martedì 3 gennaio 2012

Lezioni per il politico sobrio

Evidentemente la storia ha la tendenzxa a ripetersi, e i popoli hanno la tendenza a dimenticare...
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Lezioni per il politico sobrio

IL PRIMO MANUALE DI STILE DELLE CLASSI DIRIGENTI. Si chiama “Il Policratico” e lo scrisse Giovanni di Salisbury nel Medioevo. Sono consigli contro gli sprechi e i privilegi che riguardano i potenti e i sovrani. Presentendo che le cose non andavano per il verso giusto, prese carta e penna e scrisse al capo del governo. Non una lettera aperta, ma un promemoria riservato. Un trattato monumentale, una guida per uno stile politico più sobrio (come si direbbe oggi) contro privilegi e abusi, una summa da far leggere ai due massimi esponenti politici del paese, quelli su cui si appuntavano le speranze del momento: lo inviò e dedicò al cancelliere del regno, auspicando che lo passasse anche al re.

Lo fece a modo suo, citando, talvolta piegando alla sua argomentazione tutti i testi “classici” e “sacri” a sua conoscenza. Sembrava “far letteratura” su cose del passato. E invece parlava del suo presente. Sferzava l´andazzo allora in voga tra le classi dirigenti, l´adulazione dei potenti, lo spazio accordato a profittatori truffaldini, a sicofanti e consiglieri interessati, magari pronti a cambiar partito da un giorno all´altro. Denunciava l´attaccamento ai privilegi, la tendenza a circondarsi di “istrioni, mimi, buffoni, meretrici, ruffiani”, i maldestri tentativi di accaparrarsi “il favore popolare” sperperando fortune per “ricolmare il volgo di doni”, “allestire festini”, anzi “orge e dissipazioni”, incoraggiando il consumo di divertimenti fatui, di spettacoli indecenti e di cattivo gusto. Derideva i giochi alla moda, specie quelli d´azzardo, e la mania insulsa di affidarsi ad astrologi, maghi e fattucchiere per farsi curare o per “conoscere il futuro”. 
Il Policraticus di Giovanni di Salisbury, scritto nel 1159, non è solo il primo grande trattato medievale sui doveri dell´”uomo di Stato”, ma anche una efficace e colorita descrizione dei mali della vita pubblica del proprio tempo. Che avrebbe poi influenzato le invettive di Dante e Petrarca contro la corruzione dei costumi. È un testo che solleva insomma “la questione morale” in politica. Non tanto perché “fa la morale” ai potenti, ma perché affronta nel dettaglio i problemi di coesione sociale e di tenuta del prestigio nazionale posti dai mores, dai costumi del secolo.
Ci viene riproposto, per la prima volta in traduzione integrale, con il testo latino a fronte, in quattro spessi volumi di oltre duemila pagine, editi da Aragno, magistralmente curati da Ugo Dotti, il quale, esattamente come Giovanni di Salisbury aveva fatto coi suoi classici, non esita a sottolinearne in una nota iniziale la sorprendente “attualità” alla luce dei fatti di cronaca e delle abitudini di palazzo dei giorni nostri (Il Policratico, ossia delle vanità di curia e degli insegnamenti dei filosofi, 4 tomi, pagg. XLV-2004, euro 150). Giovanni di Salisbury era un uomo d´establishment, ben addentro ai giochi del palazzo, era il segretario dell´arcivescovo di Canterbury, poi nominato da Enrico II anche Cancelliere del regno d´Inghilterra, era amico personale di Papa Adriano IV, era stato a lungo diplomatico e funzionario ecclesiastico, si era cimentato persino come uomo d´affari. È quindi uno che sa di che cosa parla quando afferma che “non c´è luogo dove non vi siano stupidaggini… regnano sia nella Chiesa che nelle sale dei re; nei chiostri come nelle sale del sommo pontefice”.
Non esita a vergognarsi della sua frequentazione del potere, del far parte anche lui del consesso dei “cialtroni”, del non aver osato “altro non potendo, spezzare per sempre la fune che m´ha tenuto per tanto tempo a contatto con le sciocchezze di corte e che anzi mi tiene ancora vincolato a tale servitù. Sono infatti dodici anni che vivo immerso in questa miseria e mi vergogno e mi pento…”. Sarebbe stato accontentato: il Policratico non piacque affatto al re e gli costò l´esilio.
Al suo protettore e datore di lavoro Thomas Becket sarebbe andata anche peggio: fu assassinato dai cavalieri che volevano togliere di mezzo un avversario del loro re, anche se a sferrare il colpo di spada che gli avrebbe spappolato il cervello sul pavimento della cattedrale fu un chierico come lui, zelante come tutti i transfughi.
Come succede spesso, al fondo della disputa c´erano non i sermoni sullo stile di vita dissipato dei potenti, bensì un conflitto di soldi e di potere. Enrico II nel Policratico viene ancora lodato come il re che aveva messo fine alla precedente anarchia e avrebbe potuto inaugurare una nuova era di armonia tra gli interessi della nobiltà feudale e quelli della chiesa. Era stato lui a nominare cancelliere l´arcivescovo di Canterbury: pensava così di avere un suo uomo alla guida della Chiesa, poi si era accorto di avere a che fare con una personalità indipendente, che da uomo di Chiesa pretendeva di esercitare anche le prerogative del sovrano. Il re aveva bisogno di rimpinguare le casse dello Stato dissanguate dalle sue guerre in terra francese e si mise a pretendere le decime della Chiesa, sino ad allora esente da imposizioni fiscali.
Era Stato Enrico a creare lo “Scacchiere”, dove dovevano confluire tasse, balzelli procedurali e multe. E, giacché c´era, pretese di giudicare lui i preti che si erano macchiati di delitti comuni (si registrano in quegli anni almeno un centinaio di assassinii commessi da prelati, cui non era seguito alcun processo e alcuna condanna). L´arcivescovo gli dichiarò guerra, facendosi dar man forte dal Papa. Come se non bastasse, a complicare le cose ci si erano messi anche i tedeschi, che pretendevano la corona di Sacro romano imperatore per uno dei loro.
A re Enrico non deve essere garbato molto il passo del Policratico in cui si dice che il sovrano “non dovrà ritenere suoi né i beni che amministra in nome di altri, né disporre a proprio piacimento dei proventi del fisco in quanto sono anch´essi denari pubblici”. Meno ancora la parte, poi diventata molto famosa, in cui per la prima volta nell´Europa medievale, si afferma che neanche il sovrano è al di sopra della legge, si traccia una distinzione tra principe e tiranno, e si autorizza il popolo ad abbattere e anche ammazzare i tiranni.
“Fra principe e tiranno c´è una sola ma fondamentale differenza. Il principe obbedisce alla legge e governa secondo il proprio giudizio quel popolo di cui si ritiene servitore. Rivendica inoltre la direzione dello Stato, in nome delle legge, tanto per ciò che riguarda i pubblici doveri quanto per gli oneri connessi. Se è superiore agli altri lo è perché i privati si occupano solo di cose private mentre il principe si sobbarca quelle di tutti”. Enrico fece orecchie da mercante. Il suo successore fu costretto a concedere la Magna Charta.
Siegmund Ginzberg per “la Repubblica” 2 gennaio 2012