giovedì 27 maggio 2010

Umberto Eco: noi contro la legge

Le norme sulle intercettazioni. Il controllo dei tg della tv pubblica. E prima il lodo Alfano, i tagli alla scuola... Berlusconi trasforma le istituzioni un passo dopo l'altro, con lentezza. Perché i cittadini assorbano i cambiamenti come naturali. Così al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato


È nota la definizione della democrazia come sistema pieno di difetti ma di cui non si è ancora trovato nulla di meglio. Da questa ragionevole assunzione discende, per la maggior parte della gente, la convinzione errata che la democrazia (il migliore o il meno peggio dei sistemi di governo) sia quello per cui la maggioranza ha sempre ragione. Nulla di più falso. La democrazia è il sistema per cui, visto che è difficile definire in termini qualitativi chi abbia più ragione degli altri, si ricorre a un sistema bassamente quantitativo, ma oggettivamente controllabile: in democrazia governa chi prende più consensi. E se qualcuno ritiene che la maggioranza abbia torto, peggio per lui: se ha accettato i principi democratici deve accettare che governi una maggioranza che si sbaglia.

Una delle funzioni delle opposizioni è quella di dimostrare alla maggioranza che si era sbagliata. E se non ce la fa? Allora abbiamo, oltre a una cattiva maggioranza, anche una cattiva opposizione. Quante volte la maggioranza può sbagliarsi? Per millenni la maggioranza degli uomini ha creduto che il sole girasse intorno alla terra (e, considerando le vaste aree poco alfabetizzate del mondo, e il fatto che sondaggi fatti nei paesi più avanzati hanno dimostrato che moltissimi occidentali ancora credono che il sole giri) ecco un bel caso in cui la maggioranza non solo si è sbagliata ma si sbaglia ancora. Le maggioranze si sono sbagliate a ritenere Beethoven inascoltabile o Picasso inguardabile, la maggioranza a Gerusalemme si è sbagliata a preferire Barabba a Gesù, la maggioranza degli americani sbaglia a credere che due uova con pancetta tutte le mattine e una bella bistecca a pasto siano garanzie di buona salute, la maggioranza si sbagliava a preferire gli orsi a Terenzio e (forse) si sbaglia ancora a preferire "La pupa e il secchione" a Sofocle. Per secoli la maggioranza della gente ha ritenuto che esistessero le streghe e che fosse giusto bruciarle, nel Seicento la maggioranza dei milanesi credeva che la peste fosse provocata dagli untori, l'enorme maggioranza degli occidentali, compreso Voltaire, riteneva legittima e naturale la schiavitù, la maggioranza degli europei credeva che fosse nobile e sacrosanto colonizzare l'Africa.


In politica Hitler non è andato al potere per un colpo di Stato ma è stato eletto dalla maggioranza, Mussolini ha instaurato la dittatura dopo l'assassinio di Matteotti ma prima godeva di una maggioranza parlamentare, anche se disprezzava quell'aula «sorda e grigia». Sarebbe ingiusto giocare di paradossi e dire dunque che la maggioranza è quella che sbaglia sempre, ma è certo che non sempre ha ragione. In politica l'appello alla volontà popolare ha soltanto valore legale ("Ho diritto a governare perché ho ricevuto più voti") ma non permette che da questo dato quantitativo si traggano conseguenze teoriche ed etiche ("Ho la maggioranza dei consensi e dunque sono il migliore").

In certe aree della Sicilia e della Campania i mafiosi e i camorristi hanno la maggioranza dei consensi ma sarebbe difficile concluderne che siano pertanto i migliori rappresentati di quelle nobilissime popolazioni. Recentemente leggevo un giornalista governativo (ma non era il solo ad usare quell'argomento) che, nell'ironizzare sul caso Santoro (bersaglio ormai felicemente bipartisan), diceva che costui aveva la curiosa persuasione che la maggioranza degli italiani si fosse piegata di buon grado a essere sodomizzata da Berlusconi. Ora non credo che Berlusconi abbia mai sodomizzato qualcuno, ma è certo che una consistente quantità di italiani consente con lui senza accorgersi che il loro beniamino sta lentamente erodendo le loro libertà. Erodere le libertà di un paese significa di solito mettere in atto un colpo di Stato e instaurare violentemente una dittatura. Se questo avviene, gli elettori se ne accorgono e, se pure non hanno la forza di zione di colpo di Stato che è con lui cambiata. Al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato. All'idea di una trasformazione delle strutture dello Stato attraverso l'azione violenta il genio di Berlusconi è stato ed è quello di attuarle con estrema lentezza, passettino per passettino, in modo estremamente lubrificato.
Pensate alla inutile violenza con cui il fascismo, per fare tacere la voce scomoda di Matteotti, ha dovuto farlo ammazzare. Cose da medioevo. Non sarebbe bastato pagargli una buona uscita megagalattica (e tra l'altro non con i soldi del governo ma con quelli dei cittadini che pagano il canone)? Mussolini era davvero uomo rozzissimo. Quando una trasformazione delle istituzioni del Paese avviene passo per passo, e cioè per dosi omeopatiche, è difficile dire che ciascuna, presa di per sé, prefiguri una dittatura - e infatti quando qualche cassandra lo fa viene sbertucciata. Il fatto è che per un nuovo populismo mediatico la stessa dittatura è un sistema antiquato che non serve a nulla. Si possono modificare le strutture dello Stato a proprio piacere e secondo il proprio interesse senza instaurare alcuna dittatura.

Si può dire che il lodo Alfano prefiguri una tirannia? Sciocchezze. E calmierare le intercettazioni attenta davvero alla libertà d'informazione? Ma suvvia, se qualcuno ha delitto lo sapranno tutti a giudizio avvenuto, e l'evitare di parlare in anticipo di delitti solo presunti rispetta se mai la privatezza di ciascuno di noi. Vi piacerebbe che andasse sui giornali la vostra conversazione con l'amante, così che lo venisse a sapere la vostra signora? No, certo. E se il prezzo da pagare è che non venga intercettata la conversazione di un potente corrotto o di un mafioso in servizio permanente effettivo, ebbene, la nostra privatezza avrà bene un prezzo. Vi pare nazifascismo ridurre i fondi per la scuola pubblica? Ma dobbiamo risparmiare tutti, e bisogna pur dare l'esempio a cominciare dalle spese collettive. E se questo consegna il paese alle scuole private? Non sarà la fine del mondo, ce ne sono delle buonissime. È stalinismo rendere inguardabili i telegiornali delle reti pubbliche? No, se mai le vecchie dittature facevano di tutto per rendere la radio affettuosissima. Ma se questo va a favore delle reti private? Beh, vi risulta che Stalin abbia mai favorito le televisioni private?

Ecco, la funzione dei colpi di Stato striscianti è che le modificazioni costituzionali non vengono quasi percepite, o sono avvertite come irrilevanti. E quando la loro somma avrà prodotto non la seconda ma la terza Repubblica, sarà troppo tardi. Non perché non si potrebbe tornare indietro, ma perché la maggioranza avrà assorbito i cambiamenti come naturali e si sarà, per così dire, mitridatizzata. Un nuovo Malaparte potrebbe scrivere un trattato superbo su questa nuova tecnica dello struscio di Stato. Anche perché di fronte a essa ogni protesta e ogni denuncia perde valore provocatorio e sembra che chi si lamenta dia corpo alle ombre.

Pessimismo globale, dunque? No, fiducia nell'azione benigna del tempo e della sua erosione continua. Una trasformazione delle istituzioni che procede a piccoli passi può non avere tempo per compiersi del tutto, a metà strada possono avvenire smandrappamenti, stanchezze, cadute di tensione, incidenti di percorso. È un poco come la barzelletta sulla differenza tra inferno tedesco e inferno italiano. In entrambi bagno nella benzina bollente al mattino, sedia elettrica a mezzogiorno, squartamento a sera. Salvo che nell'inferno italiano un giorno la benzina non arriva, un altro la centrale elettrica è in sciopero, un altro ancora il boia si è dato malato… Tagliare la testa al re o occupare il Palazzo d'Inverno è cosa che si fa in cinque minuti. Avvelenare qualcuno con piccole dosi d'arsenico nella minestra prende molto tempo, e nel frattempo chissà, vedrà chi vivrà. Per il momento, resistere, resistere, resistere.
(27 maggio 2010)da: l'espresso 27 maggio 2010

lunedì 24 maggio 2010

Un sublime farmaco preventivo

Sempre bellissimi i raccontini di Silvano Agosti, con il quale nel lontano 1980circa feci un film per rai3, "L'arca di Cioè".
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Ho deciso di andare io da lui, dopo aver cercato invano di incontrarlo "casualmente". Si chiama Massimo e, guarda caso, ha nel quartiere la fama di essere il "massimo" esperto nella gestione della tenerezza, della sessualità e dell'amore. Una leggenda metropolitana sussurra che Massimo abbia sperimentato un anno sabbatico durante il quale "si dice" avrebbe avuto un rapporto amoroso ogni notte con una donna diversa, tutte sposate, a dire della portinaia di viale Giulio Cesare che sa tutto su ciò che è accaduto, accade e accadrà nel quartiere. 365 amori consumati in un anno, col patto fatto con ogni donna
di vivere un solo incontro non dare seguito all'esperienza "Tu su questi temi hai fatto un film che mi ha sconvolto D'amore si vive. Meriti che io per la prima volta nella mia vita accetti di essere intervistato". "Io in genere non faccio domande, preferisco che l'intervistato scelga da dove iniziare". "Beh ti racconterò di un esperimento fatto 15 anni fa e che secondo me guarirebbe la depressione, la disistima in se stessi e forse chissà quante malattie". Lo guardo sorridendo. Quando mi trovo di fronte a qualcuno che ge stisce delle certezze mi sento lusingato e incuriosito. "Ho deciso di comune accordo con una donna intelligente di fare un'esperienza particolare. Ci siamo ritirati per due settimane in una casa isolata, chiudendo tutte le finestre in mo-do da isolarci in un buio completo. Ho chiesto ad un amico di venire a suonare il campa-
nello allo scadere della seconda settimana. Noi dovevamo solo mangiare il cibo messo in un frigorifero accanto al letto, dormire e fare l'amore. Dopo il terzo risveglio non sapeva mo più se era giorno o notte, se avevamo dormito un minuto o dieci ore, i baci che ci scambiavamo avevano ognuno una durata diversamente infinita e, perso ormai il conto dei risvegli, io ho cominciato "udire" il fruscio musicale delle mie carezze. Gli orgasmi erano altrettanti abissi, nei quali cadere con gioia, visto che gli abissi non hanno fondo e quindi non possono né ferire né uccidere. Poi d'improvviso, quando il buio è divenuto la nostra luce, quando i nostri gesti producevano sconosciute e inenarrabili emozioni abbiamo sentito il boato di un treno ultrarapido che passava su di noi e sul nostro letto. Era il suono del campanello. •
Silvano Agosti, Autore cinematografico, "il brescia" 24 maggio 2010

HP inventa il data center alimentato a mucche

Diecimila animali d'allevamento possono egregiamente sostituire i generatori diesel. Grazie al concime che producono.

[ZEUS News - www.zeusnews.com - 24-05-2010]


Cos'hanno in comune 10.000 animali d'allevamento e i generatori diesel? Il fatto che entrambi hanno la capacità di generare energia elettrica sufficiente per alimentare un data center da 1 megawatt.

I generatori diesel sono in effetti già utilizzati a questo scopo nei siti delle server farm di molte multinazionali del settore e soprattutto nei mercati asiatici, anche se la fonte di energia non è molto ecologica.

D'altra parte, 10.000 animali da pascolo producono in media 200.000 tonnellate di letame ogni anno, che possono essere trasformate in gas metano e infine in energia elettrica.

Greenpeace annualmente aggiorna la classifica dei produttori di tecnologia più verdi del mondo, cioè le aziende che più e meglio rispettano i criteri di impatto minimo e di rispetto del consumatore.

