mercoledì 1 giugno 2011

Il potere della scuola

Bastano 3 anni di istruzione in più per innescare un balzo qualitativo nella condizione femminile
La Cina che scende da 1,3 miliardi a 940 milioni di abitanti, la Nigeria che balza a 740 milioni: sono alcune delle cifre da capogiro contenute nelle nuove proiezioni dell'Onu sulla popolazione mondiale alla fine del secolo. Gli stessi esperti demografici delle Nazioni Unite invitano alla cautela nel maneggiare quelle cifre, perché nell'arco degli 89 anni che ci separano dal 2100 possono intervenire dei cambiamenti significativi. Quelle proiezioni però servono a "visualizzare" le conseguenze dell'esplosione demografica in quelle aree del mondo che non riescono a governare la natalità. È in Africa e soprattutto nell'area subsahariana che si concentrerà il massimo incremento della popolazione, se proseguono le tendenze attuali; mentre l'Asia avrà un andamento molto più moderato (e perfino una denatalità consistente, quella cinese). Quello che m'interessa di più è isolare il fattore veramente decisivo, che fa la differenza tra i popoli che riescono a decidere la procreazione che desiderano e quelli che la subiscono come una "fatalità".

Non è solo il boicottaggio politico-religioso degli anticoncezionali a spiegare il boom irrefrenabile della popolazione africana. Almeno altrettanto importante, è io status sociale delle danne. Poligamia, donne-bambine e quindi maternità precoci sono alcune delle piaghe che colpiscono le società africane: mentre il 75% delle donne nordamericane usano contraccettivi, la percentuale crolla al 7% nell'Africa centrale. Ma lo status sociale della popolazione femminile non viene deciso in modo determinante dalla politica o dalla religione. È la scuola, la chiave di volta del cambiamento. In tutti quei paesi dove la donna ha accesso a livelli di istruzione più eleva-
ti, ecco che il suo potere migliora nella famiglia e nella società, e immediatamente cala il numero delle nascite. È successo in nazioni dalle culture e dai regimi politici profondamente diversi come Messico, Thailandia e Sri Lanka, Iran e Bangladesh. È possibile, dunque, anche in una teocrazia islamica come quella di Teheran. Nella stessa Cina, l'applicazione della legge del figlio unico fu violenta e tuttora è repressiva nelle campagne, ma nel ceto medio urbano le giovani madri hanno consapevolmente introiettato il desiderio di famiglie più piccole. Dunque la regola universale è questa, valida in tutte le latitudini e in tutte le civiltà: dove le donne studiano, diventano molto più capaci di padroneggiare una scelta fondamentale come quella di avere figli, quando, e quanti. Questa constatazione può ispirare speranza, e ci induce a trame delle conseguenze individuali. Perché speranza? Perché è meraviglioso il potere che ha la cultura di emancipare. È fantastico che bastino tre o cinque anni di scolarità in più per innescare un balzo qualitativo nella condizione femminile. Lo hanno capito perfettamente anche i più pericolosi reazionari: i talebani quando ripresero il potere in Afghanistan, come prima cosa vietarono alle ragazze di andare a scuola. Una ragazza che sa leggere e scrivere è il più formidabile ostacolo alla regressione barbarica che vorrebbero instaurare col terrore. La speranza viene anche dal fatto che diffondere l'istruzione femminile nei paesi più poveri è una politica relativamente facile, meno costosa di tanti altri interventi umanitari, che si può operare "dal basso" con iniziative della società civile e delle organizzazioni non governative. Ciascuno di noi può contribuirvi senza essere Bill Gates.
Ammirare il potere liberatorio della scuola deve anche spingerci a trarne tutte le conseguenze. Sul piano politico: opporsi ai tagli nella spesa per l'istruzione è un dovere civile. Sul piano etico: nei valori che trasmettiamo ai nostri figli, mettiamoci il rispetto per l'insegnamento e per chi insegna. Un po' di "confucianesimo", o di "fìnlandizzazione", non guasterebbe nel nostro sistema dì valori. Mi riferisco al fatto che i paesi dell'Estremo Oriente e dell'Europa nordica sono quelli che pagano di più i prof, e li trattano col rispetto che si addice a una professione di rango, dal forte prestigio sociale. Cominciando fra le pareti di casa, alle nostre figlie e ai nostri figli trasmettiamo l'idea che saremmo orgogliosi di loro se scegliessero l'insegnamento. E anche questo è uno di quei cambiamenti dal basso che si possono operare, una testa alla volta, senza aspettare i governi.
di Federico Rampini, D la repubblica delel donne, 28 maggio 2011