lunedì 29 novembre 2010

Tahar Djaout L’ULTIMA ESTATE DELLA RAGIONE

Testo dell’intervento di Vincenzo Cottinelli il 26 novembre 2010
nella galleria “La Stanza Delle Biciclette”
per la presentazione del libro
L’ULTIMA ESTATE DELLA RAGIONE
di Tahar Djaout ed BiblioFabbrica
www.bibliofabbrica.com

Tahar Djaout, nel giugno 1993,  è stato il primo di centinaia e centinaia di intellettuali e artisti assassinati dagli integralisti islamici algerini. Il suo libro postumo,  bellissimo e tremendo, è ancora - dopo tanti anni - come un sasso appena gettato nello stagno di questa nostra epoca difficile e confusa, oscillante fra buonismo e razzismo, senza la bussola della ragione, tanto necessaria nel momento in cui tutto il mondo si trasforma profondamente, in cui milioni di esseri umani migrano, in cui i confini degli stati spariscono o si moltiplicano, in cui le lingue si mescolano o i dialetti diventano lingue, le economie impazziscono, la povertà e le violenze dilagano, le ricchezze insultano.
Al centro del libro, il problema della religione che uccide la ragione.


La prima domanda che Ryszard Kapuscinski si sentiva fare in tanti paesi del terzo mondo era: Tu credi in Dio? Lui intuiva che ci si aspettava una sola risposta, pena il disprezzo, l’ostilità.
La sua diagnosi era lucida: Tre sono i flagelli che  minacciano il mondo. Primo, la piaga del nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in una mente contagiata da uno di questi tre mali.
Incidentalmente, poiché il libro di Djaout ci riguarda tutti, si deve dire che anche l’Italia è affetta in qualche modo da queste piaghe, con l’aggravante del bossi-berlusconismo, che aggiunge egoismo consumistico, localismo, rifiuto della legalità, familismo amorale, disprezzo della memoria storica e dell’informazione; con le peculiarità del conflitto d’interessi del premier e dell’ingerenza dell’autorità religiosa cattolica nella vita politica e sociale del Paese. Le menti degli italiani che vogliono questo stato di cose sono insieme contagiate e complici.
La storia del libraio Boualem, raccontata da Tahar Djaout, ci mostra un fanatismo che proibisce ogni lettura che non sia dell’unico libro, quello sacro. Distrugge le librerie. Minaccia e uccide librai, scrittori, studiosi, lettori, perché ogni parola o pensiero diversi da quelli del libro sacro sono per definizione proibiti, perversi, cattivi, satanici. E’ una specificità estrema di un islam algerino che Djaout ha conosciuto fino alla morte, lui assassinato perché ateo, giornalista e scrittore. Potrebbe a tratti sembrare un racconto di fantapolitica alla Orwell, oppure storia di un lontano passato e invece, purtroppo, è assoluto realismo presente: basta leggere le cronache dall’Iran di questi anni e di questi giorni, dove l’adultera va lapidata per farle sentire le pene dell’inferno, i pasdaran tormentano o arrestano le donne per un ciuffo di capelli, un rossetto, l’amicizia con un uomo o massacrano chiunque manifesti dissenso; chi (pur non islamico) mangia un panino in casa durante le ore del digiuno di ramadan, viene arrestato (Algeria, oggi).
Nel nome di dio. Certo non tutti gli islam sono così, non sempre e non dovunque.
In compenso, gruppi di fanatici cristiani negli Stati Uniti ammazzano i medici abortisti; in qualche stato dell’Unione è allo studio la repressione legale della masturbazione; ronde integraliste negli ospedali italiani assillano le donne che scelgono l’aborto o le famiglie di ammalati terminali; il fanatismo biblico dei coloni israeliani motiva l’occupazione violenta e illegale, ma ben finanziata, di terra palestinese; qua e là si proibisce Darwin.
Il libro di Djaout dimostra che la religione, già aborrita dal comunismo come oppio dei popoli perché addormentava e distraeva dalla lotta di classe, oggi è in realtà più esattamente cocaina dei popoli, che eccita alla violenza più estrema ed è l’innesco (quando non il combustibile) di quasi tutte le guerre contemporanee.
Quella che incombe nel libro di Djaout è una religione gretta, del corpo, dell’esteriorità, di asservimento e non di liberazione dell’anima: non c’è spazio per il  pensiero. Fanatismo ignoranza superstizione disprezzo per le donne sessuofobia omofobia nazionalismo localismo. Culto della morte.  Non c’è più spazio per la luce solare mediterranea della città sdraiata in riva al mare (che potrebbe essere Algeri, o Orano o Costantina, così amate, nello stesso spirito, da Albert Camus) vista come corpo di donna felice, disponibile all’amore: c’è solo il buio del chador che cancella la bellezza insieme alla libertà della donna. Stupenda metafora di illuminismo cancellato da oscurantismo.