Una vera e propria lavagna ecologista con tanto di buoni (da una parte) e cattivi (dall'altra), dove la distinzione è sempre nell'aver fatto i compiti o meno, solo che in questo caso non si tratta di matematica quanto di utilizzo di materiali puliti, fornitori affidabili, energia pulita.

In questo panorama è recente la notizia per cui i ricercatori degli HP Labs intendono avvalersi della conversione del letame, prodotto da alcuni allevamenti, in gas metano da utilizzare poi per alimentare i data center dell'azienda. Questo è - spiegano i ricercatori stessi - lo scopo del progetto Green che è stato presentato a Phoenix, in Arizona (Usa), alla Conferenza Internazionale ASME per la Sostenibilità Energetica.

La problematica da cui si è partiti è questa: vi è un aumento nella richiesta della potenza di calcolo e dello spazio di memorizzazione nei data center che non è sostenuto da un eguale aumento di potenza energetica impiegata.

Obiettivo di HP è utilizzare processi sostenibili per costruire data center energeticamente autosufficienti, ossia la cui alimentazione provenga esclusivamente da fonti di energia sostenibili, utilizzando quindi processi a zero (o quasi) impatto ambientale.

Per quanto strano possa sembrare, è proprio qui che i capi di allevamento intervengono. Una sola mucca da latte produce mediamente 55 kg di letame al giorno, che si possono stimare in 20 tonnellate all'anno. Da questi dati (presenti nello studio condotto da HP) si evince come un singolo capo di allevamento produca un quantitativo giornaliero di letame convertibile in circa 3 chilowattora di energia elettrica (il che, da solo, potrebbe bastare per alimentare la Tv di circa tre famiglie su base giornaliera).

"È ovvio che la pratica di conversione energetica di cui si discute è già applicata da parecchie aziende esistenti. Alcuni già utilizzano il metano ottenuto per alimentare il proprio fabbisogno energetico per uso locale", ha spiegato Chandrakant Patel, uno dei ricercatori HP Labs coinvolti nel progetto, che poi ha continuato: "stiamo valutando seriamente l'utilizzo di tale processo per alimentare una prossima generazione di data center".

Il processo dovrebbe funzionare così: le aziende hanno già un sistema di raccolta delle deiezioni. La biomassa verrebbe portata in impianti specializzati per il trattamento. A questo punto del processo il gas metano sarebbe rilasciato e, nella visione di HP, l'energia chimica del metano potrebbe essere convertita in energia elettrica per alimentare.

Per completare il cerchio, il calore che il data center stesso produce verrebbe poi riutilizzato come parte dell'energia necessaria per abbattere la biomassa.

"In India, per esempio", racconta ancora Chandrakant Patel, "sono a corto di energia per mantenere i data center ed hanno bisogno di generatori diesel perché la rete elettrica non può tenere il passo con la crescita; questo processo potrebbe essere una occasione d'oro per un allevatore, che potrebbe trasformare un prodotto di scarto in materia prima da rivendere".

La spesa per costruire un centro da 1 megawatt è di circa 5 milioni di dollari, ma potrebbe generare circa 2 milioni dollari di entrate all'anno. Così, dopo due o tre anni, il costruttore potrebbe rientrare degli investimenti sostenuti.

Se in teoria questa è una buona idea, in pratica basta documentarsi un minimo su Internet per capire che il processo non può essere semplificato nella maniera descritta da Patel in quanto deve tenere in considerazione l'affidabilità richiesta da un data center.

Il progetto sembra indicare che il gas ottenuto sia puro, ma di fatto non lo è: c'è una buona dose di anidride carbonica (50% in volume) e di composti di zolfo (di cui il solfuro di idrogeno è il peggiore e puzzolente), di acqua e di azoto.

Il tutto rende questo un combustibile di bassa qualità o per lo meno un combustibile che deve essere pesantemente trattato prima di poter essere bruciato nei motori.

C'è poi anche da chiedersi dove trovare 10.000 capi di allevamento concentrati in un raggio economicamente conveniente per il trasporto.

Possiamo immaginare e sperare che HP, nel presentare il progetto, non abbia rivelato tutto; altrimenti un'ottima idea si trasformerebbe nell'ennesimo annuncio eclatante privo di contenuti validi, fatto solo per cavalcare l'onda speculativa della new green economy.

lunedì 17 maggio 2010

PERCHÉ UOMINI E ANIMALI SONO COMPAGNI DI VIAGGIO

Pubblichiamo un brano della lettura "Omnis anima vivens: la salvezza delle creature" che padre Enzo Bianchi ha tenuto ieri a Bologna per il ciclo "Animalia" organizzato dall' Università e dal Rettore Ivano Dionigi.

Secondo il libro della Genesi l' uomo, in cui è immesso da Dio un soffio di vita che lo rende vivente, è preso e posto in un giardino «perché lo coltivi e lo custodisca». Qui germogliano altre creature e qui vengono creati gli animali, perché «non è bene che l' uomo sia solo» (Gen 2,18): l' uomo è veramente tale quando è in relazione, quando è in comunità, e gli animali - pure plasmati dalla terra vengono posti in relazione con lui che ad essi dà il nome, cioè li distingue, li individua come partners. 

C' è quindi co-creaturalità tra uomini e animali, tutti creati dalla terra, tutti destinati a vivere insieme, a dividere lo stesso spazio terrestre, e a morire insieme dopo una vita piena di relazioni. Uno stesso destino infatti legherà uomini e animali, i quali - dirà il saggio Qohelet - avranno la medesima sorte: «Chi sa se il soffio vitale dell' uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?». 
Il rapporto tra uomo e animali non è paritario, ma non si configura neppure come rapporto tra un soggetto e un oggetto, perché entrambi restano soggetti, anche se la relazione permane asimmetrica. È l' uomo che dà il nome all' animale e non viceversa, ma l' animale è anche un aiuto per l' uomo (si badi che anche la relazione uomodonna in Gen 2,18 è vista come aiuto, ' ezer kenegdo, letteralmente «aiutocontro di lui»!). Per vivere la sua avventura, l' uomo ha bisogno di aiuto, e di aiuto «altro»: sicché l' uomo ha bisogno della donna, la donna ha bisogno dell' uomo, gli umani hanno bisogno degli animali e tutti hanno bisogno gli uni degli altri... Questa co-creaturalità è di nuovo affermata anche nel racconto della creazione, redatto in epoca più tarda e posto al capitolo 1 della Genesi, e diviene un inno dossologico al Creatore. 
L' opera di Dio è un no al caos, al nulla, alla tenebra, e lo Spirito di Dio plasma, quasi «cova» le creature volute da Dio... La Parola potente di Dio diventa evento, e le acque «fanno uscire», la terra «fa uscire» generando la vita: vegetali e animali secondo la loro specie, le loro particolarità. Quale grande solidarietà: acqua e terra sono, in virtù della Parola di Dio, matrici di tutti gli esseri viventi trai quali Dio infine vuole l' uomo, creato da luia sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27)! All' uomo come agli animali Dio dà la benedizione e lo stesso comando: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra!» (Gen 1,22 e 28). Ogni creatura è buona, recita questo inno creazionale, ed è in una grande solidarietà che tutte le creature animate sono benedette e ricevono in dono la terra: non l' una senza l' altra, non l' uomo senza l' animale, non uomini e animali senza i vegetali! 
Di questa alleanza c' è un segno che vediamo noi uomini insieme agli animali alla fine di ogni temporale, segno che ci commuove entrambi: «L' arcobaleno sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l' alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,16)... In un midrash sulla Genesi, davanti alla creazione Dio esclama: «Mondo mio, mondo mio, possa tu trovare grazia davanti a me in ogni tempo come hai trovato grazia davanti a me in quest' ora!». Sì, nell' intenzione di Dio il mondo era armonia, pace e solidarietà tra co-creature, ma quel che è stato ed è contraddice questa intenzione... Permane però immutata la volontà di Dio, la sua alleanza con gli uominie con tutti gli esseri viventi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, e Dio la riconferma come scopo e compimento della storia: «In quel tempo farò per loro un' alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo: arco e spada e guerra eliminerò dal paese» (Osea 2,20). In attesa di quel giorno, mentre vediamo un animale soffrire, il nostro cane morire, gli uccelli sul davanzale che mangiano le briciole del nostro pane, dobbiamo credere che Dio «si dà pensiero» degli animali (cf. Mt 6,26; Lc 12,24; 1Cor 9,9); che Dio ha pietà degli animali presenti nella Ninive che è questo mondo (cf. Gn 4,10-11); che Dio dà loro il cibo nel tempo opportuno perché si sazino (cf. Sal 104,27-28). Davvero, noi uomini dovremmo saper riconoscere negli animali dei «compagni di viaggio». L' immagine biblica di Tobia che parte per un lungo viaggio accompagnato da un angelo e dal suo cane è parabola del nostro cammino sulla terra, durante il quale gli animali, non solo gli «angeli custodi» o - ma non sempre è dato! - gli altri uomini, ci sono compagni. Gli animali sono una presenza, e spesso, soprattutto per le persone più poveree semplici, sono aiuto, compagnia e consolazione: sì, gli animali sono compagni di viaggio degli uomini. - ENZO BIANCHI
Repubblica — 14 maggio 2010 pagina 52 sezione: CULTURA

L'operaio di Shenzhen scopre un sentimento nuovo: il razzismo contro chi è più povero di lui, e disposto a tutto

Piccole storie cinesi di GIAMPAOLO VISETTI

180 EURO AL MESE
L'operaio di Shenzhen scopre un sentimento nuovo: il razzismo contro chi è più povero di lui, e disposto a tutto

L'operaio cinese sa cos'è il lavoro. Non ha però mai avuto un problema: la concorrenza. Fino a dieci anni fa i'ha tutelato l'industria di Stato, costruita dal comunismo. Poi s'è protetto da sé: nessun lavoratore al mondo costava meno di lui. Non è più così. Con il tempo, sul mondo, ci crea sempre qualcuno più conveniente del più conveniente. Il lavoratore cinese, nominato «personaggio dell'anno» da Time, scopre oggi di essere già fuori mercato. La crescita del pianeta inizia a poggiare su spalle nuove: gli immigrati dal Vietnam, da Sri Lanka, dalla Cambogia e dalle Filippine.

Migliaia di clandestini del Sudest asiatico imbottiscono le fabbriche cinesi che avvelenano il delta del fiume delle Perle. Vivono nascosti nei reparti, lavorano quindici ore al giorno, non dispongono di riposo settimanale e guadagnano cinquanta euro al mese. Sono illegali e il padrone può ingaggiarli, o cacciarli, in ogni momento. La fame di mano d'opera delia fucina del secolo è talmente vorace, che nella regione del Guangdong cominciano ad approdare anche navi cariche di africani. L'operaio cinese, da sempre sfruttato e per questo imbattibile, scopre così un sentimento nuovo: il razzismo contro chi è più povero dì lui. Negli ultimi mesi migliaia di lavoratori, emigrati dalle campagne, hanno denunciato l'invasione di stranieri attraverso i confini meridionali della Cina. Con asiatica lentezza si delinea un impressionante traffico di esseri umani. Commercianti di persone, per dieci euro, garantiscono camion di vietnamiti agli stabilimenti di Shenzhen, o alle fabbriche di Dongguan. 

