venerdì 20 novembre 2009

Rubare i sogni

LE AVETE RUBATO I SOGNI
Poco più di un anno fa, quando facevo ancora il
procuratore della Repubblica, è arrivata nel mio ufficio
una ragazzina. Faceva il IV anno di Giurisprudenza e mi ha
spiegato che voleva scrivere una tesi sulla lentezza dei
processi penali in Italia (cause e possibili soluzioni); e che
cercava informazioni sul campo, intervistando magistrati e
avvocati.

Io l’ho guardata un po’ meglio e ho capito che
tutto era meno che una ragazzina. Poi ha tirato fuori un
registratore e abbiamo parlato per non so quanto tempo;
era così acuta e determinata, così pronta a identificare
l’essenziale di ogni problema, che le ore sono volate.
E’ andata via ringraziandomi garbatamente. Un anno dopo
mi è arrivato un grazioso bigliettino (da ragazzina) su cui
era scritto “è solo una tesi …” e una pen drive che la
conteneva. Sì, era solo una tesi; molto ben scritta e
drammaticamente accurata. Poi l’ho dimenticata: quello
che lei aveva scritto lo conoscevo fin troppo bene; e ciò che
mi divideva da lei era la meditata sfiducia nelle “possibili
soluzioni”, tanto più “impossibili” quanto semplici ed
efficaci.
Qualche giorno fa la ragazzina mi ha mandato una
e-mail: “Si ricorda ancora di me?”, era l’oggetto. Mi
ha raccontato che fa la cameriera in un paese straniero
dove cerca di “imparare una lingua che a scuola non ho mai
studiato” e dove frequenta un master in materie che “non
hanno nulla a che fare con i miei sogni di bambina”. Io lo
sapevo quali erano i suoi sogni: voleva fare il magistrato. Mi
aveva detto, mentre discutevamo della sua tesi, che voleva
servire il suo paese. Adesso, mi ha scritto, non sogna più;
adesso ha capito che “non potevo sprecare la mia vita per
salvare un paese che non vuole salvare se stesso. Che non
avrei potuto passare la vita ad applicare leggi espressione
di un Parlamento che non mi rappresenta: che dei
delinquenti potessero promulgare leggi che facciano in
modo che la giustizia funzioni sarebbe stata un’illusione
alla quale nemmeno la grande sognatrice che ero poteva
c re d e re ”. Così, ha scritto, ha deciso di “s c e n d e re ”; e se ne è
andata. Adesso studia e lavora in un altro paese, lontana
dai suoi affetti e dai suoi
luoghi. E’ – così si è definita –
“una piccola fuoriuscita” che
ogni giorno legge, con altri
come lei, il Fatto, ingoiando
una rabbia che l’essere scesa
dalla giostra non
ammorbidisce. “Poi – mi ha
scritto – ci sono giorni come
oggi, quando il professore ti
prende in disparte e ti chiede:
‘What the hell is happening in
Italy?’. Questi sono i giorni in
cui non mi importa di essere
una straniera che fa fatica a
trovare il suo posto nel mondo,
tutto quello che so è che sono
felice di essere scesa”.
Adesso non credo che io e
molti altri come me potremo
dimenticarla; non lei e
nemmeno i “piccoli
fuoriusciti” suoi amici. E ora
che ho finito di raccontare di
Paola, vi chiedo: vi rendete
conto di cosa avete fatto a
una ragazzina?
di Bruno Tinti, il fatto, 20 novembre 2009