Che ne facciamo di questo libro, dopo averlo amato, soffrendo nella lettura (ve ne accorgerete)? Che strumenti abbiamo per affrontare l’enormità delle questioni che la morte e la testimonianza di Djaout sollevano? Io credo che una prima risposta ce la dà lui stesso per bocca del suo libraio Boualem. Eccoli, gli strumenti: la ragione illuminata, la scienza, la conoscenza, i diritti dell’uomo. Universali perché essenziali. Universali ma riconosciuti o calpestati qua e là a pelle di leopardo.
Quanti di noi si ricordano l’internazionalismo come strumento di diffusione e rivendicazione dei diritti universali dell’uomo? E l’idea di essere tutti cittadini del mondo titolari di diritti inalienabili (alla vita – all’uguaglianza – alla pace – alla giustizia sociale – alla libertà di pensiero e di espressione ecc.) come di doveri inderogabili,  dov’è finita? E la solidarietà attiva con i popoli vittime di violenza, di apartheid,  di oppressione integralista dentro i singoli paesi?
La cosa più impressionante del romanzo è che il libraio Boualem è solo con i suoi libri, dedicati alla ragione illuminata, che lo dovrebbero salvare, mentre fuori monta la marea bestiale dell’intolleranza che lo distruggerà. E’ solo e ha paura di parlare, anche al suo più vecchio amico. Perciò si costringe al silenzio.
E’ qui che dobbiamo cercare un’ipotesi di risposta.

