate di liberarvi dei libri dichiarano forte, senza se e senza ma; Eco è perentorio: «il libro è come la ruota, una volta inventato, non si può fare di più» o, che è lo stesso, «le ruote di oggi sono ancora quelle della Preistoria», e questa definitività è propria anche di altre umane invenzioni, dal cucchiaio al martello, alle forbici.
C'è qualcosa di affascinante in questa paradossale difesa del libro, c'è la misura del limite che a un certo punto ferma il progresso, dal confine che arresta la corsa della storia. Non è vero che tutto si trasforma in un movimento vorticoso, alcune cose resistono definitivamente eguali a se stesse e tra queste c'è il libro.
Non siamo sulla soglia di una rivoluzione prima culturale e poi tecnologica: sarà più facile che si disintegrino tutti i libri del mondo, quelli sfuggiti agli innumerevoli incendi, casuali e intenzionali, che li perseguitano, piuttosto che gli uomini si decidano a farne a meno sedotti da qualche marchingegno che ne può contenere in memoria quanti mai se ne vogliono.
Le ragioni di questa assoluta fiducia nella resistenza del libro cartaceo sono altrettanto paradossali di ogni altra considerazione dei nostri profeti che sanno bene che l'avvenire è diverso da come lo si attende e in ogni caso è destinato a sorprenderci impreparati, ma sanno anche - come diceva Karl Valentin- che «l'avvenire era meglio un tempo». D'altronde il supporto che ci ha tramandato nei secoli e nei millenni i libri e la loro sapienza è più volte mutato nel tempo, dal papiro alla pergamena, alla carta di stracci, a questo straccio di carta che ora sfarina tra le nostre mani, e con esso è anche cambiato il nostro modo di possederli e di leggerli; Ivan Illich ricorda che fino a quando non si impose la stampa si leggeva a voce alta perché il testo era uno solo è doveva servire a molti ai quali toccava di memorizzare quel che ascoltavano per poterne profittare in seguito.
A memoria, è evidente, si potevano conoscere soltanto pochi libri eccellenti, ora invece ciascuno può raccoglierne a migliaia nella sua stessa casa o può accedere a biblioteche che ne posseggono milioni: la nostra libertà e la nostra possibilità di conoscere si è infinite volte moltiplicata con la conseguenza che la scelta è sempre più rischiosa e diffìcile.
Eco e Carrière sono sicuri: non è necessario leggere i libri per sapere quello che dicono, anzi «siamo profondamente influenzati dai libri che non abbiamo letto». Quel che conta è l'ordine secondo il quale disporli, e tutti noi lo affrontiamo smarriti, sognando gerarchie e regole perdute per mettere ordine nella nostra biblioteca, nel nostro sapere e nella nostra esistenza. Allora sì potemmo decidere di non leggere quello che non ci importa.
La cultura è un filtro che seleziona tutto quello che deve resistere, ma se il setaccio non funziona può fare danni ben più grandi dei vantaggi che offre; la memoria anch'essa sceglie quel che non va dimenticato: il centro della civiltà sta lì, sul discrimine tra il ricordo e l'oblio, e ì libri non sono la regola ma gli accidenti sempre nuovi che capitano.
Eco ha avuto un nonno tipografo e socialista: il libro, quindi, ha imparato ad amarlo prima della crisi, quando l'ordine ancora c'era e si poteva persino sognarne uno "nuovo"; a noi tocca di vivere in un mondo che potrebbe conservare davvero tutto nella sua memoria informatica, ma non sa come metterlo in ordine per trovare nel caos quello che serve. Lui ha costruito negli anni una "sua" collezione di libri antichi «che hanno a che fare con cose erronee o false», noi siamo sommersi di libri nuovi che pretendono di raccontare cose vere e giuste, ma non siamo più in grado di verificarle.
O Jean-Claude Carrière e Umberto Eco, «Non sperate di liberarvi dei libri», a cura di Jean-Philippe de Tonnac, traduzione di Anna Maria Lorusso, Bompiani, pagg. 272, € 18,00.
Eco per la stampa
La mattina di giovedì 30 aprile, all'aeroporto, ho letto una recensione all'ultimo libro di Umberto Eco e di Jean-Claude Carrière, Non sperate di liberarvi dei libri.
Ho mandato una mail all'ufficiò stampa Bompiani. Il pdf mi è arrivato prima che mi imbarcassi, e ho incominciato a leggerlo in aereo, poi al cambio di aereo a Madrid. In tre giorni di convegno ho avuto tutto l'agio di completare la lettura, perché il bello dei computer è che non ti fanno scoprire, anche se ho corso un bel rischio la sera del r2 maggio, quando mi sono addormentato a letto leggendo il pdf, con il computer sulla pancia: sarebbe bastato che mi rigirassi, e addio computer. Oggi è la mattina di domenica 3 maggio, sono tornato a casa, e sto scrivendo la recensione.
Vicenda banale, ma inimmaginabile anche solo quindici anni fa, e figuriamoci quando Eco ha incominciato a scrivere sui nuovi media, che ai tempi erano la televisione, a metà del secolo scorso. E non solo perché parlo di un libro che fisicamente (o meglio, cartaceamente) non ho ancora visto. No, c'è ben altro.
