Le anime belle e pure, i perfezionisti della morale, gli aristocratici dell'etica, stiano in guardia un antico pamphlet si aggira nuovamente per l'Italia: La leggenda del grande inquisitore. A osservare cosa è accaduto di recente in questo Paese si dovrebbe concludere che Feodor Dostoevskij, arruolato di imperio a destra, è il nuovo nemico dell'algida sinistra italiana.
E pensare che il debito di riconoscenza che il Novecento ha pagato nei riguardi dello scrittore russo, è stato incassato con ben altre intenzioni: rimarcando i temi più forti quali la malattia e l'angoscia, il potere e la libertà, la fede e l'ateismo, il crimine e la colpa. E invece l'apologo che Dostevskij scrisse, come uno dei capitoli centrali dei Fratelli Karamazov, è diventato un manuale di pronto impiego ideologico. Ma qual è la storia della vicenda - narrata da Ivan Karamazov al fratello Aliosha - e ambientata nella Spagna secentesca?
Su queste terre, dopo quindici secoli compare nuovamente il Cristo. Egli percorre le strade torride di Siviglia, tra la gente che gli chiede di compiere miracoli. Ridà la vista a un cieco, resuscita una bambina. La folla è tutta per lui. Anche un vecchio, ricoperto di un rozzo saio, lo osserva: è il Grande Inquisitore che riconosciutolo ordina alle guardie di arrestarlo. Prima di mandarlo al rogo vuole però interrogarlo. Ed ecco che un possibile dialogo si trasforma in un lungo monologo, nel quale l'inquisitore accusa Cristo di aver promesso all'uomo la libertà, mentre avrebbe dovuto garantirgli pane. Che se ne fa l'uomo - essere debole e abietto - della libertà? «Le uniche tre forze», sostiene l'inquisitore (che è poi l'Anticristo), «capaci di vincere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli al fine di renderli felici sono il miracolo, il mistero, l'autorità». Con esse, e non con la libertà, si governa il mondo. Ma tu - dice al Cristo -hai voluto che il mondo aspirasse alla perfezione e al sacrificio senza capire che pochissimi sono coloro capaci di riuscirci: «È forse colpa di tutti gli altri, dei deboli, se non sono stati in grado di sopportare quello che hanno sopportato i forti? L'anima debole ha forse colpa se non è in grado di accogliere in sé doni così tremendi? 0 forse sei venuto davvero soltanto per gli eletti?». È la parte essenziale del drammatico confronto notturno che si conclude con un enigmatico bacio di Cristo all'inquisitore.
Sulla Leggenda hanno scritto in molti: dal fondamentale commento di Vasilij Rozanov a quello di Luigi Pareyson che ne ha fatto un'esemplare riflessione teologica e filosofica sul bene e il male.
In realtà, la Leggenda offre numerosi spunti per una lettura anche politica. Come dimostrarono qualche anno fa Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari (rispettivamente in un libro apparso per Morcelliana e in un capitolo di Per l'alto mare aperto). Alla fine del 2010, poi, uscì per Salani una nuova traduzione della Leggenda (dovuta a Serena Vitale) con un commento di Gherardo Colombo. Qualche mese fa è apparso il libro del sociologo Franco Cassano (L'umiltà del male ed. Laterza), che reinterpreta il capolavoro di Dostoevskij come allegoria, di un'opposizione tra una élite che pontifica di morale e chiede rigore e la maggioranza degli uomini soggetta a debolezze e contraddizioni. Con quale parte schierarsi? Con la minoranza che desidera che tutti gli uomini siano liberi (come del resto predica il Cristo) o con la maggioranza che è fragile, impotente, e incapace - come argomenta il vecchio inquisitore - di usare la libertà, incapace cioè di scegliere? Stare dalla parte dei neopuritani, così ammalati di narcisimo etico da risultare inadatti a comprendere i bisogni delle masse o sposare la causa dei tantissimi peccatori? Se lo è chiesto Giuliano Ferrara sul Foglio, rilanciando (ed estremizzando) l'interpretazione di Cassano. Gli ha risposto su Repubblica Barbara Spinelli che ha visto nelle parole di Ferrara in difesa del grande inquisitore un elogio del potere berlusconiano.
