giovedì 10 dicembre 2009

I lavoratori sui tetti

Si domanda il filosofo Franco Totaro in Non di solo lavoro: "I fini della tecnica e dell'economia globalizzata sono anche i nostri fini?"

Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma


Sono un lavoratore e delegato sindacale. Gli episodi di crisi del lavoro, avvenuti nelle scorse settimane, come il caso Innse, Colosseo e Lasme, mi fanno meditare seriamente.
Mi domando perché, oggi, un lavoratore per far valere i suoi diritti deve ricorrere al fai da te, attirando l'attenzione della politica (che sempre meno conta) attraverso i media. Una volta l'iscrizione al sindacato offriva identità, si facevano le assemblee per spiegare la piattaforma e sensibilizzare i lavoratori allo sciopero.
Negli anni 70 la produzione veniva interrotta, si occupavano gli stabilimenti finché i padroni non davano l'aumento. Le tre confederazioni erano unite e la concertazione con i governi dava risultati (ben cinque patti sociali conclusi negli anni Novanta).
Essere sindacalisti significava sacrificare in buona parte la propria vita (come ha fatto mio padre per tanti anni nella Cisl). Oggi sembra significhi solo salvarsi il...
Eppure, pensare a un mondo senza parti sociali mi torna difficile, vuol dire tornare all'Italia degli anni Cinquanta, o peggio. Manca ormai da tempo una vera conoscenza sindacale, capace di responsabilizzare, mobilitare i lavoratori. In tutto il mondo sviluppato si evidenzia una diminuita adesione ideologica al sindacato, e ahimè c'è una sfiducia maggiore da parte dei giovani (18-25 anni), e in confronto un atteggiamento più benevolo da parte degli adulti.
Questo declino è oggi in parte compensato nel sindacato dalla presenza degl'immigrati regolari, attraverso patronati, pacchetti di servizi che assicurano sostegni individuali nei momenti di crisi. Certo, i tempi cambiano. Ieri la dimensione collettiva era il destino e la speranza di ognuno. Oggi è la dimensione individuale a dominare, favorita da altri fenomeni quali la rivoluzione digitale, la flessibilizzazione, la mancanza, spesso, di un unico padrone e altro.
Ognuno per sé e vinca il migliore, con il licenziamento come ultimo tabù. Per poi magari sentir dire "San Precario lavora per noi".
La domanda che allora le pongo è la seguente: se il lavoro industriale, che ha contrassegnato un secolo di promozione sociale e di riscatto dal bisogno, è ormai in declino, come lo è la fine del posto fisso, lo dobbiamo a un sindacato poco adeguato ai tempi, oppure il problema è più grave e complesso? Grave come teorizza l'economista Rifkin, quando parla "della fine del lavoro", e l'inizio di una nuova era? Siamo di fronte a un sistema entropico? Massimo Merli Brandini, Roma maxrott63@hotmail.it

Risponde Umberto Galimberti:

Gi operai vanno sui tetti delle fabbriche perché ormai da tempo la realtà è stata sostituita dalla rappresentazione televisiva, per cui se non compari in tv non esisti, e nessuno si accorge di te e del tuo dramma. Soprattutto nella nostra cultura che si alimenta solo della rimozione del disagio e della sofferenza.
Detto questo, è evidente che più avanza la tecnologia, più si riducono i posti di lavoro. E siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d'area e i lavori socialmente utili, la disoccupazione non può che avanzare, indipendentemente dalla crisi che stiamo attraversando, che spesso diventa a sua volta una giustificazione utile per sfoltire i posti di lavoro. Tutto questo in nome della razionalità del mercato, che, come un'entità impersonale, tende a far passare le sue leggi quasi fossero "leggi di natura", mentre invece sono solo le leggi del profitto, divenuto ormai l'unico generatore simbolico di tutti i valori.
Già Marx avvertiva, in pieno Ottocento, che "gli uomini esistono solo come rappresentanti delle merci".
Oggi potremmo aggiungere che le merci hanno una libertà di circolazione, nei vari paesi del mondo, che gli uomini si sognano.
Ma almeno, al tempo di Marx i lavoratori potevano opporsi ai datori di lavoro. Oggi, sia gli uni che gli altri si trovano dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità del mercato, contro cui nessuno solleva obiezioni.
Ma come si fa, oggi, a rimettere al centro l'uomo e non solo il profitto? L'indicazione di Franco Totaro è quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come "produzione", ma anche e soprattutto al lavoro come "servizio", di cui la nostra società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si dedicano all'assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento finanziario, se l'economia non pensasse solo alla produzione, ma anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone.
Qui forse si annida anche il segreto di una maggior felicità sociale, che certamente non è data dall'ultima generazione di automobili, di telefonini o di computer, come, ingannandoci, la pubblicità cerca di farci credere.
Di questo parere e anche Frédéric Beigbeder, che nel suo libro Euro 13,89 (Feltrinelli) scrive: "Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello che vi vende tutta questa merda. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità e che non resta mai nuova. C'è sempre una novità più nuova, che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma".


repubblica delle donne 28 novembre 2009