domenica 29 gennaio 2012

 Mi è capitata tra le mani una pagina del Corriere della Sera del 11 settembre 2011, in occasione del decennale degli attentati negli usa.
E' sempre interessante mettere a confronto le opinioni dell'epoca di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani; gli americani ora, dieci anni dopo, stanno lasciando l'Afghanistan.....chissà cosa succederà. Le loro posizioni sembravano l'opposto l'una dell'altra, ma forse invece erano complementari....chissà.
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2001-2011
Il giro di boa della storia
Oggi un piccolo gruppo di terroristi può mettere  in difficoltà una grande potenza
Claudio Magris

Goethe, assistendo alla battaglia di Valmy, disse che in quel giorno stava nascendo una nuova storia. Tutti possono ripetere questa frase dopo l’11 Settembre, che ha cambiato il mondo, i meccanismi e le strategie per dominarlo ossia la politica e quella sua continuazione con altri mezzi che, secondo Clausewitz, è la guerra. Sull’11 Settembre — sul suo choc, sulle sue vittime, sullo sgomento e sul furore per quella strage, sull’ammirazione per il modo in cui è stata vissuta e affrontata dai cittadini americani, sugli inquietanti dubbi destati da alcuni suoi aspetti tecnicamente sconcertanti—è stato detto tutto, a cominciare dagli articoli apparsi allora sul Corriere e oggi ripubblicati nel decennale di quella smisurata sciagura.

Non è solo l’ecatombe delittuosa di esseri umani che ha scosso il mondo. Stragi infami sono state e vengono perpetrate di continuo, in varie forme e con diverse tecniche; si muore—o meglio si viene uccisi — anche nel Biafra o nella Cambogia di Pol Pot, anche con l’isocianato di metile profuso criminosamente a Bhopal o con le collettivizzazioni forzate del «grande balzo» maoista. Non sono soltanto l’orrore per l’eccidio e la pietà per le vittime ad aver sconvolto il mondo in quell’11 Settembre. Nemmeno quella pietà a senso unico che si rivolge a quelle vittime che si sentono simili per cultura e identità sociale o etnica, perché si teme di poter essere un giorno colpiti da quella stessa violenza, pietà che invece spesso sonnecchia dinanzi alla violenza abbattutasi su genti geograficamente, culturalmente, socialmente ed etnicamente lontane, perché ci si illude che quel loro destino non potrà mai riguardarci.
L’11 Settembre ha costretto a percepire concretamente, fisicamente, che la distruzione può colpire le nostre case, la nostra vita quotidiana; ha sgretolato ogni sicurezza. Ha trasformato il meccanismo della guerra, questa madre di tutte le cose, come la chiama Eraclito, che ci sforziamo sinora invano di disinnescare e che rinasce in sempre nuove forme.
L’11 Settembre ha dato sanguinosa e conclusiva evidenza a quella radicale trasformazione della guerra che già qualche anno prima i due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui avevano analizzato nel loro capolavoro Guerra senza limiti. La guerra non si vince e non si perde più ad Austerlitz, a Stalingrado o a Okinawa, ma con tutt’altri mezzi e in tutt’altre forme.
Il plurisecolare rapporto di forza tra il potere statale organizzato e le forze eversive (resistenti, rivoluzionarie, terroristiche, a seconda dei casi) appare profondamente alterato e si assiste ad un paradossale ritorno a quel rapporto di forza che vigeva in tempi remoti. In una tribù primitiva, il capo e il suo gruppo dominante disponevano degli stessi mezzi tecnici degli sparuti ribelli, clave, frecce, lance. Il progresso tecnologico, che ha coinvolto sempre più l’arte militare e i suoi strumenti, ha creato un insormontabile, crescente divario tra il potere ufficiale e organizzato e chi lo contesta dal basso. Fra il popolo che tumultua per le strade tirando sassi o anche qualche fucilata e la truppa dotata di mitragliatrici, aeroplani e carri armati lo scontro ha un esito scontato.
Questo divario è cresciuto, grazie alla tecnologia, fino a pochi anni fa, sinché proprio il progresso tecnologico e informatico lo ha paradossalmente ridotto: oggi un piccolo gruppo di terroristi tecnicamente agguerriti è in grado non soltanto di provocare singole stragi, ma di mettere in difficoltà una grande potenza. L’11 Settembre ha fatto toccare con mano, con stupefatto sbigottimento, ciò che credevamo impossibile, perché siamo tutti istintivamente ciechi conservatori, incapaci di immaginare che le cose così come siamo abituati a viverle possano mutare. Al vecchio incubo della Terza guerra mondiale fra i due colossi, l’America e l’Urss, si sostituisce la terrificante scoperta che un gruppo di terroristi possa colpire al cuore la più grande potenza del mondo.
Da allora la guerra è cambiata, è un’altra cosa, che non viene più nemmeno chiamata per nome; la si fa, a differenza che in passato, senza neppure dichiararla, talora senza neanche sapere bene a chi la si fa. Quella in Afghanistan —che anche a me, in quel momento, sembrava orribile come ogni guerra ma inevitabile— dura assurdamente da dieci anni (il doppio della Seconda guerra mondiale) senza essere né vinta né persa. È nato pure un rapporto inversamente proporzionale tra le azioni di forza e le proteste che esse suscitano. Subito dopo la carneficina dell’11 Settembre la reazione del governo americano è ferma ma misurata, si preoccupa di distinguere il terrorismo islamico dall’Islam in generale e questo atteggiamento scatena virulente manifestazioni di protesta antiamericana, mette in moto l’antiamericanismo più convenzionale e più becero. Quando, più tardi, il Segretario della Difesa Rumsfeld proclama che ogni musulmano morto— non ogni terrorista, ma ogni musulmano— è un bene, le proteste sono più tenui. Non è solo stanchezza dell’antiamericanismo troppe volte messo in piazza e sfiatato; è un meccanismo evidentemente universale, che vede la protesta scemare quanto più il fenomeno contro cui si protesta dilaga. Si contesta più fortemente Benedetto XVI quando disapprova il matrimonio omosessuale che i governi e i tribunali dei Paesi in cui agli omosessuali è inflitta la pena della decapitazione.
Dopo l’11 Settembre il mondo traballa ancor più di prima e traballa pure la logica che lo ha regolato; si alterano equilibri politici, si confondono i rapporti di forza, vacillano le gerarchie —giuste o inique— che dominano la nostra esistenza, diventano più incerti o scompaiono i progetti del futuro, del futuro di tutti noi. In questo senso l’11 Settembre è un giro di boa della storia, dopo il quale sappiamo ancor meno di prima cosa ci attende. Chi, morto o sopravvissuto, ha patito direttamente, sulla sua pelle, quell’11 Settembre è stato anche la cavia di un orribile esperimento di un nuovo ordine ossia disordine del mondo.