Migliaia di donne seguono la corrente. La legge del figlio unico ha prodotto nella popolazione cinese un enorme squilibrio tra i sessi. Mancano alcuni milioni di femmine e assieme ai nuovi schiavi della Cina arrivano anche loro, vendute per pochi yuan ai maschi in cerca di una donna per casa. A insorgere contro «le puttane del sud» sono questa volta le giovani cinesi, che temono di perdere i pochi diritti acquisiti negli ultimi anni. Questa nuova Cina razzista, che finge di indignarsi contro lo sfruttamento di chi non è cinese, preoccupa il potere di Pechino. La convenienza della produttività nazionale resta la spina dorsale di esportazioni, crescita e stabilità. Aumentare il costo del lavoro significa esporsi al rischio di perdere qualche indispensabile punto di Pil. 
Governo e partito temono però che tra le masse degli emigrati e dei contadini cinesi, oltre 900 milioni di persone, con l'odio contro gli immigrati possa crescere anche un senso del diritto interno. Denunciare i clandestini per riguadagnare il posto di lavoro perduto, significa pulire il terreno dalla concorrenza e prepararsi a tornare indispensabili per le aziende. Lo spettro, per i nipoti di Mao, è la nascita dì un sindacato. Contro questo pericolo si è mossa la polizia. Negli ultimi due anni oltre 20mila lavoratori clandestini sono stati sorpresi alle catene di montaggio dei distretti industriali. Ogni notte pullman e camion di vietnamiti vengono bloccati lungo i 553 chilometri di confine con il Guanxì. Nel porto di Dongxing, a fine aprile, sono stati scoperti centinaia container gonfi di quasi diecimila lavoratori del Sudest, pronti per essere consegnati in Cina. Tra i duecento intermediari arrestati, qualcuno ha raccontato che nel Delta le nuove braccia strappate alla disperazione possono costare oggi anche meno di quaranta dollari al mese. L'improvviso scoppio del mercato del lavoro più stabile del mondo ha due ragioni principali. I finanziamenti governativi per lo sviluppo delle regioni cinesi dell'Ovest sta riportando milioni di emigrati nei loro villaggi contadini. A fine marzo, solo tra Dongguan e Shenzhen, le industrie hanno lamentato la mancanza di almeno tre milioni di lavoratori, non rientrati dopo le ferie. Sono poi entrate in vigore alcune leggi. Garantiscono agli operai regolari l'assicurazione, assistenza medica e risarcimento in caso di licenziamento. Dal primo maggio il salario minimo, anche in bassa stagione, è stato aumentato del 21%. L'operaio cinese, vittima ed eroe dell'Occidente sconvolto dalla propria crisi, con straordinari e festivi riesce a guadagnare fino a 180 euro al mese. Scopre però che il sogno è già un incubo: è troppo. Milioni di non cinesi più cinesi di lui sono cresciuti. E non gli resta che diventare più vietnamita del collega di Hanoi.

D la repubblica delle donne, 15 maggio 2010

giovedì 13 maggio 2010

L'Inghilterra vieta il biglietto da 500 euro

E' da quando è stato fatto l'euro che lo dico: i 500 sono fatti apposta per riempire le valigette delle bande criminali. In vita mia ne ho toccato solo uno, di solito non vado mai oltre la taglia dei 50 euro.
I biglietti da 500 e da 200 dovrebbero essere aboliti in tutta europa, a favore di transazioni più trasparenti e dell'uso di bancomat ecc.. Ma chi fa le leggi? Gli amici della cricca.....?
gg
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L'Inghilterra vieta il biglietto da 500
"Sono le preferite dai criminali"
Secondo l'Agenzia contro il crimine organizzato, in Gran Bretagna entrano ogni anno 500 milioni di euro in banconote da 500 e solo il 10% è utilizzato legalmente. Nel '69 Nixon eliminò quelle da 10 mila dollari

LONDRA - David Cameron è stato chiaro. Niente euro nei prossimi cinque anni di legislatura. Ma non basta. Per la moneta europea nel Regno Unito sono giorni duri. Oggi le autorità di Londra sono intervenuto contro le banconote da 500 euro, considerate lo strumento preferito per il ricicilaggo di denaro e altre operazioni illecite legate al crimine organizzato.

D'ora in poi le banche e gli uffici di cambio non potranno più accettare il bigliettone viola, che potrà essere però ancora usato nelle transazioni da chi se lo porta dall'estero. Secondo l'Agenzia contro il crimine organizzato (Soca), in Gran Bretagna entrano ogni anno 500 milioni di euro in banconote da 500 e solo il 10 per cento viene utilizzato legalmente. Un taglio che non ha equivalenti in sterline perché la valuta britannica ha al massimo biglietti da 100.

Il vantaggio è per le operazioni illecite. Se un milione di sterline in biglietti da 20 pesa 50 chili, ha spiegato l'Independent, lo stesso valore in pezzi da 500 euro pesa solamente due chili e 200 grammi. Ventimila euro si possono quindi nascondere facilmente in un pacchetto di sigarette, e un milione nel doppio fondo di una valigia.

Contro il crimine organizzato, nel 1969 il presidente americano Richard Nixon eliminò le banconote da 10mila dollari di cui si serviva prevalentemente la mafia. A dicembre in Gran Bretagna sono stati sequestrati 526 mila euro in pezzi da 500: erano nascosti in scatole di cereali da due uomini arrestati per un'operazione di riciclaggio da 24 milioni di sterline.

mercoledì 12 maggio 2010

A TORINO ATTENTI A QUEI LIBRI. ALLARME DI WWF, GREENPEACE E TERRA!

ROMA, 12 maggio 2010- In occasione dell'apertura del Salone Internazionale del Libro di Torino le associazioni ambientaliste WWF, Greenpeace e Terra! denunciano le responsabilità del settore dell'editoria italiana sulla distruzione delle ultime foreste torbiere del Sud Est Asiatico.

Proprio l'espansione delle piantagioni industriali per la produzione di polpa di cellulosa, infatti, minaccia le preziose foreste del Sud Est Asiativo e, in particolare, quelle di Sumatra e spinge verso l'estinzione specie come l'orango, l'elefante, la tigre e il rinoceronte di Sumatra.

Tra i principali responsabili di questo scempio ambientale la multinazionale APP (Asia Pulp & Paper). Si stima che dall'inizio delle proprie attività, negli anni '80, la APP abbia abbattuto un milione di ettari di foreste naturali nella sola isola di Sumatra. Quest'area da sola conserva più di due miliardi di tonnellate di carbonio svolgendo un'azione chiave nella mitigazione del cambiamento climatico.

«Le ricerche di Terra! hanno evidenziato una aggressiva campagna di penetrazione della APP nel mercato italiano. - dichiara Sergio Baffoni, responsabile Campagna Foreste di Terra! -
Se la APP continua ad aumentare le vendite, convertirà nuove foreste pluviali in piantagioni per rifornire le sue cartiere in Indonesia e Cina, già a corto di fibre. Siamo certi che quando capiranno gli impatti di questa impresa, le imprese italiane rifiuteranno i prodotti della APP».

Da un'indagine realizzata da Greenpeace, infatti, risulta che il 75% delle case editrici italiane non conosce, né controlla l'origine della carta utilizzata per la produzione dei propri libri.
«Non è accettabile che la maggior parte degli editori italiani non sia in grado di garantirci che i libri che acquistiamo non provengono dalla distruzione di una foresta pluviale - spiega Chiara Campione, responsabile della campagna foreste di Greenpeace Italia - Se queste aziende non metteranno in atto delle politiche di acquisto atte a escludere carta proveniente dalla deforestazione nei propri libri, si renderanno corresponsabili di un disastro ambientale».

«Le chiacchiere stanno a zero sono i fatti e gli impegni concreti che contano - dichiara Massimiliano Rocco, responsabile TRAFFIC, Specie e Timber Trade del WWF Italia - il nostro mondo produttivo ora ha gli elementi e le informazioni per agire, faccia scelte responsabili acquistando solo prodotti certificati di chiara origine, evitando di fare profitti ai danni del nostro pianeta, partecipando per i loro interessi alla devastazione di quegli ambienti unici che una volta persi lo sono per sempre».

Importanti acquirenti di carta, tra cui gli italiani Gucci e Versace, Office Depot (USA), Metro Group (Germania) e Fuji Xerox (Giappone), hanno compreso come le pratiche della APP distruggono l'ambiente e sono incompatibili con i propri valori aziendali, e hanno di conseguenza interrotto ogni acquisto di prodotti del gruppo. Anche alcune case editrici italiane come Bompiani, Fandango e Hacca tra gli altri hanno fatto scelte sostenibili stampando tutta la propria produzione editoriale su carta riciclata e certifica FSC.

Scegliere una strada diversa che rinneghi l'illegalità e i prodotti provenienti dalla deforestazione è possibile. Greenpeace, WWF e Terra! Invitano il mondo dell'editoria a un tavolo di confronto per la promozione di una filiera della carta responsabile.


Contatti:
Uff stampa Greenpeace 06.68136061 [int 203- 211]
Uff stampa WWF, 06 84 49 71
Uff stampa Terra! 335 7862360

La crisi e il denaro fantasma

Che cosa sono i 110 miliardi che verranno dati alla Grecia per salvarla (80 dai governi dell’Eurozona, 30 dal Fmi) e i 750 approntati dall’Unione europea per creare un maxifondo “anticrisi”?
Nel mondo globalizzato tutti i Paesi europei sono indebitati fra di loro e con gli altri Paesi industrializzati che a loro volta sono indebitati con noi.
I miliardi dati alla Grecia e quelli del maxifondo “per battere la speculazione” sono una partita di giro. Si tratta di denaro inesistente, “t o s s ico” non meno dei titoli “tossici”, che serve per drogare ulteriormente il cavallo già dopato perché faccia ancora qualche passo prima di schiattare definitivamente .
È da 15 anni che i Paesi industrializzati, di fronte alle crisi che si susseguono a ritmi sempre più incalzanti, si comportano in questo modo: immettendo nel sistema altro denaro inesistente. Nel 1996 il Messico era sull’orlo della bancarotta: doveva 50 miliardi di dollari ai Paesi industrializzati. Cosa fecero questi? Gli prestarono altri 50 miliardi perché potesse restituire i primi 50.
Un’operazione apparentemente assurda, che serviva però a tenere il Messico al gancio del mondo industrializzato che poteva così continuare a vendere ai messicani i propri prodotti. Più o meno alla stessa maniera, con qualche variante, ci si comportò per la crisi delle “p i ccole tigri” asiatiche nel 1997.
Così si è fatto per il collasso dei subprime americani nell’estate 2007, default che si è poi propagato in Europa e di cui l’attuale crisi è un’ulteriore conseguenza (che cosa sono gli sbalorditivi tre trilioni di dollari comparsi improvvisamente nelle mani del governo di Washington? O ce li avevano prima e allora non si capisce perché non li abbiano usati o è denaro puramente virtuale).
Si tende da parte dei governi e degli economisti al loro servizio a dare la colpa di queste crisi alla “s p e c ulazione” e agli “eccessi” del capitalismo finanziario. È uno scarico di responsabilità, nient’affatto innocente, per eludere il nocciolo duro e vero della questione: è l’intero nostro modello di sviluppo ad essere “tossico”.
Il capitalismo finanziario non è che la diretta e inevitabile conseguenza, oltre che, in qualche modo, la necessaria precondizione, di quello industriale. Ne seguono le stesse logiche: il profitto, la sua massimizzazione col minimo sforzo e, soprattutto, l’inesausta scommessa sul futuro. Un futuro ipotecato fino ad epoche così sideralmente lontane da essere inesistente. Come il denaro che lo rappresenta (con un millesimo del denaro circolante attualmente, nelle sue varie forme, si comprano tutti i beni e i servizi del mondo. Il resto cos’è?).
Prendersela col capitalismo finanziario, sottacendo di quello industriale, è come meravigliarsi che avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile. Noi ci stiamo comportando come un individuo che avendo un debito, per coprirlo, ne fa uno più grosso e poi un altro più grande ancora e così via. A livello individuale il giochetto dura poco.
Per un modello che si pone come planetario le cose vanno più per le lunghe. Ma un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura, quando non avrà più possibilità di espandersi imploderà fatalmente su se stesso. E ci siamo vicini. Lo dice anche il fatto che, essendo i nostri ormai abbondantemente saturi, siamo alla ricerca disperata di altri mercati, anche se poveri, anche se poverissimi e siamo disposti a bombardare senza pietà i popoli, come quello afghano, che non ci stanno a entrare nel nostro meccanismo. Il paradosso di questo modello di sviluppo è che avendo puntato tutto sul cavallo dell’economia, marginalizzando ogni altro valore ed esigenza umana, sta fallendo proprio sul piano dell’economia. Spero che ciò apra gli occhi alla gente e la induca, presto, domani, subito, a impiccare al più alto pennone gli idioti e gli impostori che stanno segando il ramo dell’albero su cui siamo seduti. Ma ci credo poco. Se fossi su un altro albero riderei a crepapelle guardandoli mentre fanno karakiri. Ma sono sullo stesso ramo e mi tocca seguire, impotente, come molti altri miei consimili, la sorte che queste canaglie imbecilli ci stan preparando. 

