sabato 12 dicembre 2009

morale e politica

Morale e politica
Non è possibile affrontare, e tanto meno risolvere un problema, se non si tiene conto del radicale mutamento del contesto in cui quel problema si pone.




C'è una parola che è rimasta incastrata nei dizionari, su qualche manuale di filosofia, sulle labbra di qualcuno degli ultimi predicatori, bacchettoni di provincia, decaduti filantropi, per assestargli il definitivo colpo di grazia, il Ko che l'ha stesa e confinata in esilio. La parola é moralità.
Certo questa mia non sarà una ricerca bigotta di un senso da applicare a questa parola, né tanto meno un ulteriore j'accuse al "lombardo Sardanapalo", cioè il signor Silvio Berlusconi.
Il mio intento è un altro: domandare perché la moralità è stata confinata, alle soglie del XXI secolo, e perché il binomio "moralità e politica" oggi risulta irrealizzabile e anacronistico.
Siamo cresciuti - nel senso che abbiamo studiato - la moralità occidentale come legata, in un rapporto di significante simbiosi, alla libertà.
Già da Kant abbiamo acquisito l'imperativo: "Devi agire moralmente, perché libero, seguendo la tua legge morale".
I secoli a venire sono stati attraversati da questo legame, da questo percorso di consapevolezza della propria libertà e autodeterminazione, della personale moralità. Ma quel "personale" e quella "libertà" hanno assunto nell'ultimo cinquantennio risvolti grotteschi: la libertà é degenerata in un'esasperante assuefazione a un culto egotista, rendendo vana, vuota, puramente teorica la moralità.
O forse, signor Galimberti, é la libertà stessa che nel suo ultimo stadio ha liberato l'uomo dall'alter-ego morale, e oggi egli é finalmente realizzato? O forse l'inganno é intessuto da Kant in quel "La legge morale dentro di me", inaugurando un percorso individualistico la cui degenerazione é questo tempo? Sono le domande di uno studente liceale alle prese con la "questione morale", fuori da ogni cronaca giornalistica.
Giuseppe Di Vetta giuseppe.divetta@libero.it

Risponde Umberto Galimberti:
Del rapporto tra la morale e la politica si discute dal tempo di Platone, quando la filosofia greca ha inaugurato questi due scenari che nel corso della storia sono entrati spesso in conflitto fra loro. Per il mondo greco, morale e politica non potevano che coincidere, dal momento che, come scrive Aristotele nella Politica, "gli uomini hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all'uomo migliore e alla costituzione migliore".
Con l'avvento del cristianesimo l'individuo si separa dalla società, perché alla sua individualità, alla sua "anima" si prospettano un destino ultraterreno in cui l'individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione.
Alla vita collettiva, regolata dalla politica, è affidato il compito di creare le condizioni per la realizzazione del bene individuale, quindi il compito della limitazione del male.
In questo modo la realizzazione individuale (la morale) viene separata dalla realizzazione sociale (la politica), e, in nome della sua interiorità e della sua destinazione ultraterrena, l'individuo cristiano prende a vivere, come scrive Agostino nel De civitate Dei, separato nel mondo, e poi dal mondo.
Questa è anche la ragione per cui Rosseau scrive nel Contratto sociale che "il cristiano non é un buon cittadino": lo può essere di fatto, ma non a partire dalle sue credenze.
La filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana, che sono le due radici dell'Occidente, hanno deciso di volta in volta, e con vicende alterne, di dare il primato alla morale o alla politica, fino al giorno in cui la tecnica, divenuta il vero soggetto della storia, ha subordinato a sé sia la morale, sia la politica, rendendo tutte le discussioni relative al primato dell'una o dell'altra questioni subordinate.
Per quanto concerne la morale, come opportunamente scrive Emanuele Severino in Il destino della tecnica (Rizzoli): "Come fa la morale a impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può?"
E ancora, aggiungo io: come può una morale, i cui princìpi discendono dalla natura concepita come immutabile, valere nell'età della tecnica che ha risolto la natura in materia prima, in ogni suo aspetto manipolabile?
La politica, a sua volta, non è più il luogo della decisione, perché per decidere la politica guarda l'economia, e quest'ultima, per decidere i suoi investimenti, guarda le risorse tecnologiche. Per cui il luogo della decisione si è spostato dalla politica alla tecnica.
Questo spiega tutte quelle scorribande in sede politica e in sede morale, che sempre più appaiono, purtroppo, luoghi inessenziali al corso della storia. Non dico queste cose con piacere, ma mi pare necessario segnalare il mutamento dello scenario in cui l'antico problema del rapporto tra morale e politica oggi si presenta: per evitare discussioni che diventano inutili se non si prende atto del mutamento radicale del contesto.

repubblica delle donne, 14 novembre 2009