«Io sono un viandante, diceva. Zarathustra al suo cuore. .Infine non si vive se non con se stessi»
Uscendo dalla stazione di Mestre per avviarmi verso il garage dove tengo la macchina, mi sono trovato di fronte a qualcosa a dir poco inconsueta. Due ragazze, in compagnia di un asinelio, camminavano tranquillamente, assolutamente incuranti di quanto le circondava. Erano di circa venti anni e se ne andavano semplicemente in giro per l'Italia, in compagnia del loro fidato amico, a piedi, per conoscere città, luoghi, persone, cose. Guardarle nei loro occhi è stato per me un nuovo respiro. C'era qualcosa di biblico in loro, nei loro occhi sorpresi del mio sorprendermi, nel loro abbigliamento di pantaloni di tela, scarponcini adatti a chi deve molto camminare, giubbotti dotati di strisce rifrangenti per essere visibili al buio. Avevano disposto due zaini sulla schiena del loro asinelio, si erano munite di bastoni utili per il loro cammino, ed erano semplicemente andate. Sono stato totalmente preso dalla bellezza della situazione. Cosa c'è, mi sono chiesto, nel cuore di due ventenni che se ne vanno in cerca di briciole di verità, a modo loro, incuranti della fitta ottusità che ci circonda, della sgangheratezza di questo mondo che ci bombarda di "valori" demenziali? Mi sono sentito commosso e pieno di gioia. Fabio Lombardo fabiano.lombardo@fastwebnet.it
Risponde Umberto Galimberti:
Tutti noi viaggiamo, ma, a differenza di quelle due ragazze, non siamo "viandanti", ma semplici "viaggiatori" diretti in un Luogo, che non sanno nulla dei paesaggi che li separano dalla meta, puri interluoghi tra una partenza e un arrivo. Camminando senza una meta all'orizzonte per non perdere le figure del paesaggio, le due ragazze spingono avanti i suoi passi, ma non con l'intenzione di trovare qualcosa: la casa, la patria, l'amore, la verità, la salvezza, ma unicamente i doni del paesaggio, che solo il viandante e in grado di percepire, perché sa che è il paesaggio stesso la meta, basta guardarlo, sentirlo, accoglierlo nell'assenza spaesante del suo senza-confine. Facendola uscire dall'abituale e quindi dalle sue abitudini, caro Fabio, le due ragazze con il loro asinelio l'hanno esposta aH"'insolito", dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stende su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l'iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, la macchina fa tecnica, in quella rapida sequenza con cui si succedono le esperienze del mondo che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto orientato, il nomade sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l'abbraccio totale è follia. Ma per noi, che a differenza del viandante, "viaggiamo", che ne è dell'intervallo tra l'inizio e la fine? Che ne è del cammino per chi vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per "arrivare", non per "conoscere". Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l'Io stesso fissato sulla meta e cieco all'esperienza che la via dispiega al viandante che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. L'escatologia religiosa e la progettualità laica inaugurano un viaggiatore che tratta i luoghi che incontra come luoghi di transito, tappe che lo avvicinano alla meta. Per lui i luoghi diventano "interluoghi" in attesa di quel Luogo che è la meta stessa, la patria ritrovata, la vita realizzata, la stabilità raggiunta. Inutilmente la via ha istituito viandanti, le nostre orecchie sono sorde alle loro voci e a quelle dei luoghi, le sirene della "meta" e del "ritorno" hanno cancellato ogni stupore, ogni meravìglia, ogni dolore. L'attesa del Regno ha ridotto la via a "interregno", terra di nessuno prima delle cose ultime, anche se in quella terra di nessuno trascorre poi la nostra vita, che non è una corsa verso la meta, ma uno spazio concesso all'umano come sua terra che non è patria, ma semplice via, che si muove tra le macerie dei templi crollati e nel silenzio degli oracoli e delle profezie.
da la repubblica delle donne 25 settembre 2010