 di Massimo Fini , il fatto 12 maggio 2010
 www.ilribelle.com

martedì 11 maggio 2010

Il “lato B” dell’ecologia

Il Worldwatch Institute: nella toilette la morbidezza di 270mila alberi

Roma, 10 maggio – Ogni giorno finisce in discarica l’equivalente di quasi 270mila alberi. Dall’ultimo rapporto del Worldwatch Institute di Washington, pubblicato sul New scientist nei giorni scorsi, emerge che circa il 10 per cento di questi scarichi sono dovuti alla carta igienica: solo in Europa ogni giorno vengono utilizzati sessanta milioni di rotoli di carta igienica. Il risultato è che le foreste del pianeta sono sotto attacco incrociato da parte di imprese che si contendono il legno, allo scopo di soddisfare un’inesauribile domanda di morbida carta igienica.
Molti fattori stanno spingendo a una crescita dell’uso di carta igienica: la crescita demografica, l’adozione di stili di vita occidentali, e il miglioramento igienico-sanitario in diversi paesi in via di sviluppo. Così, nonostante la recessione economica, il consumo mondiale di carta non è destinato a declinare.
La soluzione, si spiega nel rapporto, sarebbe l’introduzione di reali programmi di riciclo. Se si producesse la carta igienica a partire dalla carta riciclata, si avrebbe un risparmio del 64% d'energia, del 50% di acqua in meno che porterebbe a un 74% in meno d'inquinamento".

Secondo gli studiosi si arriverebbe a un 64% in meno di utilizzo d’energia, 50% in meno di acqua in meno che porterebbe ad un 74% in meno d’inquinamento atmosferico.

NOTA MIA: la soluzione vera e migliore (per tutti) è che la gente si lavi, in oriente e in occidente.. L'"adozione di stile di vita occidentali " significa che miliardi di persone che ora si lavano, per essere "moderni", si mettono a consumare una cosa che si chiama "igienica" ma che è esattamente l'opposto.

ancora sul tema dell'8 per mille

illuminante video su youtube, a confronto il 5 per mille e l'8 per mille...

un sito sul tema dell'8 per mille:
http://www.ottomille.it/otto_per_mille.html


l'8 per mille....

CHI N0N SCEGLIE L'8 PER MILLE

Gentile Augias, quando si avvicinano le scadenze delle tasse, scatta la martellante campagna della chiesa cattolica per la raccolta fondi deU'8xl000. Per molto tempo ho dato i soldi alla Chiesa, ora non li do più. Mi dispiace che la Chiesa non si limiti a premere sulle coscienze ma intervenga anche sulle leggi.
Giorgio Bartalucci bartagio@tin.it

Gentile dott. Augias, i Paesi a noi limitrofi (Germania, Austria, Svizzera...) regolano lo status di appartenente ad una confessione religiosa mediante una imposizione fiscale cui ogni aderente è moralmente obbligato pena il distacco dalla Chiesa di appartenenza. Tale tassa viene pagata solo in caso di scelta espressa: chi non è credente o è diversamente credente ne è esentato. Cattolici e Protestanti possono cosi essere contati, e l'ingerenza da par-te delle due Chiese nell' attività dello Stato risulta suffragata da un reale numero di cittadini che si riconoscono, senza far ricadere sulla collettività gli obblighi della propria fede. Vi è forte collaborazione tra Stato e Chiesa grazie ad un controllo incrociato dei dati. Se questo principio di responsabilità personale fosse adottato anche da noi, potremmo finalmente sapere il reale numero degli italiani che si riconoscono nei principi del cattolicesimo.
Maria Cristina Marciteci mcmarc@email.it

Risponde Corrado Augias:
Il meccanismo dell'8 per mille, a suo tempo astutamente escogitato da Giulio Tremonti, si basa su un equivoco. Premetto che al tempo in cui venne inventato, Bettino Craxi stava rinegoziando con le autorità vaticane i termini del Concordato firmato a suo tempo (1929) da Mussolini. Si trattava tra le altre cose di abolire la cosiddetta 'congrua' cioè una specie di stipendio pagato ai sacerdoti cattolici. Tremonti escogitò appunto il meccanismo detto 'otto per mille' vale a dire: ogni contribuente che non abbia espressamente indicato una diversa destinazione, vedrà automaticamente assegnare alla Chiesa cattolica quella cifra del suo reddito. Perché ho detto
'equivoco'? Perché molti credono che basti non dare indicazioni per non soggiacere alla norma. E' un errore perché la norma vale in ogni caso, a meno che non si sia appunto data diversa indicazione sul modulo. Un secondo aspetto equivoco è che la 'congrua' era uno stipendio pagato dallo Stato al sacerdote per il servizio da lui reso ai fedeli. La quota Irpef confluisce invece in una cassa unica amministrata da una commissione episcopale il che ovviamente accresce la dipendenza dei singoli sacerdoti dalla gerarchia. Con tutte le conseguenze che possiamo intuire e anzi vedere.

Repubblica, 8 maggio 2010

una puntata di report sull'argomento

lunedì 10 maggio 2010

La legge che ordina il silenzio stampa

di STEFANO RODOTÀ
Se la legge sulle intercettazioni verrà approvata nel testo in discussione al Senato, sarà fatto un passo pericoloso verso un mutamento di regime. I regimi non cambiano solo quando si è di fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica, in un colpo solo verranno pregiudicati la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di sapere dei cittadini, il controllo diffuso sull'esercizio dei poteri, le possibilità d'indagine della magistratura. Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. La censura come primo passo concreto verso l'annunciata riforma costituzionale, visto che si incide sulla prima parte della Costituzione, quella dei principi e dei diritti, a parole dichiarata intoccabile? Se così sarà, dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto. Questa operazione sostanzialmente eversiva si ammanta del virtuoso proposito di tutelare la privacy. Ma, se questo fosse stato il vero obiettivo, era a portata di mano una soluzione che non metteva a rischio né principi, né diritti. Bastava prevedere che, d'intesa tra il giudice e gli avvocati delle parti, si distruggessero i contenuti delle intercettazioni relativi a persone estranee alle indagini o comunque irrilevanti; si conservassero in un archivio riservato le informazioni di cui era ancora dubbia la rilevanza; si rendessero pubblicabili, una volta portati a conoscenza delle parti, gli atti di indagine e le intercettazioni rilevanti.

Su questa linea vi era stato un largo consenso, che avrebbe permesso una approvazione a larga maggioranza di una legge così congegnata.

Ma l'obiettivo era diverso. La tutela della privacy è divenuta il pretesto per aggredire l'odiata magistratura, l'insopportabile stampa. Non si vuole che i magistrati indaghino sul "mostruoso connubio" tra politica e affari, sull'illegalità che corrode la società. Si vuole distogliere l'occhio dell'informazione non dal gossip, ma da vicende che inquietano i potenti, dal malaffare. Se quella legge fosse stata approvata, non sarebbe stato possibile dare notizie sul caso Scajola, perché si introduce un divieto di pubblicazione che non riguarda le sole intercettazioni.
In un paese normale proprio quest'ultima vicenda avrebbe dovuto indurre alla prudenza. Sta accadendo il contrario. Al Senato si vuole chiudere al più presto. E questo è coerente con l'affermazione del presidente del Consiglio, secondo il quale in Italia "c'è fin troppa libertà di stampa". Quale migliore occasione per porre rimedio a questo eccesso di una bella legge censoria?

Scajola, infatti, è stato costretto a dimettersi solo dalla forza dell'informazione. Una situazione apparsa intollerabile. Ecco, allora, il bisogno di arrivare subito ad una legge che interrompa fin dall'origine il circuito informativo, riducendo le informazioni che la magistratura può raccogliere, impedendo che le notizie possano giungere ai cittadini prima d'essere state sterilizzate dal passare del tempo. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva.

Si arriva così all'infinito silenzio stampa, all'opinione pubblica impotente perché ignara dei fatti, visto che nulla può esser detto su qualsiasi fatto delittuoso fino all'udienza preliminare, dunque fino a un tempo che può essere lontano anni dal momento in cui l'indagine era stata aperta. Che cosa resterebbe della democrazia, che non vuol dire soltanto "governo del popolo", ma pure governo "in pubblico"? In tempi di corruzione dilagante si abbandona ogni ritegno e trasparenza, si dimentica il monito del giudice Brandeis: in democrazia "la luce del sole è il miglior disinfettante". Stiamo per essere traghettati verso un regime di miserabili arcana imperii, di un segreto assoluto posto a tutela di simoniaci commerci di qualsiasi bene, di corrotti e corruttori, di faccendieri e di veri criminali.

Questo regime non avvolgerebbe soltanto in un velo oscuro proprio ciò che massimamente avrebbe bisogno di chiarezza. Creerebbe all'interno della società un grumo che la corromperebbe ancor più nel profondo. Le notizie impubblicabili, infatti non sarebbero custodite in forzieri inaccessibili. Sarebbero nelle mani di molti, di tutte le parti, dei loro avvocati e consulenti che ricevono le trascrizioni delle intercettazioni, gli atti d'indagine, gli avvisi di garanzia, i provvedimenti di custodia cautelare. Questo materiale scottante alimenterebbe i sentito dire, la circolazione di mezze notizie, le allusioni, la semina del sospetto. Renderebbe possibili pressioni sotterranee, o veri e propri ricatti. Creerebbe un clima propizio ad un "turismo delle notizie", alla pubblicazione su qualche giornale straniero di informazioni "proibite" che poi rimbalzerebbero in Italia.

Accade sempre così quando ci si allontana dalla via retta della democrazia e dei diritti. Dal diritto d'informazione in primo luogo, che non è privilegio dei giornalisti, ma diritto fondamentale d'ogni persona, la premessa della sua cittadinanza attiva, del suo "conoscere per deliberare". Ce lo ricordano le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, dov'è sempre ripetuto che "la libertà d'informazione ha importanza fondamentale in una società democratica". In una sentenza del 2007, che riguardava due giornalisti francesi autori d'un libro sulle malefatte di un collaboratore di Mitterrand, la Corte ha ritenuto che la notorietà della persona e l'importanza della vicenda rendevano legittima la pubblicazione anche di notizie coperte dal segreto. In una sentenza del 2009 si è messo in evidenza che eccessivi risarcimenti del danno a carico di giornalisti e editori possono costituire una forma di intimidazione che viola la libertà d'informazione: che cosa dovremmo dire quando, da noi, il testo all'esame del Senato impugna come una clava le sanzioni pecuniarie con chiaro intento intimidatorio? E guardiamo anche agli Stati Uniti, al fermo discorso di Hillary Clinton sul nesso tra democrazia e libertà di espressione su Internet, alle ultime sentenze della Corte Suprema che, pure di fronte a casi sgradevoli e imbarazzanti, ha riaffermato la superiorità del Primo Emendamento, appunto della libertà di espressione

Un velo d'ignoranza copre gli occhi del legislatore italiano. Ma non è il benefico velo che lo mette al riparo da pressioni, da influenze improprie. È l'opposto, è la resa alla imposizione di chi non vuole che si guardi al mondo quale veramente è. Nasce così un'anomalia culturale, prima ancora che giuridico-istituzionale. Ci allontaniamo dai territori della civiltà giuridica, e ci candidiamo ad esser membri a pieno titolo del club degli autoritari.

