sabato 26 settembre 2009

Auschwitz: moon boot nell’indicibile

Da Carpi ai lager, un treno di studenti italiani disorientati: «Troppo da ricordare»

Lo chiamano viaggio della memoria, questo che stiamo per fare, e alla stazione di Carpi è tutto un chiedere di ricordare.
Le madri inseguono i figli con gli ultimi promemoria, gli accompagnatori chiedono ai ragazzi se si sono ricordati la coperta per il viaggio. Quando arrivo sono tutti pronti, guanti e cappelli indosso quasi fossimo già in Polonia.

Passo davanti a due ragazzi che mi fanno notare che stanno facendo un'intervista.
Mi scuso. «Cosa ti aspetti da Auschwitz?», chiedono puntando una videocamera su un ragazzo. «La verità», risponde lui. Un suo compagno, pasticciandosi le mani imbarazzato, aggiunge «E però anche un po' di sofferenza».
Poi si fa avanti una ragazza, l'espressione seria: «È un dolore troppo grande perché si possa dire qualcosa. Entrare ad Auschwitz è un'esperienza sconvolgente». I suoi compagni dicono che è vero. Annuiscono, precisano, parlano di «Indicibile».
Dopo aver ascoltato le loro risposte chiedo se ci sono già stati, ad Auschwitz. Mi dicono di no. «E come fate a dire che è sconvolgente?», chiedo. «È la Storia».
Così poi partiamo, dodici vagoni (siamo oltre seicento tra ragazzi e adulti) e ventidue ore davanti. Il viaggio è un andirivieni di ragazzi sul treno, sembra la partenza di una gita.
A dieci minuti dal via sfilano le pizzette, qualcuno si lamenta dei compagni di scompartimento. Lo sparuto gruppo di pensionati presenti si ritira come una tartaruga nello scompartimento. Un ragazzo agguanta la filodiffusione, dice stupidaggini che sentiamo per tutto il treno. E il viaggio se ne va tutto via così, il treno che prima esplode di grida, poi finisce dentro improvvisi laghi di silenzio. Fuori passa l'Austria, e noi le passiamo in mezzo. Poi ci svegliamo con la brina ceca e un attimo dopo è già Polonia.
A Cracovia il treno si ferma, e poco dopo è rimasto vuoto sul binario. Una ragazza mi chiede «Ci andiamo subito, al campo?». Al campo di sterminio di Birkenau ci entriamo senza parlare. I pullman che ci hanno trasportato fin lì sono fermi all'ingresso, spenti. Entriamo così, guardinghi, passiamo sotto la porta del campo e qualcuno si volta indietro, guarda gli altri che sono ancora fuori.
Ci dividono in gruppi, ognuno la sua guida, e il cartello con sopra scritto il numero del pullman, I ragazzi si guardano intorno e non trovano appigli, cercano di far corrispondere quell'erba e quel fango di inizio gennaio con l'indicibile che sta scritto sopra i libri.
Cercano di trovare in quell'erba la Storiar, a follia criminale, il male assoluto, quel baratro del Novecento di cui tutti gli parliamo, di cui provo a dirgli anch'io, senza però trovare parole della giusta taglia. Si voltano di continuo come se avessero perso qualcosa, irrequieti. Hanno in faccia uno smarrimento a metà, la speranza di chi si aspetta che la verità si accenda come un cerino all'improvviso, e insieme la delusione di chi continua a non trovarla. Li guardo, con i loro diciott'anni, schivare le pozzanghere, aggiustarsi il cappello in testa, fare fotografie col telefonino. Ma tutt'intorno a loro ci sono solo erba e fango, erba e fango fin quasi dove si può vedere.
C'è un po' di vento, e ci sono queste povere baracche di mattoni, qualche baracca di legno, qualche camino che dalla terra viene su, mucchi di neve, una manciata di piccoli laghi ghiacciati
Tutt'intorno al campo c'è il filò spinato, c'è il monumento di commemorazione, e in fondo alla strada c'è la torretta che hanno visto sul libro di storia.
Hanno preso alla lettera le indicazioni della Fondazione Fossoli (vestirsi come ci si veste per sciare) e così si aggirano per il campo con i Moon Boot, sembrano paperi teneri e goffi che cercano una strada.
La guida che ci accompagna per il campo di Birkenau ha un amplificatore appeso al collo e un microfono che la fa disperare. Se lo aggiusta, continua a ripetere «Si sente? Si sente?». I ragazzi lo rassicurano, si sente benissimo. Ce n'è uno che mi sta sempre accanto, non mi molla mai. «Tutti dicono che non dobbiamo dimenticare», mi dice. «Ma cos'è che non dobbiamo dimenticare, visto che non lo ricordiamo?». Poi la sera e il gelo arrivano all'improvviso sul campo di Birkenau. Auschwitz II, tecnicamente. Il freddo arrossa le facce, fa notte la vediamo arrivare da lontano.
Oltre il campo si accende tutto, si accende la città che gli sta intorno, i lampioni sulla strada, le finestre sulle facciate delle case. Intorno c'è una città, ed è strano constatarlo. Arrivando in pullman abbiamo visto delle persone, lungo la strada, si sono voltate a guardarci. Dentro quel buio così freddo, poi, abbiamo preso parte alle cerimonie per la Giornata della memoria. Mi sono sentito a disagio, da italiano. Mi è venuto da guardare da un'altra parte, quando è arrivato un gruppo di ex deportati, ognuno con la sua candela da poggiare in terra. Uno tremava, l'ha rovesciata in terra, l'ha ritirata su.
Una ragazza mi ha detto che per lei la Giornata della memoria è una cosa strana, una cosa come mettersi un promemoria sul telefonino. «Forse abbiamo troppe cose da ricordare», mi ha detto. Poi ha aggiunto «Scusa, ho detto una stupidaggine». Le ho sorriso. Me lo ha detto con il viso già tutto dentro quell'aria così scura. Il buio poi ha preso da sotto i ragazzi, gli è salito su dai piedi, lungo le gambe, li ha presi in faccia. Li guardo e mi sembra che stiano annegando, dentro questa notte, in mezzo alla Polonia, i doposcì dentro il fango di un campo di sterminio.
Per tutto il giorno molti di loro mi hanno detto che si sentono in colpa perché non riescono a provare emozioni forti. Mi hanno chiesto se è grave, se li considero superficiali. Mi è venuto da pensare a come sia difficile ricordare i ricordi degli altri, usare un'altra memoria, trasferire l'orrore. Me l'hanno chiesto con una strana angoscia in faccia, guardando l'erba e il fango, quelle carcasse della storia. Gli ho detto di no, che non sono superficiali. Me l'ha chiesto anche la ragazza che prima di partire diceva che entrare ad Auschwitz è sconvolgente. Dopo un po' l'ho vista piangere, poco più in là, dentro il buio. Le ho chiesto cosa succedeva. Mi ha detto «Non lo so».E fuori dal campo c'è una piazzola. Qualcuno ci fa manovra, ci ferma anche l'autobus.

Andrea Bajani, Sole 24 ore, 1 febbraio 2009