giovedì 17 luglio 2008

Guerre climatiche - Il cataclisma è anche sociale

Guerre climatiche
II cataclisma è anche sociale
di Alessandro Melazzini
nova24 il sole 24 ore 26 giugno 2008

Le catastrofi naturali accrescono i conflitti per il controllo delle risorse. Per questo, secondo Welzer, bisogna ripensare le fonti di alimentazione dell'umanità.


Tempeste, inondazioni, siccità, incendi e maremoti. Sono solo alcune tra le numerose catastrofi accadute sulla Terra negli ultimi dieci anni, a cui ora si aggiungono le sventure in Cina e Birmania. Ma l'uomo si dimentica presto dei disastri naturali di cui non ha avuto esperienza diretta, e persine una tragedia annunciata come l'inondazione di New Orleans si va perdendo nella nebulosa dei ricordi. È bene invece non dimenticare che numerosi di questi disastri dipendono dal cambiamento climatico subito dalla Terra per effetto dell'azione umana, come dimostra anche la climatologa Cynthia Rosenzweig in un recente saggio sulla rivista «Nature», dove ha esaminato 29.000 casi di mutazioni dell'ecosistema avvenute tra il 1970 e il 2005. Ma lungi dall'essere confinabile al mondo della natura, ogni catastrofe ambientale porta sempre con sé notevoli ripercussioni sociali. E, nella maggior parte dei casi, si tratta di conseguenze minacciose per l'uomo.
Ecco perché secondo Harald Welzer, professore di psicologia sociale all'Università di Witten/Herdecke.per capire il nostro futuro è ormai assolutamente necessario imparare a leggere i cambiamenti climatici soprattutto dal punto di vista sociale e culturale. Perché, come afferma nel suo ultimo libro pubblicato in Germania, prossimamente non si combatterà più solamente per motivi economici, ideologici o etnici, ma anche e soprattutto per fattori ambientali (Klimakriege. Wofìlr im 2i.Jahrhwdertgetotetwird,Guerre climatìche. Per cosa si ucciderà nel 2is secolo, Fischer 2008, Francoforte sul Meno, pagg. 336, € 19,90).
L'inaridimento del suolo e le estreme siccità africane, ad esempio, oltre a provocare esodi verso quelle società abbienti storicamente responsabili di buona parte delle emissioni ecologicamente nocive, con le conseguenti tensioni e derive xenofobe nei Paesi di arrivo che anche l'Italia sta sperimentando, favoriscono l'insorgere di conflitti locali per l'accaparramento e lo sfruttamento economico delle risorse sempre più limitate aumentano l'asimmetria tra paesi disastrati e Occidente benestante, e accrescono inoltre quel senso d'ingiustizia delle popolazioni svantaggiate da cui il fanatismo trae alimento. A sua volta il pericolo terrorista diventa la scusa per l'aumento indiscriminato delle misure di controllo e sorveglianza sul cittadino da parte dei governi di casa nostra.
I cambiamenti climatici e la corsa alle risorse non solo provocano nuove ragioni di tensione a livello internazionale - dello scorso agosto è la notizia di una spedizione polare russa per piantare una propria bandiera sui fondali dell'Artico - bensì producono negli Stati più deboli anche nuove forme di "guerra permanente". È il caso del Darfur, in cui le parti combattenti non hanno alcun interesse a cessare le ostilità a causa dei benefici economici ricavati dal commercio di armi, materie prime, ostaggi e aiuti internazionali.
Proprio il Sudan, una terra in cui il 70% della popolazione vive di agricoltura o allevamento, secondo lo studioso tedesco è il paradigma di come i cambiamenti climatici influiscano direttamente sull'origine dei conflitti. Nei primi anni Ottanta del Secolo scorso in quella zona del mondo una siccità devastante, oltre a causare migrazioni di profughi, inasprì i conflitti tra i contadini sedentari di etnia africana e le popolazioni arabe di allevatori nomadi, dando vita a una guerra civile percepita come etnica benché motivata soprattutto da ragioni climatiche.
La mancata percezione del fattore ecologico sugli equilibri sociali, e il conseguente disinteresse di molti cittadini in merito al problema, è spiegabile con lo sfasamento temporale in cui si trova chi dovrebbe agire ora per porre rimedio a un danno risalente ai decenni passati, la cui effettiva soluzione potrà forse avere luogo solamente dopo la nostra morte. A questo si aggiunge O fatto che molti giovani oggi sotto valutano il pericolo anche perché non hanno esperienza dei cambiamenti nell'ecosistema avvenuti prima della loro nascita, come illustra l'esempio di quei pescatori della California che, a differenza dei loro nonni, percepiscono l'attuale situazione di povertà ittica come normale anziché riconoscere in essa una grave conseguenza della sparizione di molti pesci per via dell'inquinamento. Ma una maggiore consapevolezza delle implicazioni sociali dei danni ambientali, benché necessaria, non è sufficiente. Senza un cambio radicale di mentalità che favorisca a vari gradi il coinvolgimento di Stati, comunità e singoli cittadini essa, anziché permettere di affrontare in modo risolutivo il problema dell'inquinamento, induce a continuare nelle nostre sconsiderate abitudini di sempre, tutt'al più gravati da cattiva coscienza. Quello che occorre davvero, secondo Welzer, è un profondo ripensamento riguardo alle fonti di alimentazione della nostra società. Chiedersi ad esempio se è meglio una centrale a carbone o una nucleare significa aggirarsi in un vicolo cieco: entrambe si basano sull'utilizzo di risorse inquinanti e limitate. Quando esse finiranno, ci saremo scavati una fossa talmente profonda da non poterne più uscire.
alessandro@imelazzini.corn