Certo la nostra Corte costituzionale prima, e poi quella di Strasburgo, potranno ancora salvarci. Intanto, però, la voce dei cittadini può farsi sentire, e non è detto che rimanga inascoltata.

firma l'appello "La libertà è partecipazione informata"
(Repubblica, 08 maggio 2010)

un bravissimo fotografo: Mustafa Quraishi

Quel fiore allegro e minaccioso che sfida il potere
Le foto di Mustafa Quraishi - e certamente merita una visita www.mustafaquraishi.com - sono belle come i quadri di Tiziano. Entrambi non mostrano la minima paura del colore, ma lo esaltano, lo combinano, lo riconoscono là dove non c'è, apparentemente, o addirittura ce lo portano, e allora diventa ovvio che c'è sempre stato.
Questione di occhi e di cuore. Sia il fotografo indiano che il pittore del Rinascimento non solo sembrano possedere il segreto dei segreti, ma lo applicano nelle loro creazioni, là dove è evidente il legame indissolubile che nello sguardo di entrambi si coglie fra la natura e l'umanità, la storia e il mito, la vita e il soffio che sempre le imprimono meraviglia e sentimento. Qui, alle pagine 52-53, Quraishi illustra il servizio di Antonella Barina sul movimento dei sari rosa, Gulabi Gang, le donne rivoltose dell'India più povera e stremata. C'è questa leader testarda e analfabeta, ma carismatica e dunque capace di radunare attorno a sé qualcosa di primordiale e insieme di evolutissimo, la guerra invisibile che da sempre striscia tra i due generi.
Ma quel che lascia quasi senza fiato è come la mostra questo pittore elettronico: un fiore rosso e minaccioso, petali infuocati di rabbia e di allegria, e spine vegetali, aculei animali, sono i bastoni di bambù impugnati dalle donne, che hanno tutta l'aria di far male come quelli degli uomini, solo che qui c'è qualche millennio da parificare, e ci sono le erinni, le baccanti, le arpie, le amazzoni, le parche, insomma è come se la crudele mitologia presentasse il conto alla post-modernità. E lo si vede. Quell'anziana con il bastone in primo piano, e sembra abbia al suo fianco una busta di plastica, e quella dietro che ride, e un altro paio che levano il palmo delle mani, e non c'è più alcuna differenza fra loro.
Sono una massa compatta e coloratissima, un mucchio di corpi che ne fanno uno a mille teste, duemila braccia, duemila gambe. È questo che le rende vive e coraggiose. Il fotografo è come se scattasse dall'alto.
Ma più che documentare, egli illustra il gioco e il giogo che stanno dietro la scena: «Eppure è ben vero che l'insidia maggiore degli imperi è nelle catacombe popolate di inermi, più che nelle schiere nemiche disposte in battaglia» (Elémire Zolla, Gli Arcani del potere, Rizzoli, 2009).

domenica 9 maggio 2010

I FILOSOFI E GLI ANIMALI, giovedi 13 maggio a Brescia

GIOVEDI 13 MAGGIO 2010 Ore 20,45

Museo di Scienze Naturali – Via Ozanam, 4 Brescia

presentazione del volume: I FILOSOFI E GLI ANIMALI

L’ANIMALE BUONO DA PENSARE AgireOra Edizioni

A cura di Gino Ditadi

Il volume « I filosofi e gli animali – l’animale buono da pensare» , a cura del prof. Gino Ditadi documenta, nelle sue 288 pagine, la posizione rispetto alla « questione animale» di molti filosofi, noti e meno noti, esaminati in ordine cronologico da Zarathustra, Anassimandro, Pitagora fino ad arrivare ai nostri giorni con Tom Regan, Claude Levi-Strauss e L.L. Vallauri.

Il volume contiene 475 note filosofiche e storico-critiche e testi inediti, rari o di difficile reperibilità ed è uno strumento indispensabile e documentatissimo per comprendere la genesi dello scontro uomo-natura e per individuare le possibili vie di uscita da una situazione insostenibile, senza precedenti.

Gino Ditadi e’ autore di numerosi saggi filosofici sulla questione animale. Con quest’opera fondamentale Gino Ditadi ha riportato alla luce scritti di cui si ignorava perfino l’esistenza. Un messaggio antico ma al contempo sorprendentemente moderno che puo’ aiutare a comprendere meglio l’epoca del vuoto in cui viviamo, un’epoca senza precedenti, caratterizzata da continue emergenze su scala planetaria: emergenze climatiche, sanitarie, ambientali, sociali, ecc.

Tutto cio’ affonda le proprie radici in una concezione del mondo che ha posto l’uomo al Centro del Creato, dimenticandosi di tutto il resto, a discapito del mondo naturale e di tutti i suoi abitanti. Per capire come e perche’ siamo giunti a questo, e per uscirne, puo’ aiutare ripercorrere il cammino del pensiero filosofico nella storia che ha cosi’ fortemente influenzato la nostra civilta’.

Animali: troppa bellezza

Il business e la strage degli animali protetti, sacrificati in nome della medicina tradizionale.
Per crescere più rapidamente la Cina non ha esitato a distruggere il suo ambiente. Le persone sono abituate a vivere tra i veleni e lo accettano, se ciò consente di morire meno poveri. Tra le vittime ci sono gli animali e la gente, pur amandoli, non si scandalizza se vengono sacrificati per denaro.

Da settimane si moltiplicano le notizie di tigri lasciate morire di fame, o ammazzate, di zoo dove gli animali vengono sfiniti dalla magrezza prima di finire nei congelatori, di carcasse di specie protette date in pasto ad altre bestie, o a inservienti lasciati senza paga. Il paese non reagisce e continua a servirsi di liquori realizzati con estratti di animali pressoché estinti, o di farmaci tradizionali derivati da organi di esemplari rari. Il cortocircuito tra sacrificio della natura, adorazione per la ricchezza e devozione verso i costumi antichi, alimenta un mercato che tradisce la cultura grande dei cinesi. È però uno specchio del paese, nel quale un cinismo capitalista vestito di esotismo orientale ha soppiantato l'iniziale idealismo socialista. Nello zoo di Shenyang, nella contea di Liao-ning, undici tigri siberiane sono state lasciate morire di fame. I loro organi sono stati venduti per ricavare liquori, balsami, medicine e afrodisiaci. In Asia sopravvivono non più di una cinquantina di questi felini allo stato brado, mentre 5mila sono allevati in cattività. Ucciderli è un reato punito con la pena di morte, ma la legge non persegue chi vende carcasse di capi deceduti per cause naturali. Una tigre morta, al mercato nero, vale almeno 60mila dollari. Mantenerla viva costa invece 40mila dollari all'anno. Nella catena montuosa di Wanda, nella regione settentrionale dello Heilongjiang, un cucciolo di tigre siberiana è stato ucciso a fucilate nella legnaia di un contadino. Era il primo piccolo trovato libero negli ultimi vent'anni. L'agricoltore, spaventato dai ruggiti, ha chiamato la polizia per farlo catturare. Gli agenti gli hanno sparato e, dopo averne venduto il corpo, hanno nascosto la notizia. Scoperti, si sono
giustificati: «Non volevamo fare pubblicità negativa al paese». Nel Tiger Park della Manciuria, aperto per salvare gli ultimi esemplari di tigri cinesi, i funzionari macellavano gli animali e vendevano ai turisti un vino liquoroso che conteneva schegge delle loro ossa. Secondo la medicina tradizionale, l'infuso fa miracoli contro i reumatismi. I funzionari chiedevano l'equivalente di 422 dollari a bottiglia. Nello zoo di Dongguan, nella provincia meridionale del Guangdong, gli inservienti hanno invece macellato centinaia di animali, tra cui giraffe, scimmie, orsi, elefanti, cammelli e uccelli rari. La carne è stata usata per sfamare le altre bestie, o venduta come cibo agli operai di un cantiere edile. Alcuni dirigenti del partito sì sono contesi i trofei e i tagli di carne più eccentrici, organizzando banchetti in un ristorante di Can-ton. Un simile commercio è vietato dal 1993, ma la legge cinese permette a chiunque di aprire uno zoo privato. Le società diventano proprietarie degli esemplari che espongono e possono disporne secondo interesse. Nel paese, negli ultimi anni, sono sorti centinaia di giardini con animali e il commercio di carni e organi ha raggiunto cifre da capogiro. La maggioranza degli zoo spende più soldi in celle frigorifere che in cibo per le bestie. I dipendenti, senza stipendio per mesi, uccidono e vendono i capi per sopravvivere. Gli animali morti di stenti vengono cucinati perché si ritiene siano molto energetici. In decine di città vengono organizzati spettacoli in cui mucche e pecore vengono liberate nei recinti dei carnivori. I siti web dei parchi promuovono i prodotti «ricavati dai nostri animali morti di vecchiaia». In alcuni casi, su ordinazione, denti, artigli, peni e occhi vengono estratti da animali vivi, così da rendere le loro virtù ancora più prodigiose. Il numero dei capi uccisi e l'atrocità con cui vengono trattati, ha indotto il governo a minacciare una revisione della legge che consente la riproduzione in cattività e l'allevamento delle specie in via di estinzione. «Se risulterà che la pratica è su larga scala - ha detto un alto funzionario del ministero delle Foreste - adotteremo misure per fermarla». Il mercato è florido, la medicina antica radicata, la strage continuerà. La via dell'amore per la vita è ancora lunga, per la Cina baciata da troppa bellezza.

Piccole storie cinesi di GIAMPAOLO VISETTI, repubblica delle donne, 8 maggio 2010

sabato 8 maggio 2010

ambiente parco a brescia

E' stato inaugurato in questi giorni:
http://www.ambienteparco.it

Camera semivuota sulla crisi greca

Gli assenti, li dovremmo mandare tutti a casa a pedate nel culo!
gg
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Roma sbadiglia mentre Atene brucia
Camera semivuota sulla crisi greca
Poche decine di deputati al dibattito. Il Pd attacca: «C'erano solo due esponenti della Lega e 5-6 del Pdl»

ROMA - La crisi greca e le possibili ripercussioni sugli altri Paesi europei non appassionano più di tanto i deputati italiani. Mentre Atene brucia, insomma, Roma sbadiglia. Erano infatti poche decine i parlamentari presenti al dibattito alla Camera e durante l'intervento del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Un confronto iniziato con meno di venti deputati in aula e culminato con circa 70. A «brillare» sono le assenze soprattutto della maggioranza. Due soli deputati della Lega, ben pochi del Pdl, qualcuno in più sui banchi del Pd.

LE REAZIONI - Il deputato democratico Francesco Boccia,coordinatore delle commissioni economiche del gruppo, non ci sta a far passare come generalizzata l'assenza dei parlamentari al dibattito. «Chiunque ha osservato l'aula ha potuto notare la presenza di soli 2 deputati della Lega, 5-6 del Pdl per quanto riguarda la maggioranza. Non è possibile alcun paragone con le presenze dell'opposizione, in particolare il Pd che era presente con oltre 70 deputati». «Sono choccato dalle presenze, anzi dalle assenze in aula durante le comunicazioni di Tremonti sulla crisi della Grecia» dice Matteo Colaninno, responsabile Finanzia internazionale del Pd, parlando in Transatlantico con i cronisti subito dopo il dibattito. «Ho contato al massimo 11 deputati del Pdl - racconta l'esponente del Pd - due della Lega, undici dell'Udc, tre dell'Idv e 38 del Pd. E in aula c'era il ministro dell'Economia che riferiva della crisi greca, cioè una cosa gravissima che riguarda noi. E pensare che si parla di centralità del Parlamento! Vuol dire che non c'è consapevolezza di quello che accade». Nel corso dell'informativa del ministro Tremonti sulla crisi in Grecia e nella successiva replica affidata per l'Udc all'onorevole Ferdinando Adornato,«erano nove gli esponenti del gruppo dell'Unione di Centro presenti nell'Aula di Montecitorio, tra cui il leader Pier Ferdinando Casini, il segretario Lorenzo Cesa, il presidente Rocco Buttiglione e il coordinatore della Costituente Savino Pezzotta»: è la puntualizzazione dell'ufficio stampa dell'Udc che fa chiarezza sulle cifre del gruppo di centro. «A fronte di una consistenza numerica di 39 deputati, l'Udc risultava quindi non certo al completo ma comunque uno dei partiti più presenti in un'Aula che vedeva gruppi rappresentati anche da due soli esponenti».

da repubblica, 6 maggio 2010

venerdì 7 maggio 2010

La bella tv con Zagrebelsky

Può capitare, nell’indifferenziata e gelatinosa materia di cui è fatta la tv, che giunga un alieno a tarda ora a restituirci la fiducia in un medium così popolare e logorato. Gustavo Zagrebelsky (“Parla con me”, RaiTre, mercoledì, 22.55) presidente emerito della Corte Costituzionale, intervistato da Serena Dandini, ci dimostra
che si può fare televisione anche solo con le parole. Citando testi e autori antichi e moderni.

