di Tito Boeri
Da VENERDI l’Italia fa parte della lista ristretta di paesi le cui politiche sono soggette alle verifiche trimestrali del Fondo Monetario Internazionale. I primi a trovarci in queste condizioni senza avere ricevuto un solo euro d’aiuto dal Fondo, senza che sia stata aperta una linea di credito per noi. Questa scelta, impostaci dal G20, offre una misura della gravità della crisi di credibilità che colpisce oggi il nostro Paese e, al tempo stesso, della grande preoccupazione con cui tutto il mondo ci guarda. Si tratta di una richiesta pressante, senza precedenti, di azione prima che sia troppo tardi.Sbaglieremmo a non coglierla in tutta la sua portata perché ci dice che dobbiamo contare sulle nostre forze. Non possiamo aspettarci altri aiuti esterni oltre a quelli tutt’altro che irrilevanti ricevuti sin qui dalla Bce, che ha, da inizio agosto, acquistato Btp per un ammontare pari a quasi il 5 per cento dello stock di titoli di stato in circolazione. Senza questi acquisti il rendimento dei titoli sarebbe salito molto al di sopra del 6,4 per cento raggiunto nei giorni scorsi, portandoci a livelli in cui bisogna accorciare la durata del debito di nuova emissione per evitare di pagare a lungo interessi troppo alti, una strategia molto rischiosa perché ci rende più vulnerabili agli umori dei mercati.
La crisi di credibilità si è aggravata perché il nostro governo non ha fatto nessuna delle cose che ci venivano richieste dai mercati. Non ha voluto toccare le pensioni di anzianità accelerando il passaggio al metodo contributivo, non ha cercato di rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale abbassando la soglia sull’uso del contante per permettere la tracciabilità delle transazioni e attuando controlli incrociati sui patrimoni degli italiani per accertare redditi non dichiarati. Non ha varato alcuna riforma volta a sostenere la crescita e a rendere meno dipendente dai capitali esteri la nostra economia (metà del debito pubblico è detenuta da investitori esteri e il saldo negli scambi commerciali con l’estero è sempre più negativo) rafforzandone la competitività.
Oltre a prendere e perdere tempo per sei mesi, il governo si è impegnato su cose che non ci venivano affatto richieste, come il raggiungimento del pareggio di bilancio e molti dei provvedimenti indicati nella lettera di intenti consegnata alla Commissione Europea. Purtroppo anche questi impegni che abbiamo preso di nostra spontanea volontà non verranno rispettati. Il pareggio di bilancio nel 2013 è una chimera con una recessione alle porte e nessuna delle 40 scadenze su cui ci siamo impegnati nella lettera d’intenti (la prima è alla fine della prossima settimana) appare alla portata di un governo che non riesce neanche a scrivere il testo di un emenda-mento alla legge di stabilità.
Al punto in cui siamo non basterà un cambiamento di governo a invertire le aspettative dei mercati. È un passo necessario, fondamentale per riguadagnare fiducia, ma pur sempre non sufficiente. Deve perciò avvenire contemporaneamente a segnali forti sui provvedimenti che verranno varati una volta risolta la crisi di governo, quale che sia l’agenda politica prospettata, un governo del Presidente o elezioni anticipate. Per questo oggi nessuno nell’attuale “maggioranza” e opposizione può sottrarsi al compito di dire quali sono i due tre provvedimenti chiave che intende varare subito per allontanare il nostro Paese dal baratro. Non pecchiamo di ingenuità, ignorando come i politici siano maestri nell’evitare di scontentare qualcuno prima di avere le leve in mano.
Il fatto è che oggi sono sempre più numerosi gli italiani che sono disposti ad accordare fiducia a chi dimostra di avere una qualche strategia credibile d’uscita dalla crisi, per quanto costosa questa strategia possa apparire. I due e tre provvedimenti chiave devono servire a riguadagnare immediatamente credibilità. Per questo devono essere visibili, bisogna evitare lo stillicidio di micro-misure cui ci ha abituato questo governo, ma anche gli interminabili programmi elettorali del centro-sinistra. Non importa se questi provvedimenti non avranno effetti immediati sulla crescita. Quello che conta è che, una volta materializzatisi, questi effetti durino nel corso del tempo. Devono servire a dimostrare che il governo che verrà è in grado di vincere quelle resistenze contro cui si sono arenati non soltanto il quarto governo Berlusconi ma anche gli altri esecutivi che si sono succeduti in Italia negli ultimi 15 anni. Per questo stesso motivo i provvedimenti una tantum, per quanto draconiani, non sono utili. Patrimoniali straordinarie, acquisti forzosi di titoli di stato, finirebbero solo per dare il segnale di un Paese allo sbando, che non è più in grado di garantire un governo ordinario della spesa pubblica, senza peraltro riuscire a ridurre in modo apprezzabile il nostro debito pubblico. Sarebbero un segnale di disperazione più che di forza, esattamente il contrario di quanto richiesto per invertire le aspettative.
Sembra invece ragionevole partire proprio da quelle riforme che i mercati da tempo ci chiedono.
Il superamento delle pensioni d’anzianità con il passaggio a pensioni di vecchiaia raggiungibili anche a partire dai 61 anni di età, ma graduate sulla base delle regole del metodo contributivo, permetterà tra l’altro a chi lavora più a lungo di accedere a prestazioni più alte di prima, ricostruendo quei patrimoni che sono stati erosi dalla crisi.
Ci sono poi le liberalizzazioni dei settori dei servizi e delle professioni, che non solo rendono le nostre imprese più competitive (oggi pagano molto di più dei loro concorrenti per servizi spesso di qualità inferiore), ma hanno anche l’effetto di impedire la creazione di quelle rendite che giustamente indignano molti cittadini che vivono con stipendi ai limiti della povertà e con potere d’acquisto eroso dall’inflazione.
E ancora le riforme della transizione da scuola a lavoro, che creano flessibilità nell’ingresso nel mercato del lavoro, già depositate alla Camera e al Senato con primi firmatari ex sindacalisti di punta della Cgil e della Cisl. Devono essere interventi ad ampio spettro, che armonizzano i trattamenti, anzichè creare nuovi regimi ad hoc, riforme visibili in quanto eque.
Molti tra le file dell’attuale opposizione credono che l’unico modo di ridurre le disuguaglianze consista nel ricorrere a nuove tasse, studiate ad hoc per colpire le posizioni che ci appaiono inaccettabili. In realtà è spesso più facile essere equi quando si lascia che sia la concorrenza a erodere le posizioni di rendita e quando si sradicano i privilegi riducendo le asimmetrie nei trasferimenti di denaro pubblico. Anche perché sappiamo a chi i soldi verranno tolti, ma non che uso verrà fatto dei proventi delle tasse. Si sono visti troppi falsi Robin Hood in giro negli ultimi tempi.
Da La Repubblica del 07/11/2011.