mercoledì 14 dicembre 2011

Mangiare o non mangiare il cane

 Mangiare o non mangiare il cane: la Cina si divide, tra residui di colonialismo dietetico e voglia di sicurezza culturale
Piccole storie (non solo) cinesi solo
di GIAMPAOLO VISETTI


I cinesi hanno un dubbio: i cani si possono continuare a mangiare, oppure è meglio rassegnarsi a tenerseli vivi, per non sentirsi soli? In Cina, quando si parla di carne, non si scherza. Qui poi entra in gioco la tradizione, perfino la cultura, e la questione diventa di stato. Inutile fare gli impressionabili: in Asia i cani sono sempre stati cibo, e una cucina ritmata dalle carestie ha appreso il rispetto delle proteine. Per i turisti prigionieri delle fotografie, l'attrazione è irresistibile.

Posano un piede in Oriente e si scatenano a ritrarre la gente nei mercati, impegnata con gli spiedi di cicale, larve, scorpioni, cavallucci marini, oppure pipistrelli. I cinesi non hanno mai potuto fare selezione e mangiano tutto.
Pensare che una vecchia con la bocca piena di rospi vivi rappresenti l'alimentazione nazionale contemporanea, è però come credere che i russi superino l'inverno saziandosi di orsi e caviale. La stranezza è un prodotto e se c'è qualcosa da vendere Pechino è in testa. L'Occidente, convinto che sangue di maiale e lumache siano una prelibatezza, preferisce ignorare che anche la Cina è ormai sulla via della banalità gastronomica.
Pretende l'ebbrezza dell'eccentricità e simulare orrore davanti a tranci di cane appesi in macelleria contribuisce a risarcire il costo dell'agenzia. La condanna è unanime, ma le comitive implorano le guide di rivelare gli indirizzi dell'inaudito alimentare.
Per dire: a Pechino spopola un ristorante che serve il pene di ogni razza vivente. Gli stranieri vogliono ripartire convinti che la medicina tradizionale cinese abbia scoperto il segreto dell'eternità. Vano insinuare il dubbio che pure i cinesi, se possono scegliere, optano per la chimica.
Le gare a chi ingurgita il sesso maschile della bestia più assurda, tra i gruppi organizzati, risultano terrificanti. Ci si butta sulla zuppa di pene di serpente, sull'organo bollito dell'asino, su quello fritto del toro, o su uno di scimmia ridotto a polpetta. Si scarica il flash, qualcuno vomita, chi resiste è certo di avere così assolto il dovere di carpire dall'interno il mistero dell'Asia. Per api glassate, bachi saltati, scarafaggi in carpione e gatto in umido, la legge della proteina non cambia: la fame li ha scaraventati nella dieta, ma oggi la coda si fa per un hamburger.
Il problema è il cane. In alcune regioni piace e resta una specialità. Non rischia l'estinzione, garantisce reddito ed è protagonista di festival gastronomici millenari.
Non si può negare però che il vento sia girato. Per il Partito comunista non è più un capriccio del capitalismo e andare a spasso con il proprio setter non espone a pubblici pentimenti. Le organizzazioni animaliste conoscono così un successo senza precedenti. Nel Guangxi hanno fermato un carico di 800 cani da carne e non hanno incontrato difficoltà a racimolare 10mila euro per acquistarli ed evitare loro una padella. 500 gli animali da cucina bloccati e comprati in autostrada tra Harbin e Pechino.
Il governo, scosso dalle proteste della classe media metropolitana, per la prima volta ha vietato il più importante concorso nazionale di ricette a base di cane. L'Occidente, dove le macellerie equine sono considerate salutari poco meno del trancio di uno struzzo, esibisce stupore per la barbarie degli orientali mangiatori di cane.
Spiace dirlo, ma il tema richiederebbe una riflessione addirittura tra i non vegetariani e fra gli allergici a ogni misura di pelo.
È questione di cane, o di insuperabile arroganza culturale? Amiamo gli animali che dormono sul letto, o siamo afflitti da rigurgiti di colonialismo dietetico?
Un giornale di Shanghai, dove è stato scongiurato in extremis l'obbligo di "cane unico", ha raccontato il dramma di un'ignara signora che ha pasteggiato con il proprio chihuahua, servitole con verdure dai vicini, convinti di onorare entrambi. Poche storie hanno generato una spaccatura nazionale tanto perifericamente allargata. La Cina urbana ha concluso che si è trattato di "un atto disgustoso di ignoranza". Quella rurale ha opposto che è stato esercitato "il sacro dovere della tradizione". Il potere? Disorientato. Sarà un caso, ma l'ultimo comitato centrale del partito ha selezionato l'obiettivo del prossimo quinquennio: la "sicurezza culturale" del popolo. Per semplicità: chiarirsi le idee. Dal divieto di cane al permesso di pensiero il passo è breve: e non è questione di menù.

da repubblica delle donne, 12 novembre 2011