Quasi come in una sorte di lezione.
Anche senza essere Benigni. Senza doversi camuffare. Senza involgarire o “alleggerire” il pensiero . Un “alieno” perché
televisivamente diverso: perché rifugge dal modello corrente del fast thinker, e anzi si permette il lusso di ragionare sul serio. Non
per esibire narcisisticamente la propria eloquenza. Pesando le parole, senza compiacersene mai. Spiegando il titolo del suo libro,
“Scambiarsi la veste” (Laterza, 2010), ricorda intanto che si tratta di una citazione da “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann. Il
tema è quello del rapporto fra Stato e Chiesa. Chi ha diritto di primogenitura fra l’uno e l'altra? Per comprenderne le ragioni storiche
e filosofiche, Zagrebelsky è costretto a tornare molto indietro nel tempo, a Marco Terenzio Varrone, che visse prima di Cristo, per il
quale “prima si fondano le città e poi gli uomini inventano gli dei”. Gli dei quindi come una funzione del potere, utili per costruirne
l’autorità e legittimarne le decisioni. Ovviamente Sant’A go s t i n o ribalta i termini: “No, prima Dio e poi la politica”. Ed ecco
giungere infine la frase di Mann, per il quale la questione è un po’ simile a quella dell'uovo e della gallina, e nell'impossibilità di
una soluzione che ne individui l'origine prima, spiega che religione e politica nel corso del tempo “si scambiano la ve s t e ”.
Miracolosa sintesi di duemila anni di pensiero. “Laicità, allora, presupporrebbe che ci siano due vesti e che non siano
interscambiabili”: introduzione al dibattito contemporaneo, che spazza via peraltro le inutili e speciose distinzioni fra laicità e
laicismo. Lui stesso aveva chiesto prima alla Dandini: sono più importanti gli uomini o le istituzioni? E lei, pensando di fare cosa
gradita all’o s p ite, eminente giurista, s’e ra affrettata a rispondere, come una scolaretta compiacente: “Le istituzioni”. No:
“Risposta sbagliata. Anche una cattiva costituzione può andare bene se ci sono uomini buoni”. Ma non vale il contrario: “Non c’è nessuna
ottima costituzione che può funzionare se la classe politica è corrotta”. Come raccontare meglio di così l'attualità? E perfino il
recente passato politico, che ha inseguito e tuttora insegue invano l’idea di “r iform a re ” l’abito delle istituzioni, e si perde
nelle cavillose diatribe su quale sia il “s istema migliore”: il semipresidenzialismo alla francese, l’elezione diretta del premier
all’israeliana, il cancellierato alla tedesca o il presidenzialismo all'italiana? Non c’è un sistema migliore, direbbe con la saggezza
travestita di semplicità Zagrebelsky. O meglio, forse sì, certo, ma prima vengono gli uomini.

di Luigi Galella.
da "il fatto" 7 maggio 2010

martedì 4 maggio 2010

Così la vita è diventata post-crescita

La fine della corsa all´acquisto sfrenato e l´emergere di un nuovo tipo di consumatore, più attivo e responsabile. Nel suo ultimo saggio, Giampaolo Fabris fotografa la società al tempo della crisi
Si affitta di tutto, dal passeggino all´abito da sposa e il fashion victim tende a scomparire Le considerazioni etiche orientano spesso chi compra: ecco il successo del biologico.
Oggi la scelta di un´auto ibrida o di bere l´acqua del rubinetto sono veri gesti identitari.

«È finita l´era della crescita bulimica. La decrescita è impossibile. Stiamo entrando nella fase della post-crescita». È una vita che Giampaolo Fabris si occupa di consumi e stili di vita. Sin da quando, giovane professore di sociologia a Trento e vicino al Pci, predicava il valore liberatorio dei consumi, e otteneva in cambio da colleghi e compagni di partito ironia e diffidenza. 

«In Italia, a sinistra, ha dominato una cultura catto-comunista che esaltava la produzione, il lavoro, e relegava al privato la questione dei consumi. Come se gli stili di vita fossero inessenziali». Oggi, un centinaio di pubblicazioni e diversi incarichi dopo (professore allo IULM e al San Raffaele, presidente della Triennale), Fabris torna al tema prediletto e coglie la società italiana in una fase di passaggio, di ripensamento critico ma anche di straordinarie opportunità. Il suo ultimo libro, La società post-crescita. Consumi e stili di vita (Egea, pagg. 421, euro 26,50), racconta la fine della corsa agli acquisti, delle case riempite di ogni genere di bene inutile, dei desideri moltiplicati all´infinito. E l´emergere di una nuova figura di consumatore, o consumattore, più attivo, cosciente, responsabile rispetto al passato.

Giampaolo Fabris, che sta succedendo?

«Succede che la crisi ha accelerato un processo in corso ormai da anni. L´aumento dei consumi non produce più maggiore felicità. C´è stata una fase, conclusa alla fine degli anni Novanta, che ha portato nelle nostre vite una serie di beni che ci hanno consentito di vivere meglio. Poi c´è stato un salto quantico, e siamo passati alla società dell´iperconsumo, in cui i bisogni si riproducono incessantemente. Cambiamo il cellulare in media ogni undici mesi. Ci buttiamo sull´ultima generazione di computer. Riempiamo gli armadi di vestiti e maglioni che non indosseremo. Tutte le ricerche dicono però che questa bulimia non ha prodotto più felicità. La curva del consumo, e quella del benessere, si sono separate».

La soluzione è consumare meno?

«La soluzione che si sta imponendo è consumare in modo diverso. Riproporre una società frugale può essere ammirevole, ma è elitario, anacronistico. Indietro non si torna. La tendenza oggi è quella a un consumo più critico. Non è la quantità, ma la qualità, a fare la differenza. L´individuo-consumatore crede che il consumo rappresenti una parte importante di sé, e agisce di conseguenza. La scelta di un´auto ibrida, o di bere l´acqua del rubinetto, sono veri e propri atti identitari».

Che conseguenza ha avuto questo nuovo atteggiamento nei consumi?

«Il fatto inedito è soprattutto uno. Proprio perché atto di identità, il consumo si lega ormai a considerazioni etiche, politiche, pubbliche. Le faccio l´esempio dei prodotti alimentari biologici, non toccati dalla crisi delle vendite, nonostante costino il 10-12% in più rispetto a quelli normali. In un primo tempo, la motivazione che spingeva all´acquisto del biologico era legata soprattutto alla salute. Mangio biologico perché fa meglio. Oggi chi compra i prodotti della terra lo fa perché sono all´insegna della biodiversità, di un´agricoltura non di tipo estensivo. La soddisfazione immediata del bisogno non c´entra più. Stesso discorso per i cosmetici. Fino a qualche anno fa, tutto quello che era chimico, di sintesi, era privilegiato. Oggi è la naturalità che vende. Penso a catene come Occitane, o Body Shop. La riscoperta della natura, del mondo contadino, il rapporto con il territorio sono motivazioni che orientano fasce sempre più larghe di consumatori».

Il consumo etico e responsabile punisce, oltre a premiare?

«Certo. Alcuni anni fa, ai tempi dello scandalo Parmalat, feci una serie di ricerche. Scoprii che il consumatore, anche se non coinvolto direttamente nel crack dell´azienda, era arrabbiatissimo.
Non aveva perso nulla, in termini economici, monetari. Ma aveva perso la fiducia».

Altri segnali di questo mutato stile di vita?

«Gli sprechi. La diminuzione delle spese alimentari si spiega anche con la riduzione degli sprechi. La durata. Quando acquistiamo un prodotto, valutiamo di più l´elemento della durata. Un po´ come facevano le nostre nonne. Il risparmio. Il consumo di acque minerali diminuisce perché cresce la consapevolezza che una bottiglia che fa 1000 km per arrivare sulla nostra tavola, consuma energia. L´autonomia. Il consumo critico è segnato da una maggiore autonomia dai marchi. Vestirsi diventa come comporre un palinsesto. La figura della fashion victim tende a scomparire. E ancora, l´affitto, l´accesso, la condivisione. Oggi si affitta tutto, dal passeggino per i bambini all´abito da sposa. Perché devo comprare un oggetto che mi serve poco e poi occupa spazio in casa?».

Quanto è stata importante la Rete nell´emergere di questa nuova figura di consumatore?«Non è stata importante. È stata fondamentale. La Rete esplode di blog, commenti, dibattiti sui consumi. La Rete rilancia richieste e diritti dei consumatori. La mamma di un bambino autistico, maltrattato alla Carrefour di Assago, consegnò alla Rete la sua protesta. Dovette muoversi l´amministratore delegato di Carrefour, per limitare lo scandalo».

Le imprese hanno registrato le novità?

«Pochissimo. È per esempio incredibile che le aziende alimentari italiane non siano all´avanguardia nei prodotti biologici. In giro c´è pochissima coscienza dei cambiamenti avvenuti. Ho partecipato a una riunione tra sindaci, imprese, istituzioni del Monferrato. Ho proposto di rendere la zona la prima ogm free d´Italia. I benefici, economici, turistici, ambientali, sarebbero enormi. Non ho ottenuto alcuna risposta».

All´estero è meglio?

«Senza dubbio. Walmart, la più grande impresa al mondo, ha per anni devastato l´ambiente e imposto condizioni di lavoro scandalose. Oggi è diventata, con i suoi fornitori, la più vigorosa interprete di richieste di qualità. Lo fa mossa da ragioni morali? No. Lo fa perché conviene».

Quali saranno in futuro i beni più richiesti?

«Quelli relazionali. Quelli che aumentano la partecipazione. In questo senso sarebbe fondamentale il ruolo delle istituzioni pubbliche. Pensiamo solo cosa potrebbe essere fatto nelle piazze d´Italia. Pensiamo come potrebbero essere trasformate le nostre stazioni. In realtà, non si fa nulla. L´ex sindaco di Milano Albertini diceva di essere come un amministratore di condominio…».

Un´ultima cosa. Che opportunità offre alla sinistra questa nuova coscienza nei consumi?

«Enorme. In un momento di generale caduta dei sistemi teorici e ideologici, le questioni legate al consumo diventano uno straordinario terreno di battaglia e acquisizione dei diritti. Boycott/Buycott esprime una posizione politica attraverso il consumo. Da noi lo ha capito prima Berlusconi, che ha offerto un modello di consumo, e ha capito che stile di vita, desideri, aspirazioni, sono fondamentali nell´orientare le scelte politiche. Spero che la sinistra si svegli».
di Roberto Festa - La Repubblica 22/03/2010

lunedì 3 maggio 2010

Guerrillieri verdi all'appello, per seminare semi di girasole in città!

