L'ascolto di una melodia è l'attività che coinvolge il più esteso insieme di cellule cerebrali.
Il piacere estetico non dipende dal valore del brano, ma da chi lo sente. Così Bach e un tango in due persone diverse possono provocare la stessa emozione.
Se non avessimo i cervelli che abbiamo, la musica sarebbe una sequenza di suoni, e spesso una cacofonia. Il cervello elabora alcune vibrazioni dell’aria in modo che le reti nervose della corteccia cerebrale della coscienza le percepiscano non come suoni informativi, ma come esperienza estetica
La musica è un prodotto del cervello. Il libro di Philip Ball, L’istinto musicale, è un resoconto di quel che avviene nel cervello quando si ascolta e si fa musica, senza la pretesa di spiegare che cosa la musica sia. La musica, come tutti gli eventi della coscienza, si descrive senza poterla spiegare. Essa è un suono che desideriamo sentire perché - come tutte le esperienze estetiche - influenza il nostro stato d’animo.
L’affermazione di un compositore, per il quale la musica è ciò che lui (cioè il suo cervello) sente essere tale, è meno ovvia di quel che sembra. Per Nietzsche varrebbe la pena di vivere solo per lei. Capire la musica (un concetto controverso) significa provare lo stato d’animo che il compositore e chi la suona provano e intendono comunicare. Melodie tristi possono esser piacevoli, senza che il contrasto provochi meraviglia: elegiaci e tragici, motteggiava Cartesio, riscuotono
quanto più lacrime ci fanno piangere.
Nel cervello non è stato individuato un centro circoscritto della percezione musicale, analogo ai centri del linguaggio. L’ascoltare e il fare musica coinvolge miliardi di neuroni sparsi in quasi tutto il cervello: sono attivi, oltre alle aree corticali della sensibilità acustica, della coscienza e del movimento, il cervelletto, che presiede al ritmo dei movimenti, e il corpo calloso, che coordina l’attività dei due emisferi. Tenendo conto del coinvolgimento dei centri della memoria e dell’affettività, non si conosce altra attività del cervello con un ensemble tanto vasto di neuroni e sinapsi. Grazie alla plasticità, che permane tutta la vita, il cervello di chi si applica intensamente alla musica diviene un organo particolare.
Leggendo spartiti, musicisti esperti possono ascoltare nella loro mente una composizione anche lunga e complicata, col vantaggio, ironizzano alcuni, di non incorrere nei difetti di un’esecuzione reale.
La metà anteriore del corpo calloso, la grande struttura nel mezzo del cervello che unisce i due emisferi, è più ampia nei musicisti, ancor più ampia se hanno cominciato a esercitarsi prima dei sette anni. Nei pianisti, già poche settimane dopo le prime esercitazioni, la corteccia uditiva ha un collegamento stabile con l’area motoria della mano, che le sta sopra. Se un pianista sente musica al pianoforte, senza suonarla, nel suo cervello si attiva non solo l’area uditiva, ma anche quella motoria delle mani, che però non si muovono.
Se chi ascolta non è un pianista, questo non succede. Ci si meraviglia che un solista suoni una sinfonia o molti brani senza spartito. Oltre alla memoria semantica, qui agiscono i meccanismi della memoria del movimento. Chi suona uno strumento ad archi, modula il tono delle corde con le quattro dita lunghe della mano sinistra. Le risonanze magnetiche funzionali mostrano che le aree motorie di queste dita sono più vaste (talora di cinque volte) di quelle della
mano destra (che deve provvedere al movimento più semplice dell’archetto) e di quella delle mani dei non suonatori.
Come esempio dell’intensità emotiva che l’esperienza musicale può raggiungere, Philip Ball riporta la testimonianza di un giovane che aveva ascoltato la Decima sinfonia di Mahler: «Non ho mai sentito un accordo (nel primo movimento, ndr) che spezzi il cuore in quella maniera. Mio fratello e io eravamo pieni di un orrore primitivo, quasi preistorico. Non riuscivamo a dir parola. Sbarravamo gli occhi verso la grande finestra nera e ci sembrava di vedere in faccia la morte che ci fissava da fuori». Ball si chiede se i compositori intendano esplicitamente spaventare gli ascoltatori (nel caso di Mahler, pensa forse di sì) e perché essi si prestino con devozione e spesso con entusiasmo allo strapazzo.
Il piacere estetico non dipende dal valore musicale, ma dal cervello di chi ascolta: Bach e un tango strimpellato in un pub possono provocare, in cervelli diversi, la stessa emozione. Alla musica come prodotto inevitabile dell'intelligenza è dedicato il libro di Paolo Temi, il respiro della musica. «Si prova sgomento - scrive - quando s’intuisca nella musica un altrove, un dire misterioso, visionario - anche profetico - capace di rivelazioni intorno a realtà fondamentali ove ci sentiamo comunque implicati, ma che non riusciamo a pensare e possedere compiutamente».
Saggiamente Terni sconsiglia l’ostinazione di rincorrere definizioni, «laddove la sostanza musicale e le modalità dell’ascolto, anche sornione, si guarderanno bene dal farsi accerchiare e, intonse, sfuggenti proseguiranno imperterrite il loro inesorabile cammino...».
Il libro della Oxford University Press Music, Motor control and the Brain, è una raccolta di saggi su quel che l’attività musicale comporta per il cervello, negli aspetti fisiologici e normali, nelle a volte impressionanti «malattie musicali» (come la distonia del dito mignolo nei pianisti) e nell’ansia di cui sono preda solisti e orchestrali, anche provetti, davanti al pubblico. Essa può diventare tanto forte da indurli a rinunciare a suonare. Il sapersi paragonati alle esecuzioni di regola impeccabili (perché corrette fino alla perfezione) di cd e dvd avrebbe enormemente accentuato la sofferenza ansiosa dei musicisti.
Philip Ball, L'istinto musical. Come e perchè abbiamo la musica dentro, Dedalo, Bari, pagg. 508, € 22
Paolo Terni, Il respiro della Musica, Bompiani, Milano, pagg. 154, € 11,90
Di Arnaldo Benini
Sole 24 ore 24 12 2011