sabato 26 settembre 2009

bauman: se la crisi passa

I centri commerciali sono stati appositamente ridisegnati con l'obiettivo di irretire e sedurre gli "acquirenti accidentali", i "compratori impulsivi": coloro che dopo essere entrati in un negozio per acquistare, diciamo, una nuova pentola con cui sostituirne una vecchia, o semplicemente per fare due passi e ammirare i colori sgargianti della merce esposta, attratti magari dalla musica e da aromi inebrianti, finivano improvvisamente per soccombere di fronte a qualcosa di cui sino a quel momento non immaginavano nemmeno di aver bisogno. E la compravano.

Siamo usciti dalla recessione? E se non ne siamo ancora usciti, manca molto?
Uomini e donne, giovani e anziani se lo domandano ogni giorno -nei Paesi ricchi come in quelli poveri. In realtà le risposte non mancano: a darcele sono gli economisti (che dovrebbero intendersene, non vi pare?), i politici del governo e dell'opposizione, e altri oracoli ufficiali - o che tali si definiscono.
Peccato che con la recente batosta ancora ben impressa nella memoria, siamo ormai consapevoli che le previsioni possono dimostrarsi tanto esatte quanto erronee, e che la linea che separa la fiducia dalla credulità è molto sottile, e non ce modo di sapere in anticipo dove conduce. Non c'è da sorprendersi allora se siamo diventati cauti. "I consumatori", ripetono i giornali, "si dimostrano riluttanti a spendere".
Prima della crisi, per esempio, negli Stati Uniti le spese dei consumatori ammontavano al 70 per cento dell'attività economica complessiva (un dato che si basa sulla quantità di denaro che passa di mano). La quantità di denaro che passava dalle mani dei consumatori a quelle dei rivenditori era quindi enorme; per questo, se anche solo una piccola percentuale di consumatori si rifiuta di spendere il denaro guadagnato - o che spera di guadagnare -, tale comportamento avrà ripercussioni immediate sulle statistiche della "condizione economica", scatenando un nuovo senso di panico, o facendo apparire ancora più remota la possibilità dì emergere dalla situazione causata dalla precedente ondata di panico.
I rivenditori si lamentano in particolare del fatto che i consumatori abbiano perso l'abitudine (acquisita con il tempo) a "comprare di impulso", sulla quale i teorici e gli esperti del marketing facevano il massimo affidamento. I centri commerciali sono stati appositamente ridisegnati con l'obiettivo di irretire e sedurre gli "acquirenti accidentali", i "compratori impulsivi": coloro che dopo essere entrati in un negozio per acquistare, diciamo, una nuova pentola con cui sostituirne una vecchia, o semplicemente per fare due passi e ammirare i colori sgargianti della merce esposta, attratti magari dalla musica e da aromi inebrianti, finivano improvvisamente per soccombere di fronte a qualcosa di cui sino a quel momento non immaginavano nemmeno di aver bisogno. E la compravano. Oggi invece, come spiega rammaricato Pat Bennett, commesso della catena di grandi magazzini Macy's, i clienti arrivano nel negozio annunciando di aver bisogno di "un paio di mutande", dopo di che le comprano e se ne vanno. Non capita più molto spesso di vedere qualcuno che, intento a cercare altro, si innamora di una camicia e decide di comprarla.
Quello di sostituire nei consumatori la vecchia abitudine a comprare qualcosa solo per soddisfare una necessità o placare un desiderio con la tendenza ad acquistare di impulso, sulla scia di un capriccio e in maniera inconsulta, rappresenta di fatto il maggior successo mai messo a segno dell'economia del consumismo dilagante.
È la trovata che ha fatto da volano alla sua espansione. La scomparsa di tale abitudine si tradurrebbe per quella economia in un cataclisma assoluto. Gli acquisti motivati dalla necessità sono - naturalmente - limitati; quelli che nascono dal desiderio richiedono una prolungata, complessa e costosa opera di convincimento/addestramento/persuasione... ma quando si compra per capriccio non esistono limiti. Per lo meno cosi ci sembrava, quando abitavamo in un mondo illusorio dove il credito a disposizione si dilatava inesauribilmente e gli indici dei mercati azionari apparivano in perpetua crescita. Quando cioè, ci sentivamo più ricchi di quanto il nostro reddito lo consentisse, ed eravamo convinti che la pacchia sarebbe andata avanti per sempre.
Un mondo in cui evitavamo la resa dei conti per perseverare in una strategia ispirata al motto "godi adesso, paga dopo"; Be', quel "dopo", il giorno della resa dei conti, alla fine è arrivato. Deve essere stato uno shock. E gli shock causano traumi i cui effetti si protraggono nel tempo più a lungo delle cause che li hanno provocati. La profondità e la durata di un trauma non sono uguali per tutti coloro che lo subiscono. Oggi la maggior parte di noi si dimostra reticente a riprendere quell'incauto comportamento, a spendere denaro che non abbiamo guadagnato.
Ma per tornare alla domanda di quanto a lungo dovremmo attenerci alle sgradevoli limitazioni con cui il destino ha posto fine alla nostra baldoria consumistica, le opinioni sono discordi. In Inghilterra ad esempio, i londinesi sono tre volte più inclini a ritenere che l'economia si stia "aggiustando" e che nel corso del prossimo anno migliorerà, rispetto agli abitanti della zona industriale delle Midlands. Una discrepanza che non stupisce, se si considera che ci è voluto del tempo prima che la recessione si riversasse dalle banche della City alle fabbriche delle Midlands, e che - analogamente - ci vorrà più tempo per allontanarla dalle case degli operai disoccupati di quanto ne sarà necessario per risollevare i dividendi bancari, generosamente sovvenzionati, e i ricavi delle industrie che si rivolgono a un pubblico di ricchi.
Un'altra discrepanza è quella che si coglie tra il modo in cui vecchie e giovani generazioni percepiscono la situazione attuale. Un ultrasessantacinquenne su quattro ritiene che l'economia migliorerà entro il prossimo anno; un'aspettativa che tra coloro che di anni ne hanno trenta è condivisa solo da una persona su venti. Non c'è da sorprendersi: spesso chi ha superato i 65 anni è al di fuori del mercato del lavoro. I più giovani vedono di fronte a sé un futuro costellato da umiliazioni e privazioni, fatto di esclusione, disoccupazione, ristrettezze imposte da lunghi periodi di inattività e interminabili file davanti alle agenzie d'impiego.
Sperano invano che il corso degli eventi si capovolga e permetta loro di riprendere il passo. I più giovani tra i giovani si trovano inoltre ad affrontare per la prima volta il mondo del lavoro. Nulla, nella loro gioventù - trascorsa relativamente serena nel Paese della prosperità - li aveva preparati a questo mercato così inospitale. A chi di anni ne ha anche solo due o tre in più, il mercato era sembrato accessibile, benevolo, ricco di opportunità. Diverso da quello di oggi, dove le offerte sono rare e i rifiuti frequenti; un mercato abituato a dettare le proprie condizioni, avaro di privilegi e prodigo di crudeltà, il cui mutevole andamento distribuisce sciagure con letale equanimità. Le carte si mescolano di continuo, e nessuno può dire come andrà la prossima mano. Se solo riuscissimo a trarre da queste esperienze una lezione capace di illuminarci più in là della prossima capatina al centro commerciale, e più in profondità... Forse riusciremmo a evitare che situazioni simili si ripresentino a noi e ai nostri figli. (Traduzione di Marzia Porta)
Zygmunt Bauman, la repubblica delle donne, 19 SETTEMBRE 2009