Il 1 Maggio 2010 in tutto il mondo, si è festeggiato il Guerrilla
Gardening Sunflower, un evento internazionale che coinvolge i cittadini
intenzionati a manifestare, attraverso una pacifica azione diretta e
spontanea, il desiderio di vivere la città in maniera gioiosa ed
ecologicamente sostenibile.
Un gruppo di attivisti dell'associazione
ambientalista Terra! si è ritrovato oggi pomeriggio per seminare
girasoli nelle aiuole abbandonate di Firenze, confidando nella
collaborazione della popolazione residente per permettere alle piantine
di sopravvivere e svilupparsi.
In alcune aiuole spartitraffico di
Firenze e Genova, sotto gli occhi dei passanti incuriositi, sono stati
interrati i semi e alcuni abitanti della zona si sono offerti di
bagnarli.
Il guerrilla gardening rappresenta la volontà di
riappropriarsi degli spazi comuni e di riscoprire il piacere di curare
insieme il luogo in cui si vive con spirito di condivisione e
responsabilità sociale. Tutto questo attraverso una forma di
giardinaggio urbano spontanea e autogestita, volta solo
all'abbellimento dello spazio urbano. Una forma di “protesta”
assolutamente civile e positiva che può coinvolgere persone di ogni
età, specialmente i più giovani per i quali l'azione diretta è uno dei
mezzi per mantenere l'ottimismo e la fiducia, sotto il motto
“trasformiamo il cemento in fiori”.

l'eucarestia da divorziati

Basta poco per ricevere da divorziati l'eucarestia

L'ARCIVESCOVO di Lanciano-Ottona monsignor Ghidelli, ha preso le difese del nostro presidente del Consiglio, dicendo che poteva fare la comunione in quanto non è più convivente con nessuna delle due ex mogli, e poi se si è confessato (pentendosi delle frequentazioni del-
l'amore mercenario) ed è nuovamente puro. Mi chiedo come mai ad una signora del mio paese pia e sempre devota, abbandonata dal marito dopo 40 anni il parroco ha vietato di fare la comunione in quanto separata. Ah, dimenticavo, il marito ha regalato alla parrocchia una statua della Madonna che fa bella mostra vicino all'altare.
Paolo Sanna
Bosa, Sassari

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Ma Berlusconi, divorziato, può fare la comunione?
Ai funerali del signor Vianello, al momento della comunione il signor Berlusconi si accosta all'altare
e prende l'ostia consacrata. Ma nonè un divorziato?
Risponde Michele Serra:

Sono del tutto impreparato in materia, ma immagino che tra un divorziato semplice e un divorziato Unto dal Signore esistano evidenti differenze di valutazione: la Chiesa, come la Legge, è uguale per tutti solo negli auspici degli ingenui. Più in generale, cara Nella, a me sembra che la vasta comunità cattolica italiana non sia molto disposta a cogliere eventuali incompatibilità tra Berlusconi e il dettato della Chiesa. A partire dall'interminabile sabba di mercanzie e di culi che le sue tv hanno imposto come visione del mondo, credo che nessuno come lui abbia inferto colpi altrettanto letali alla cosiddetta «morale cattolica». Poiché la maggioranza dei cattolici lo vota, e i vescovi lo sostengono, dobbiamo dedurne che sono loro, per primi, a mettere tra parentesi la forma e a badare alla sostanza: e la sostanza sono i quattrini alle scuole cattoliche, il potere e gli appalti della Sanità, la conservazione dei privilegi fiscali. Dei «peccati» di Berlusconi, ai cattolici italiani, non importa un fico: si sa che bastano la confessione e un paio di Pater-Ave-Gloria a lavare la coscienza più nera. Siamo solo noi miscredenti a prendere sul serio i peccati: perché sappiamo che dobbiamo portarne il peso da soli, senza nessun prete che ci assolva e benedica.

Venerdi di repubblica, 30 aprile 2010

Comprare casa come in Francia

PRENDENDO spunto dalle recenti notizie riguardo al presunto acquisto di un immobile da parte della figlia di un ministro per un controvalore di un milione e mezzo di cui novecento mila in nero (grazie anche alla "cavolata" di determinare il valore di un immobile con un multiplo della rendita catastale), vorrei informare il ministro Tremonti ed il suo capo tanto interessato al sistema presidenziale francese che in Francia per ogni transazione immobiliare esiste un diritto di prelazione per il Comune, da esercitare credo entro due mesi.Mi piacerebbe vedere se con questa norma, in Italia ci sarà ancora qualcuno che oserà vendere a 30 ciò che vale 100 e/o acquistare dichiarando 30 ciò che paga 100, col pericolo che il Comune possa esercitare il diritto ad acquistare a 30. Senza alcun costo ci sarebbe un buon contributo alle esangui casse statali e un buon debutto per fare emergere il nero tanto diffuso.
Massimo Pelizzoni
Grimaud, Francia
letterea a corradio augias, repubblica 1 maggio 2010

nucleare e fotovoltaico

Leggere "Il sole 24ore" è sempre interessante......... Premettendo che il quotidiano è della Confindustri, presieduta da Emma Marcegaglia, industriale dell'acciaio, industria interessata al nucleare come fonte di energia, ecco un interessante esempio di articoli relativi all'energia, ai posti di lavoro creati dal nucleare e dalle energie rinnovabili.
E io, comunque, tra un mese dovrei avere i pannelli solari sopra il tetto...
(gg)



Il fotovoltaico a rischio bolla


Quanto piacciono le fonti rinnovabili di energia. E su tutte, il fotovoltaico. Ma piacciono non solamente a chi deve spendere per realizzare le centrali rese interessanti dagli incentivi più succosi al mondo, come le famiglie che vogliono mettere i pannelli sul tetto di casa o le società elettriche che investono nel rischio imprenditoriale dei progetti industriali, ma soprattutto agli intermediari di autorizzazioni. Piacciono a chi, con l'investimento di un po' di contatti giusti sulla rubrica del telefonino, riesce a piazzare a caro prezzo i fogli di carta con i timbri del comune o la domanda di allacciamento presentata a Terna (la spa dell'alta tensione) o all'azienda di distribuzione elettrica locale. Si stima che alla fine riesca a passare un progetto su quindici. Tant'è che c'è ci pensa a una caparra per frenare i progetti farlocchi.
Sono soldi facili. Quei pezzi banali di carta possono essere rivenduti sul "mercato secondario" a circa 100mila euro per megawatt. Sono state depositate a Terna e all'Enel circa 45mila domande-fotocopia per 152mila megawatt (15,2 miliardi di valore ipotetico sul mercato virtuale). Tre volte la richiesta elettrica massima nell'ora di punta dell'intera Italia: il record assoluto di fabbisogno fu registrato il 17 dicembre 2007 alle ore 17,30 con 56.810 megawatt.
La "bolla" potrebbe scoppiare. I segnali ci sono. In Puglia la domanda furibonda di terreni per la posa di pannelli solari ha distorto i valori delle aree agricole. Gli ecologisti insorgono contro l'invasione fotovoltaica al posto delle colture. Il presidente della Puglia, Nichi Vendola, di fronte alla metastasi dei progetti ha annunciato un freno alle installazioni sui terreni agricoli. Ma il problema è internazionale, con i grandi nomi della finanza (basta pensare a Goldman Sachs) sbilanciati su questo tipo di investimenti. «Non va spezzato il giocattolo per la troppa ingordigia», commenta Antonio Costato, vicepresidente della Confindustria con delega all'energia. «La corsa smodata alle rinnovabili ha già costretto il governo tedesco a intervenire. Noi dobbiamo disciplinare in modo ordinato la materia prima che sia tardi».
Per correre ai ripari prima che la "bolla delle rinnovabili" scoppi – trascindando con sé tanti progetti validi – Terna e la Confindustria propongono un vincolo economico al mercato virtuale. Oggi la domanda di allacciamento costa 1.250 euro. Così Terna pensa che si potrebbe scremare i progetti alzando a 5mila euro per megawatt il costo della domanda di allacciamento. Non a caso Terna e la Confindustria hanno scritto all'Autorità dell'energia una lettera in cui sottolineano l'importanza dell'autorizzazione unica, un solo atto che comprenda la realizzazione dell'impianto e l'allacciamento alla rete.
«Dieci anni fa – ricorda Paride De Masi, imprenditore pugliese attivo nel settore delle rinnovabili – proposi una legge obiettivo per superare le difficoltà contro le infrastrutture energetiche e le rinnovabili. Ora è il momento di riproporre quella soluzione, e ne dibatterò al Festival dell'energia in programma a Lecce. L'Italia non ha alternative: c'è un obiettivo europeo da raggiungere».
Invece, accade che la valanga di carta paralizzi gli uffici regionali che devono dare il via libera. Anni fa, l'ufficio classico con quattro impiegati riusciva a gestire, seppure con lentezza amministrativa, le poche decine di pratiche l'anno. Oggi sulle scrivanie di quei martiri del timbro le richieste si accumulano a centinaia. E alcuni progetti tentano di scavalcare gli ingombri con procedure improprie.
Inoltre tante richieste di allacciamento impongono lavori impegnativi alla rete elettrica. L'anno scorso Terna ha dovuto realizzare 900 chilometri di linee con una spesa di 500 milioni e presto dovrà impegnare 1,1 miliardi. «Tutte le connessioni più semplici sono state prenotate – spiegano a Terna – e ai progetti seri bisogna proporre soluzioni di allacciamento sempre più remote e complesse».


Sole 24 ore, 1 Maggio 2010 di Jacopo Giliberto

LE STIME ANIE
Con il nucleare diecimila nuovi occupati
II ritorno dell'Italia all'energia nucleare potrebbe creare, solo nei comparti dell'elettromeccanica, ben 10mila nuovi posti di lavoro. È quanto emerso dal confronto avviato tra Anie, la federazione nazionale imprese elettrotecniche ed elettroniche aderente a Confindustria, e l'Enel, per valutare le opportunità di partecipazione delle imprese al programma nucleare Enel-Edf.
Gli investimenti - si legge in una nota - sono stimati in 18-20 miliardi di euro, oltre la metà dei quali dovrebbe avere ripercussioni sull'indotto italiano ed in particolare sulle imprese elettromeccaniche, se si considera che in media il 20-25% dell'investimento per la costruzione di un sito nucleare riguarda proprio le installazioni elettromeccaniche.
«Affinché la ricostituzione di una filiera nazionale sul nucleare costituisca un'opportunità per l'industria nazionale - ha dichiarato il presidente dell'Associazione energia di Confindustria Anie, Claudio Andrea Gemme - è necessario un quadro legislativo e normativo di riferimento chiaro, che dia sufficienti garanzie su tempistiche e procedure».
R.R.

La ricerca. Per ogni addetto servono fino a 1,3 milioni
Da sole e vento lavoro a caro prezzo
Una ricerca dell'Istituto Bruno Leoni punta l'indice sui costi pubblici eccessivi per la creazione di posti di lavoroFederico Rendina