Il libro di Tahar Djaout è carico di una forza metaforica enorme: descrive un islam concreto (anche se non lo nomina mai) ma vale per tutti i fanatismi e tutti i fascismi. Ci obbliga a una stretta verifica dei nostri atteggiamenti in materia di diritti fondamentali.
Il diritto di praticare la religione come esercizio della libertà dell’individuo non può soffrire limitazioni, lo sappiamo bene (e lo stesso vale per il diritto all’agnosticismo o all’ateismo, sia ben chiaro).
Ma è accettabile che la libertà di espressione e di critica debba cedere di fronte al prestigio autoreferenziale di una cultura o di una religione, maggioritaria o minoritaria, indigena o immigrata che sia?
No evidentemente: la critica non è critica se non è libera di attaccare qualunque prestigio (bene o male, con ragione o infondatamente, lo dirà la risposta alla critica, il dibattito ad armi pari, pacificamente). E invece, quasi in parallelo con le condanne anche capitali per blasfemia o apostasia, praticate nei regimi della sharia (dove le galere sono piene di carcerati per reati di opinione contro la religione) si assiste nei paesi laici a violenza, minaccia, censura contro ogni manifestazione di pensiero non gradito a una religione, ancorché critico dei soli aspetti disumani, oppressivi, anacronistici attribuibili a quella religione e quella cultura. E’ un paradossale ribaltamento di valori anche giuridici, ma è raro sentirlo denunciare, anzi talvolta gli autori delle opere critiche sono severamente additati dagli stessi democratici e laici come “intolleranti, spregiatori delle diversità culturali”.
Eppure gli esempi per cui indignarsi non mancano: assassini o fatwa contro gli autori di opere cinematografiche, figurative, letterarie, giornalistiche; blocco di rappresentazioni teatrali con minaccia di distruzione del teatro; roghi di libri. Queste interdizioni, più spesso di provenienza islamica, sono le più potenti, tanto che portano talora all’autocensura (auto-fatwa) giacchè purtroppo si sa che  “ [nella] lotta per la fede [..]si dà la morte o la si accoglie con un distacco terrificante” (Djaout, pag.92).
Per essere esaurienti: non mancano interdizioni di diverso segno, meno pericolose ma non meno paralizzanti; accuse di antisemitismo (a chi critica la politica spietata del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese) di anticlericalismo, se si parla di orrori sessuali o scandali finanziari interni alla chiesa cattolica; lobbysmo scatenato contro tentativi di legiferare in modo laico su scuola, matrimonio, aborto, eutanasia, eliminazione di simboli religiosi mono confessionali (crocifissi, chador).
Il timore di essere identificati col leghismo, da noi, col lepenismo in Francia, con neonazismi di vario conio in Germania e Inghilterra, forse spiega la timidità delle nostre analisi al riguardo, che potrebbero invece rafforzarsi se si avesse il coraggio di dire, con Christopher Hitchens, che la religione spinge persone intelligenti a fare sciocchezze o, con  Bernard Henry-Lévy, che “il mondo arabo musulmano ha un fascismo tanto più pericoloso in quanto non è mai stato riconosciuto come tale”. Ma mentre Henry-Lévy vede possibile una futura liberazione dal fascismo negli stati islamici laicizzati, Salman Rushdie si dichiara “sconfitto” e rassegnato a che la maggioranza silenziosa dei cosiddetti mussulmani comuni sia più pronta ad attaccare vignettisti e romanzieri “che a condannare, emarginare ed espellere gli assassini fascisti presenti fra loro”. E’ vero che elezioni democratiche danno il potere ai pasdaran o al F.I.S. o al dittatore iraniano, o speriamo di no, per l’Egitto, ai fratelli musulmani: ma il broglio, prima che nei seggi, è nelle coscienze degli elettori e viene dai pulpiti dei predicatori o dalle tv  martellanti a senso unico. Anche questo è un insegnamento del libraio Boualem. Aggiungiamo pure che alle coscienze smarrite non giova la vergognosa corruzione del potere civile e laico in tanti paesi, islamici e non. Ma nemmeno la casta sacerdotale è più quell’esempio di integrità e austerità da contrapporre al satana interno o straniero, se è vero, come si dice, che spesso è complice sottobanco del regime politico.
L’Occidente ha grandi responsabilità politiche nella crescita dell'integralismo e soprattutto del terrorismo, avendo usato e sostenuto strumentalmente forze integraliste, e poi infliggendo arbitrarie e atroci guerre imperialiste. Ma, anche senza contare le spaventose stragi interne alle diverse correnti religiose, rimane incontestabile (vedi il flusso di testimonianze disperate dei democratici in tutto il bacino islamico da marocco a pakistan) che l'islam come teocrazia infligge a tutto il proprio popolo, credente o meno, privazioni della libertà, anacronistiche regole, violenze, repressioni, che non rispondono a nessuna logica politica interna o internazionale, ma solo all'oppressione della gente in nome di dio e ottengono il risultato assurdo di indebolire e avvilire ulteriormente ogni potenziale di sviluppo umano, intellettuale, sociale, economico, e aumentano la subordinazione di quei paesi al sistema capitalistico mondiale. Agli emigrati aderenti alla comunità rende la vita ancora più dura e lontana da ogni già difficile integrazione. 
Perciò dobbiamo operare con tutti i mezzi di informazione, persuasione, pressione perché, in tutti i paesi del mondo, sia posto almeno un freno al peggio: il caso Sakineh forse è un piccolo successo di questa mobilitazione.

Per quanto riguarda il noi e il qui, teniamo ben presente che l’identità Stato-Religione, legge divina e legge statale, è una realtà o un progetto forte in quasi tutti i paesi islamici, ma serpeggia in tante religioni, da quella cristiana cattolica a quella ebraica, come idea ispiratrice della incessante  pressione perché le leggi dello stato siano subordinate ai precetti della religione. Ma se usiamo la ragione dobbiamo dirlo alto e forte (anche rischiando di dispiacere a schematici buonismi): la teocrazia non è un dato culturale identitario da garantire: è una scelta politica delle elite dominanti, delle caste di interpreti dei libri sacri, delle gerarchie ecclesiastiche, che usano questo strumento per mantenere un potere assoluto su uomini e donne e per conservare succosi privilegi materiali. Chi nega i diritti dell’uomo non è un religioso e non merita rispetto; il credente si lega liberamente alla religione, ma non è un suddito delle caste sacerdotali: se decide di non legarsi o di slegarsi lo fa da cittadino sovrano. Se è vero che la nostra democrazia non è esportabile con le guerre, è anche vero che la teocrazia non è importabile nemmeno come bagaglio a mano e, là dove imperversa, le sue vittime vanno aiutate a liberarsi. Gli immigrati sono qui per atroce necessità e sono anche una risorsa: perciò è doveroso e interesse di tutti dare cittadinanza nello stato di diritto, che deve garantire la pacifica convivenza di tutte le sue componenti. Con due avvertenze: che il cittadino non può contemporaneamente soggiacere ad un ordinamento parallelo, i cui principi siano opposti a quelli dello stato, tanto più se universali e inalienabili; che nessun governo, nessun legislatore può tradire il suo Paese, i suoi cittadini, per assecondare questa o quella chiesa.