Allora, negli anni Cinquanta, tutti avrebbero giurato che nel terzo millennio i libri sarebbero scomparsi, insieme alla scrittura, inghiottita dalla radio, dalla televisione, dal telefono. Invece è successo esattamente il contrario. Abbiamo assistito a una esplosione della scrittura, che ha reso improbabile la figura dell'analfabeta di ritorno. Ovviamente c'è stato chi, a questo punto, si è affrettato a dire che, quantomeno, sarebbe scomparsa la catta, sostituita dai supporti informatici, e invece, anche qui, è successo tutt'altro, e siamo stati sommersi da un diluvio di giornali gratuiti, libri a prezzi stracciati, per non parlare delle infinite pagine che le stampanti sfornano al solo tocco della opzione "print".
Eco e Carrière ricordano i motivi della tenacia della carta, che per esser letta non richiede strumenti tecnologici più sofisticati degli occhiali, e che può essere annotata. Soprattutto, elogiano quella invenzione insostituibile che sono i libri, che non si rompono se cadono dal letto, e sopravvivono ai cambi tecnologici, visto che ora possiamo leggere libri di secoli fa, ma non file vecchi di quindici anni. Le opere esoteriche di Aristotele, che per
più di duecento anni sono rimaste in una cassa senza che nessuno le degnasse di uno sguardo, si sarebbero perse se fossero state registrate su dischetti ateniesi, e così addio Metafisica, addio Etica Nicomachea, e addio anche alla Poetica nella parte sulla tragedia. Quella sulla commedia si è persa comunque, perché in effetti anche i libri si perdono.
Per non parlare dei roghi (accidentali come quello raccontato nel Nome della rosa, o intenzionali, come quelli voluti da Goebbels) o del deterioramento delle pagine. Anche questa infatti è una ossessione di Eco: i libri di Vrin e Gallimard degli anni Cinquanta dì cui si era servito per la tesi di laurea adesso gli si sbriciolano tra le mani.
Ricordo che quasi trent'anni fa, poco prima dell'avvento dei computer, mi aveva parlato di un servizio speciale in America, dove passavano i libri in un bagno deacidificante, che salvava le pagine. E, per ironia della sorte, se anche i libri si salvano possono essere cancellati da altri libri, come è successo proprio agli scritti essoterici di Aristotele scomparsi dopo il ritrovamento degli scritti esoterici.
E chiaro che in questa preoccupazione per la salvezza della memoria c'è un aspetto escatologico. Una dozzina di anni fa, nei Cinque scritti morali, Eco immaginava l'immortalità sostenibile'come il trasferimento di un archivio informatico da una memoria all'altra. Adesso la prospettiva è un po' cambiata. Certo, Eco confessa che, se gli andasse a fuoco la casa, cercherebbe di trarre in salvo l'hard disk esterno di 250 giga di memoria in cui ha registrato tutte le sue opere dal 1983 in avanti. Ma cosa succederebbe nel lungo periodo? Rifacendo il verso al marito della signora Robinson nel Laureato si potrebbe dire: «Il futuro è nella carta».
La salvezza sta nella memoria vegetale, non in quella digitale, che alimenta solo la vanitas vanitatum delle citazioni su Google. Ecco il senso di questo dialogo tra uomini che, simili nella curiosità ma diversi nel mestiere (Carrière è, oltre che scrittore, sceneggiatore e autore per il cinema, il teatro e la televisione), e dunque non rivali, racconta il senso della cultura, l'importanza del passato per il presente, le gioie della bibliofilia e dell'esercizio della memoria, e poi ancora tratta delle religioni del libro e delle forme che può prendere la censura, della intelligenza e della idiozia, e delle risposte da dare a quelli che vedendo una casa stipata di libri ti chiedono «li ha letti tutti?».
Soprattutto, si parla del senso del lasciar tracce e del problema dell'invecchiamento, che ci riguarda a ogni età, ma che a una certa età incomincia a riguardarci un po'troppo. Cose che nelle mani di chiunque altro avrebbero un esito tragico-iettatorio, e che invece qui offrono motivi di ragionevole consolazione. Quando invece non li offrono, lasciano apprezzare la sincerità e l'umiltà di due uomini fortunati e riconosciuti, e che indubbiamente anche per questo pensano con più fastidio di altri all'avvicinarsi della morte. Per esempio, che fare della biblioteca? Eco ha dato disposizioni affinchè non si disperda. Ma anche sui libri scritti da lui può stare tranquillo, ci penseranno i lettori futuri e le loro biblioteche. Io lo so che questa, almeno per Eco, non è una consolazione, perché anche in questo libro ci propone il suo rimedio per non essere troppo tristi in punto di morte: pensare che ci si lascia dietro un mondo popolato da coglioni. Ma verrebbe da dirgli che siamo coglioni, sì, ma non al punto da misconoscere la sua grandezza.
di Maurizio Ferraris La Domenica del Sole 24 ore 17 maggio 2009