«È interessante che un testo così complesso e suggestivo sia servito per spiegare la politica italiana di questi anni», osserva Carlo Galli, tra i massimi studiosi di teologia politica (un sul libro scritto con Piero Stefani Non nominare il nome di Dio invano sta uscendo per il mulino), «ma non me la sento di ridurre Berlusconi all'Anticristo dal volto benevolo. Egli è soltanto il pallido riflesso del grande inquisitore, come è soltanto un'eco il dibattito che si è aperto su quel testo il cui contenuto è una spietata analisi della nostra modernità. Cosa dice infatti, nel suo cinismo e disperazione l'inquisitore? Egli scommette che gli individui preferiscono la sicurezza alla libertà. Dice a Gesù: "Ti sei fatto uomo, ma gli uomini non possono sopportare la libertà che gli hai portato. Vogliono la felicità, quella che io solo posso dargli. Tu hai insegnato agli uomini a rischiare, ma loro amano l'agio e la sicurezza. Del resto, è nel nome della modernità che noi cerchiamo radici, valori, fondamenti. Ossia tutto ciò che ci rassicura. Per l'antimoderno Dostevskij la libertà rappresenta il rischio e la sicurezza implica la servitù».
In questa drastica oscillazione sembra muoversi il destino dell'uomo. Per l'antichista Luciano Canfora, il cuore della Leggenda è nell'idea della libertà, nelle contraddizioni che comporta ma anche nell'impossibilità di separarla dall'uomo: «Che mondo è quello in cui l'inquisitore dice: mi accollo io le scelte della gente, mi farò io carico dei suoi bisogni. Davvero è una società gesuitica e controriformista quella alla quale aspira la strumentalizzazione di Ferrara? È triste constatare che nel Novecento la libertà da valore centrale sia diventata la parola d'ordine della destra. La quale l'ha interpretata nel senso più banale, cioè come scatenamento dell'ego e potenza dell'Io. Alla critica tradizionale di chi sostiene che la libertà la praticano coloro che non ne sono degni e che quindi essa è un prodotto per pochi, oppongo l'insegnamento di John Dewey che disse che la libertà (e la democrazia) non è un'acquisizione stabile, ma il frutto dell'educazione permanente dell'individui. È questo che l'inquisitore non ammette, perché non ha fiducia nell'uomo».
La virtù e il fascino dei capolavori è di prestarsi a molteplici interpretazioni. Gherardo Colombo, ad esempio, ha colto nel grande inquisitore un suggeritore di stili, nella cui azione «si nasconde il concetto impersonale di mercato». Se l'uomo è incapace di scegliere, rinunci pure alla libertà e si affidi alla pubblicità, al messaggio televisivo, al godimento istintivo del qui e ora. Dietro l'interpretazione di Colombo, si avverte la pratica nichilista che, attraverso il discorso dostoevskijano, è stata messa bene in luce qualche anno fa da Sergio Givone in un suo saggio dedicato a Dostoevskij e la filosofia (editore Laterza). La soppressione della libertà, per Givone, non avverrebbe in cambio della felicità e del soddisfacimento dei bisogni, giacché proprio la sua rinuncia apre al carattere totalmente manipolabile dell'esistenza. Insomma, attenzione a coloro che ci vendono sogni a buon mercato.
Verrebbe da dire che ogni interpretazione fa risuonare i grandi problemi che il secolo che si è chiuso ci ha lasciato in eredità. Lo ha capito George Steiner quando, nel suo Tolstoj e Dostoevskij (ed. Garzanti), riferendosi alla Leggenda, scrive: «Essa prefigura con incredibile acutezza i regimi totalitari del ventesimo secolo, il controllo del pensiero, i poteri annichilenti e salvifici delle élite, l'estasi animalesca delle masse coinvolte nei riti musicali e coreografici di Norimberga e del Palazzo dello Sport di Mosca, l'uso della confessione, e la totale subordinazione della vita privata a quella pubblica».
Rilette oggi - all'ombra del populismo mediatico - quella frasi ci raccontano di un tempo che ha ridotto il linguaggio a slogan, la paura a vessillo, il futuro a una palla di cannone. Anche a questo in fondo servono i capolavori.
ANTONIO GNOLI
IL VENERDÌ 3 giugno 2011