Recensione di “Il peso della farfalla” di Erri De Luca – Feltrinelli, 72 pp 7,50 euro
Paralleli in tutto, anche nel presagio di morte. Cacciatore e camoscio, il re dei bracconieri e il vecchio capobranco. Due campioni a fine carriera, uniti nella sfida come Achab e il Leviatano, ma stavolta senza il demonio dentro.
Non c' è spazio per l' Orrore sui monti scintillanti di novembre, tempo di morti per gli uomini e di amori per gli animali del bosco, quando terra e cielo si avvicinano. Racconto montanaro scabro, levigato come ciottoli di fiume, con una prosa "orale" sul filo dell' endecasillabo, questo di Erri De Luca, Il peso della farfalla (Feltrinelli). Storia spremuta dagli scarponi e dall' andatura, dalla pioggia e dai silenzi di quota, dalla grandine vetrata e dalle stelle d' inverno che scendono come briciole dal cielo. E' quello, ci dice lui stesso, «l' albume, la proteina della scrittura». Metafore che salgono dai piedi, non scendono dalla testa.
Il vecchio re dunque. Fiero, solitario e imbattuto, un campione come non s' era mai visto, con una farfalla bianca che sventola a bandiera sopra il corno sinistro. In basso, le sue femmine in estro, odore buono di mandorla che esce da una ghiandola sul collo, il grembo che si prepara a covare nuove creature «nel punto più salvo e più caldo dell' inverno». E i figli inquieti, maschi concorrenti, «usciti dalla spinta dei suoi fianchi».
Dall' altra parte l' uomo, fucile 300 Magnum con pallottola da undici grammi, «ladro di vita indomita e sovrana, lasciata incustodita sotto il sole dal padrone di tutto». Il cacciatore, bandito ma protetto dalla comunità, imprendibile dai guardiacaccia, arrampicatore provetto proprio perché arrampicare non è il suo scopo. Alpinista al contrario, che disperde le tracce anziché lasciarle.
Tra i due un corteggiamento mortale, un inseguimento che parte da lontano, anni prima, quando la bestia col fucile uccide la madre del re ancora bambino. Il camoscio la sente tornare, nel sole di novembre, prima che «la saracinesca dell' inverno» sigilli nuovamente il mondo alpino. Sente salire dal basso l' odore inconfondibile di «grasso rancido che nessuno sterco può mascherare». L' odore dell' uomo. E l' uomo sale, in silenzio. E' ancora forte, ma sente in bocca il presagio della fine, avverte che quella sarà la sua ultima caccia.
Anche il vecchio camoscio imbattuto sente per la prima volta la vita volargli via, ma segue il nemico da lontano, gli gira attorno, disegna arabeschi sui ghiaioni senza far cadere una pietra. La gravità, per lui, non è una legge ma «una variante sul tema». La sua discesa è un arpeggio. Il suo salto «un rammendo fra bordi, un punto di sutura sul vuoto». Entrambi, con i sensi affilati dall' esperienza, vanno dove altri non osano, si cercano in campo aperto per bruciare in simultanea la loro ultima stagione di supremazia. Entrambi hanno imparato non a ripararsi ma a vestirsi degli elementi: vento, neve, pioggia, folgore. Ma l' uomo, a differenza dell' animale, pensa al futuro. Non vive il «qui e ora». Il cacciatore è attanagliato dal futuro e dai presagi, non si accorge che il presente è sopra di lui, perché il camoscio, in silenzio, lo ha raggiunto alle spalle e lo domina. Si volta appena in tempo. Quello che gli piomba addosso per incornarlo non è un animale, ma una furia scatenata, «vento vestito di zampe e di corna». E allora che il re, fallito il colpo per un nulla, raggiunte le sue femmine, si gira verso il nemico e si immobilizza in cima a un masso come un monumento a se stesso.
Uno sparo ed è finita; il monarca dalle corna a uncino resterà imbattuto per sempre. Così i ruoli s' invertono: è il camoscio ad aver vinto, mentre l' uomo capisce che la sua è una sconfitta. La bestia col fucile si inchina davanti a quel corpo enorme, vuole solo il suo trofeo di corna, ma non può accettare che il re finisca con gli occhi beccati dai corvi, così se lo carica sulla schiena con uno sforzo immane, arranca su per un ghiaione per nasconderlo sotto un nevaio e seppellirlo l' estate seguente. Ma il cuore non regge.
E quando la bianca farfalla del re torna a posarsi sul corno sinistro, quel peso da nulla in più è determinante e lo schiaccia. I due corpi saranno trovati insieme da un boscaiolo, dopo «un inverno di neve gigantesca», e insieme saranno sepolti in montagna. Seguiva i boscaioli, il re dei camosci, per mangiare dagli alberi appena abbattuti l'inarrivabile ciuffo che sta sulla cima degli abeti. Stava lì il concentrato ultimo della vita della pianta. Era quello il segreto della forza del re.
Ed ecco che la storia del duello — più pagana che biblica — ne produce una seconda, più breve, per gemmazione, dedicata appunto a un albero. Un cembro contorto sui monti di Fanes, un eroe piantato sopra il vuoto.maestro di eleganza e di silenzio. Un figlio della terra e del cielo, nato dove la folgore un giorno ha marcato l'abbraccio nuziale fra i due.
E' con simili campioni solitari che vale la pena di restare, finché s'accende la prima stella della sera. Ed è qui che il cerchio magico si chiude tra uomo, albero e animale.
PAOLO RUMIZ
Repubblica — 14 novembre 2009 pagina 42 sezione: CULTURA