lunedì 9 novembre 2009

L'arduo sentiero dell'amicizia

Scrive Platone: Se uno, con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore del’occhio dell’altro,vede se stesso” (Alcibiade I, 133a)
E l'amicizia? Che fine ha fatto? Si è dissolta, forse si è nascosta, oppure è un sentimento in via di estinzione? In quest'assurda società, carica di valori inconsistenti, che posto occupa l'amicizia?
Non solo, ma aggiungo - forse, con uno spietato senso della realtà - c'è ancora posto per l'amicizia o è stata surrogata da brutte copie di un sentimento che non s'incontra più? Ci sarebbe tanto da dire sul tema in questione, stranamente ancorato alla nozione di tempo che tutti noi abbiamo a disposizione - e che si assottiglia sempre di più - lasciando invero pochi brandelli per quel valore aggiunto che dovrebbe arricchire a dismisura ogni essere umano e che viene invece evitato con fastidio, quasi fosse viziato da un insospettabile retrogusto amaro che di conseguenza ci fa desistere dal valorizzare. Nella vita sciatta di tutti i giorni, noto con triste ripetizione lo sbandieramento quasi sfrontato (e a tratti cafone) di inutili trofei, segno dei tempi, ma non sarebbe più bello se tutti noi potessimo mostrare tanti amici come tratto distintivo di vera ricchezza? Antonio Ludovico, avvocato studlolegalelutlovlco@gmaH.com

Più la società diventa di massa - o nella forma di quella solitudine che ci incolla davanti a un computer vittime di una bulimia affettiva, per cercare non tanto amici quanto riconoscimenti della propria identità che non sappiamo dove altro reperire, o nelle adunate di massa in occasione dì concerti, o davanti a teleschermi per i grandi eventi, o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo o la fede che già possediamo - più l'amicizia diventa difficile e impraticabile. A meno di non intendere con questa parola amori che non si ha il coraggio di intraprendere, rapporti coniugali resi esangui dall'abitudine, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni un po' ipocrite e un po' convenzionali nella speranza che un giorno possano tornare vantaggiose.
Oggi conosciamo solo il singolare e il plurale. Così vuole la nostra grammatica. Nel singolare incontriamo la solitudine dell'anima che vagheggia mondi e ideazioni, che mai avremmo il coraggio di rivelare in pubblico, che si inabissa in dolori che la buona educazione ci induce a non manifestare, che si esalta in entusiasmi che sfuggono a ogni misura e moderazione. Al singolare conosciamo quello che nel pubblico verrebbe rubricato come eccesso o follia. Anche se è proprio questa follia a darci vita, senso e spessore. Al plurale dobbiamo dar prova di sano realismo che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere più una risposta agli altri che propriamente noi stessi. E tutto questo per essere accettati, riconosciuti, identificati, e nei casi estremi persino applauditi. Ma l'amicizia disabita il singolare e il plurale, perché conosce unicamente il duale, con cui gli antichi Greci coniugavano le loro forme verbali quando il discorso era fra due, carico di quella valenza simbolica del linguaggio che ben conoscono gli innamorati in quel breve periodo in cui non riescono a concepire se stessi senza l'altro. Tra l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l'amicizia, che abita il duale, consente di comprendere tutte quelle eccedenze di senso che segreto la nostra anima crea. Eccedenze che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia, mentre nell'ascolto accogliente dell'amicizia possono dirsi e, invece di restare soffocate e inespresse, svelare la nostra intima verità. Per questo, penso, non si possono avere molti amici, come invece lei si augura, ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima, a cui svelare il nostro segreto che l'altro segretamente custodisce. Non per confidarci o cercare consenso o conforto, ma per vedere che cosa nella comunicazione duale il segreto ha da svelarci. Silenziosamente, a poco a poco, incontro dopo incontro. Perché così chiede il ritmo dell'anima, che vuol dirsi e insieme custodirsi, per non spegnere le sue creazioni e nello stesso tempo non disperderle nel rumore del mondo. Se questa è l'amicizia, la nostra cultura, che conosce solo l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, non è la più idonea a favorire quell'incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso, e che lo sguardo accogliente dell'amico potrebbe incominciare a raccontare e a delinearne i contorni. Perché in fondo è la scoperta di noi quello che l'amicizia favorisce e propizia.
Umberto Galimberti, repubblica delle donne, 31 ottobre 2009