autore: Guido Viale
Per decenni gli ambientalisti sono stati accusati dai teorici dello “sviluppo” e dagli epigoni dell’industrialismo ad oltranza di voler ritornare alla luce delle candele e alla vita nelle grotte. Adesso è ormai chiaro a tutte le persone e a tutti i governanti informati (purtroppo in Italia più rari, questi ultimi, che in qualsiasi piccolo Stato dell’Africa o dell’Oceania) che a farci tornare all’età della pietra saranno proprio loro, i teorici delle capacità autoregolative dei mercati (detto anche “pensiero unico”) e del business-asusual (in sigla, Bau) promosso e imposto dalle lobbies delle industrie petrolifera, automobilistica, energetica e dai costruttori di “Grandi opere”, se la loro presa sui governi usciti a mani vuote dalla Conferenza di Copenaghen non verrà azzerata.
Le conseguenze dell’inconcludenza di questo “Summit” sono state solo adombrate dal rapporto di Greenpeace di cui riferiva Antonio Cianciullo su questo giornale il 21 dicembre. Ma bastano pochi cenni a quello scenario tutt’altro che improbabile per rendersi conto che una vera politica industriale (ma anche, va da sé, energetica, agricola, alimentare, dei trasporti, delle infrastrutture e, vivaddio, culturale) adeguata ai tempi, cioè in grado di preservarci, almeno in parte, da una catastrofe già in corso, può solo adottare le soluzioni innovative che da anni gli ambientalisti propugnano.
Sono soluzioni messe a punto, per lo più con sostegno scarso o nullo dei governi e ancora più scarsi finanziamenti, spesso senza alcuna risonanza mediatica o addirittura circondate dal dileggio dei portavoce delle grandi corporation, da una schiera molto ampia di tecnici, di pionieri nel campo delle tecnologie, di imprese ed amministrazioni che hanno avuto il coraggio di andare controcorrente, ma anche da un numero sterminato di agricoltori, di consumatori attenti alla qualità, di quelle “comunità del cibo” di cui spesso parla Carlo Petrini su questo giornale.
Quelle soluzioni si chiamano efficienza energetica (misure largamente praticabili in grado di ridurre di un terzo, o della metà anche più, i consumi energetici a parità di efficacia), fonti energetiche rinnovabili, bioedilizia, mobilità sostenibile (fine della dittatura dell’auto privata), agricoltura biologica e a chilometri zero, rivalutazione delle colture autoctone, difesa della biodiversità e dell’assetto idrogeologico dei territori, educazione permanente. Non c’è altra strada percorribile e tutte le persone minimamente informate lo sanno.
Ma è ovvio che le resistenze verso una svolta del genere nascono dall’attaccamento ad abitudini consolidate che ciascuno di noi ha: sia come consumatori che come lavoratori (per lo meno finché il posto di lavoro legato alle vecchie produzioni non viene a mancare); ma che allignano anche di più nelle imprese (protagoniste, nella vulgata ufficiale, di tutti o quasi i processi di innovazione), nelle amministrazioni locali, nelle agenzie educative. Fino a ripercuotersi, in un processo di progressiva deresponsabilizzazione, nelle scelte di governi che vivono di sondaggi, di politica- spettacolo, con l’affanno di scadenze elettorali sempre più serrate. Di qui la generale inadeguatezza che dai governi si riverbera, con un processo circolare, sui governati; indotti a non allarmarsi “perché il problema non è poi grave come sembra” o addirittura “non esiste”.
Il fatto è che una riconversione ambientale dell’apparato produttivo, dei nostri stili di vita e della ripartizione globale delle risorse, quale quello necessario per prevenire la catastrofe incombente, non può essere governata dall’alto, o in modo centralistico: come può essere invece la decisione di costruire una o tante “Grandi opere”, o di incentivare la vendita sottocosto di automobili, o di ripianare i bilanci delle banche sull’orlo del collasso; cioè gli interventi con cui i governi di tutto il mondo hanno affrontato la crisi economica in corso, senza curarsi di quella ambientale e senza approfittare delle opportunità per cambiare rotta che entrambe offrivano.
Perché l’efficienza energetica e la bioedilizia richiedono interventi capillari e differenziati su ogni edificio, su ogni impianto, su ogni nuova apparecchiatura; le rinnovabili dipendono da fonti distribuite, differenziate sulla base dei carichi che devono sostenere e dell’accessibilità e disponibilità delle risorse; la mobilità sostenibile richiede soluzioni di trasporto pubblico – sia di massa che flessibile e personalizzato – ritagliati sulle caratteristiche del territorio e sulle esigenze delle loro popolazioni; agricoltura e alimentazione sostenibili richiedono un ridisegno completo dei piani colturali, degli approvvigionamenti e del sistema distributivo; le opere di salvaguardia degli assetti idrogeologici sono differenti in ogni area; l’educazione permanente non può essere promossa senza coinvolgerne nella sua programmazione i beneficiari. Insomma, la riconversione ambientale che può salvarci dal disastro climatico non può essere governata dal centro – anche se i governi dovranno sostenerla con norme e finanziamenti adeguati – ma può essere solo impostata, programmata e gestita in forme decentrate, area per area, comune per comune; al limite, tetto per tetto, coinvolgendo tutti i soggetti interessati: imprese disposte a cambiare rotta o a promuovere e sostenere la svolta; amministrazioni locali innovative, associazioni professionali e comitati di cittadini. È questo l’unico vero federalismo.
Naturalmente tra i governi centrali e l’iniziativa dei territori ci deve essere interlocuzione e il governo attuale del nostro paese, nonostante il conclamato federalismo, non sembra il più adatto né il più propenso a un approccio del genere. Ma se anche questo o un altro governo (domani, chissà?) decidesse di mettersi su questa strada, senza una robusta iniziativa dal basso e dalle periferie sarebbe del tutto impotente. L’unica strada percorribile per ottenere una vera svolta, tanto a livello locale e nazionale che planetario, e anche l’unica forma praticabile di riequilibrio nell’utilizzo delle risorse a livello globale, potranno solo scaturire – e in minima parte, lo stanno già facendo – dal rafforzamento dell’iniziativa locale.
Quello che ci insegna la Conferenza di Copenaghen, dunque, è che summit di questo genere non si devono più fare. La ribalta deve essere lasciata libera perché gli scienziati, attraverso un libero confronto anche con chi professa scetticismo – purché tutti dichiarino le fonti di finanziamento dei loro studi e delle loro pubblicazioni – possano informare il pubblico sui pericoli che corriamo; e perché chi sta già operando, in piccolo o alla grande, per il cambiamento possa presentare al mondo le proprie buone pratiche e farne valutare la replicabilità. Invece, perché i governi possano legittimamente riproporsi un accordo occorre che ciascuno abbia dietro le spalle programmi e misure in cui non solo siano fissati gli obiettivi, ma anche le risorse che intende impegnare, le misure adottate o da adottare, gli attori coinvolti o da coinvolgere; e perché questo avvenga occorre innanzitutto che governati e governanti si convincano che la riconversione ambientale non è solo un costo – come inevitabilmente viene percepita quando si fissano solo obiettivi di riduzione, senza la necessaria attrezzatura – ma una grande opportunità: di innovazione, di benessere, di occupazione, di equità e di convivenza più pacifica; e anche di business. Ma soprattutto di salvezza per il pianeta.
Repubblica, 23/12/2009