Corriere della Sera 11 settembre 2011

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Il mondo non si può dividere tra chi sta con noi e chi contro
di Tiziano Terzani - 11/09/2011

Fonte: Corriere della Sera


Il «contraccolpo» dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam.

Secondo Chalmers Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l'analisi di Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L'occasione per uscirne è ora.

Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche — tutti lo sanno — sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo Paese è legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da lì nei Paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

È per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica — combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington — finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del Paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l'America così particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.

L'aver diviso il mondo in maniera — mi pare — «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana — anche a colpi di sputo — alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici — me ne rendo conto — è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?

Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che già studiano l'inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro Paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco.

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Oriana Fallaci
Non capite che qui è in atto  una Crociata alla rovescia
L’America ci ha insegnato la libertà e l’uguaglianza.  La Jihad vuole annientare i nostri valori

Il fatto è che l’America è un Paese speciale, caro mio. Un Paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell’anima, il bisogno d’avere una patria, e dall’idea più sublime che l’Uomo abbia mai concepito: l’idea della Libertà, anzi della libertà sposata all’idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l’idea di libertà non era di moda. L’idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l’Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell’Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l’Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani- gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un Paese speciale, un Paese da invidiare, inoltre, perché quell’idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s’eran letti Aristotele e Platone, che in latino s’eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l’eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero).
Jefferson conosceva anche l’italiano. (Lui diceva «toscano »). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d’un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all’autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all’Inghilterra. Fecero la guerra d’indipendenza, la Rivoluzione Americana. Be’... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell’anima, il bisogno d’avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all’uguaglianza.
La Dichiarazione d’Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v’è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell’America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d’esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Be’, secondo me l’America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d’Inghilterra sembra chic.
Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c’è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l’America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell’Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po’ e gli dia una mano.
Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano bene- agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci.
Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo!

Estratto da «La rabbia e l'orgoglio», pubblicato sul Corriere della Sera il 29 settembre 2001