Verdi,ma alverde.Inutile illudersi: la corsa ai green jobs, i posti di lavoro creati dall'energia rinnovabile, ci costerà davvero cara. Sette volte più cara di quello che i sussidi pubblici possono produrre nel resto dell'industria, cinque volte di più di quel che serve a oliare un nuovo posto di lavoro nell'economia in generale.
Frenare la corsa? Chiudere almeno un po' il rubinetto degli incentivi "verdi"? «Per carità. Non vogliamo dire questo. Il nostro è semmai un contributo analitico per capire, far capire, l'onerosissimo sforzo che il nostro paese sta facendo per assolvere ai suoi obblighi nazionali e internazionali rispetto alle energie rinnovabili», risponde Carlo Stagnaro, stratega dell'Istituto Bruno Leoni, coautore con Luciano Lavecchia di un paper dal titolo un po' provocatorio (Are green jobs real jobs? The case of Italy) che sarà presentato lunedì in un convegno a Milano.
I sussidi Cip6 che dal 1992 trainano le centrali elettriche verdi (ma anche un mucchio di "assimilate" che di ecologico non hanno proprio nulla). E poi il meccanismo del conto energia, che strapaga gli elettroni solari. E ancora: i certificati verdi, sempre pagati con un'addizionale su tutte le bollette. Un fiume di soldi per un rigagnolo di posti di lavoro. Ottenuti attraverso un
sussidio netto, calcolato come differenza tra i denari tirati fuori dalla collettività e il valore di mercato dell'energia cosi prodotta, che nel 2008 solo per il Cip6 ammontava a 2,3 miliardi di euro, di cui appena 0,95 dedicati peraltro alle rinnovabili"au-tentiche" (il 41% del sussidio totale). A cui si sommano, sempre per il 2008, almeno 100-120 milioni dedicati al conto energia e i 400 milioni dei certificati verdi. Il tutto per compensare i maggiori costi di produzione dell'energia verde con prezzi di "ritiro" triplicati rispetto al valore medio dell'energia, con punte di sei volte per il fotovoltaico.
Posti di lavoro creati nel 2008? Tra 5.700 e 15mila (a seconda delle stime che circolano) nel fotovoltaico, tra 17mila e 28mila nell'eolico. Al costo unitario, in termini di puro sussidio, valutabile dai 19.500 ai 55mila euro nell'eolico e tra 7.500 e poco meno di 20mila euro nel solare.
Cosa succederà di questo passo da qui al 2020? Se consideriamo gli obiettivi tendenziali (assai ambiziosi) il semplice mantenimento nel tempo degli attuali sussidi produce comunque una simulazione piuttosto attendibile se non altro nelle proporzioni tra i posti creati e il sussidio da dedicare all'operazione.
Ecco dunque che al 2020 potrebbero essere creati da 24mila e 45mila posti di lavoro nell'eolico e tra 27mila e 46mila nel fotovoltaico, con sussidi cumulati al 2035-2040 (quando scadranno, le "code" degli stanziamenti nel frattempo garantiti) di circa 31 miliardi di euro nell'eolico e 33 nel fotovoltaico. Ne risulta che per ogni posto di lavoro creato saranno state mobilitate risorse tra 500mila euro e 1,3 milioni nell'eolico, e tra 70omila euro e 1,2 milioni nel fotovoltaico, pari in media a circa cinque e sette volte lo stock di capitale medio per lavoratore nell'economia in generale e nel settore industriale. Un'operazione decisamente ciclopica.
Sole 24 ore, 1 maggio 2010 Federico Rendina

Cacca, ultimo tabù.

Dalla defecazione per strada nelle baraccopoli indiane alle fogne inglesi in compagnia dei flusher (addetti al trattamento acque). Dall'uso delle feci umane come fertilizzante, in Cina, ai gabinetti high tech giapponesi (i Toto, con l'asse riscaldato e il bidè incorporato). La scrittrice inglese Rose George ha girato per due anni il mondo, e in "Il grande bisogno" (Bompiani) racconta i risultati delle sue ricerche, parlando di rifiuti umani in modo intelligente per denunciare su scala globale malattie, differenze culturali, sociali e sessuali, inquinamento e pratiche di smaltimento dei reflui. Brava Rose George! C'è bisogno dì giornaliste coraggiose come lei. Ho bisogno di andare in bagno. Presumo che ce ne sia uno, sebbene mi trovi in uno spartano ristorante della Costa d'Avorio, in una cittadina piena di profughi della confinante Liberia, dove l'acqua viene approvvigionata con secchi e dove gli asciugamani si comprano usati. Il cameriere, un giovane liberiano, si limita ad annuire. Mi conduce attraverso l'oscurità fino a un edificio composto da un vano, accende la luce e se ne va. Pavimento e muri sono ricoperti di piastrelle bianche. Stop. Niente tazza, niente buco, nessun indizio. Esco per chiedergli se per caso non abbia sbagliato posto. Mi sorride sarcastico. I profughi non si divertono granché, ma lui adesso un po' sì. «Falla sul pavimento. Che aspetti? Qui non siamo in America!» Mi sento un'idiota. Gli dico che mi accontento dei cespugli, che non sono così schizzinosa, ma lui è sparito, l'eco della sua risata si perde nell'oscurità.
Ho bisogno di andare in bagno. Lascio la sala di lettura della British Library a Londra e trovo una toilette per signore dopo pochi metri. Nel caso non sia di mio gradimento, ce n'è un'altra dall'altro lato dello stesso piano, e molte altre distribuite sui cinque piani. Alle sei di sera, dopo che migliaia di persone sono entrate e uscite dalla biblioteca e dalle toilette, i cubìcoli sono ancora puliti. Faccio quello che devo, poi scarico l'acqua e dimentico tutto, immediatamente, perché posso farlo e perché per tutta la vita non ho fatto nulla di diverso. Questo è il motivo per cui il cameriere liberiano si è preso gioco di me. Ha pensato che ritenessi un mio diritto il disporre di una toilette, quando invece sapeva che era un privilegio. Dev'essere così, se 2,6 miliardi dì persone non dispongono di servizi igienici. 

4 persone su 10 non hanno alcuna latrina, toilette, secchio o casupola. Niente. Al contrario, defecano lungo i binari dei treni o nei boschi. Lo fanno dentro sacchetti di plastica che lanciano in aria nelle vie delle baraccopoli. Se si tratta di donne, si alzano alle quattro del mattino per fare le loro cose protette dal buio per la privacy, per il rischio di stupro o di un morso di un serpente. 
4 persone su 10 vìvono circondate dagli escrementi umani. Il prezzo da pagare in termini di malattie è sbalorditivo. Un grammo di feci può contenere 10 milioni di virus, 1 milione di batteri, 1000 cisti parassite e 100 uova di vermi. Un esperto di igiene ha stimato che le persone che vivono in zone con un sistema fognario inadeguato ingeriscono giornalmente dieci grammi di materiale fecale. 
La mancanza di scarichi fognari, le condizioni igieniche inadeguate e l'acqua contaminata - solitamente da particelle fecali - causano un decimo delle malattie mondiali. E sono i bambini a essere i più colpiti. La diarrea - che per il 90 per cento è causata da cibo o acqua contaminati da feci - uccide un bambino ogni quindici secondi. Gli esperti parlano di malattie generate dall'acqua, ma questo è un eufemismo. In realtà sono causate dalla merda. Nella primavera del 2007 la città di Galway, sulla costa occidentale dell'Irlanda, espose alla Galway Arts Parade un uomo con un costume verde peloso, con molte braccia e un occhio solo. Si chiamava Crypto e chiunque avesse trascorso a Galway i precedenti cinque mesi, non avrebbe avuto bisogno di presentazioni, perché Crypto era la causa per cui una città, culturalmente a livelli mondiali, stava vivendo in condizioni ben note agli abitanti dei peggiori bassifondi del mondo. Crypto era una grande versione pacioccona di un parassita chiamato cryptosporidium, che viaggia nelle feci. Per oltre cinque mesi, Crypto e i suoi miliardi di cugini avevano fatto sì che una città ricca e moderna, in una nazione ricca e moderna, dovesse bollire l'acqua. Tutto era cominciato agli inizi di marzo, con casi di mal di stomaco e diarrea. Vi furono numerosi ricoveri in ospedale dei soggetti più vulnerabili (gli anziani, i giovani, gli im-munodepressi) e c'era grande incertezza sulle cause. Qualcosa aveva inquinato l'impianto dell'acqua potabile di Lough Corrib. All'inizio la responsabilità venne data alle vacche. Poi fu data la colpa agli allevatori e ai residui dei pesticidi con cui trattavano i loro campi. Poi qualcuno cominciò a nutrire sospetti sulle fogne. Gli esami iniziali stabilirono che la gran parte delle infezioni era dovuta al Cryptosporidium homìnis, che si trasmette da individuo a individuo. Un'inchiesta della radio irlandese scoprì che i livelli di cryptosporidium negli effluenti scaricati nel Lough dalla rete di acque nere di Oughterard erano 600 volte superiori ai limiti ammessi in Irlanda del Nord. Un quinto delle città irlandesi è a elevato rischio dì infezione da cryptosporidium. Quasi la metà del paese tratta le proprie deiezioni solo a un livello primario, che significa separare i corpi grossolani per poi scaricare il resto. L'Irlanda non è l'unico paese ricco ad avere un'infrastruttura più adatta a un paese sottosviluppato. Milano, capitale culturale italiana e capitale intemazionale della moda, fino a poco tempo fa non riusciva a far altro che scaricare i propri liquami, non trattati e pericolosi, nell'agonizzante fiume Lambro. Cinque anni fa la città ha finalmente costruito il suo primo impianto di trattamento, spronata dalla Comunità Europea che minacciava una multa di 15 milioni di dollari al giorno per il mancato adempimento a una direttiva sullo smaltimento dei reflui. Tutto ciò suona ironico, dato che Bruxelles, sede della Comunità Europea, ha cominciato solo nel 2003 a costruire un impianto di trattamento per le proprie acque reflue. Prima di allora i liquami di tutti i diplomatici, i burocrati e le persone ingegnose e competenti venivano scaricati in un fiume, e quelle persone ingegnose e competenti non se ne facevano un problema. 
Negli Stati Uniti - dove 1,7 milioni di persone vivono senza servizi igienici - il cryptosporidium nell'acqua potabile di Milwaukee fece ammalare 400mila persone, uccidendone 100. Si trattò del più grande caso di infezione per contaminazione delle acque nella storia degli Stati Uniti, e avvenne nel 1993, oltre 100 anni dopo che i padri delle città americane ebbero installato tubazioni per l'acqua, fogne e impianti di trattamento per allontanare le acque nere. Per portarle dove? Milwaukee scarica refluo trattato - per rimuovere alcune cose, ma non gli scarti farmaceutici o tutti i patogeni - nel lago Michigan, che fornisce anche l'acqua potabile. A volte si scarica anche di refluo non trattato. Dal 1994 sono stati versati nel lago 3,5 milioni di metri cubi di "liquame puro". Questo non è illegale, ma è ciò che il sistema fa nel caso in cui l'acqua piovana superi la capacità di stoccaggio degli impianti. Il 90% degli scarichi mondiali finisce tale e quale negli oceani, nei fiumi e nei laghi, e una buona porzione arriva da città dotate di fognature e impianti di trattamento. Il sistema delle acque reflue nei paesi occidentali è costituito da tubazioni e si fonda su condutture. Nonostante la tecnologia, al di là del luccicare del progresso e dei wc, perfino i popoli più ricchi ancora non sanno cosa fare con i refluì, se non spostarli da qualche parte e sperare che nessuno si accorga quando sono scaricati, non trattati, nelle fonti di acqua potabile. E nessuno se ne accorge. (© Bompiani/Rcs libri Spa)
Mara Accettura repubblica delle donne, 30 aprile 2010

Fermiamo il nucleare, non serve all'Italia


SE verifichiamo il fabbisogno di energia, ci accorgiamo che quello che non riescono a fare attualmente  le energie rinnovabili (tipo il sole e il vento) è la potenza "di picco", quella che serve agli industriale dell'acciaio, dell'alluminio e delle ceramiche.
 L'energia nucleare serve solo a loro, non ai cittadini.
Vogliono il nucleare? LO facciano loro, da privati. Premesso che non c'è privato nel mondo che abbia costruito una centrale, sappiano che ci sono alcune "spesucce":
  • Costruzione centrale
  • smantellamento centrale dopo X anni, durata da stabilire in anticipo onde evitare di trovarsi con rottami ingestibili; i costi di smantellamento devono essere garantiti da fidijussione.
  • spese di gestione
  • approvvigionamento uranio (da importare, subendo eventuali ricatti internazionali e aumento dei prezzi)
  • spese di sicurezza (attentati, ecc)
  • "Convincimento" popolazioni, che devono tenere conto anche del fatto che una centrale nucleare ha necessità di moltissima acqua.
C'è un industriale che , fatti quattro conti, è ancora disponibile ad investire sul nucleare?
Il nucleare statale è un enorme affare a rischio tangenti!!!!!!
(gg)

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Fermiamo il nucleare, non serve all'Italia
Appello per un Comitato Nazionale

Crediamo che la scelta del Governo di far tornare il nucleare in Italia sia una scelta sbagliata e rischiosa, che non fa gli interessi dei cittadini e del Paese.

Alcuni dati lo dimostrano:

L'Italia ha una potenza elettrica installata di ormai quasi 100.000 megawatt, mentre il picco di consumi oggi non supera i 55.000 megawatt. Le recenti dichiarazioni di autosufficienza energetica dei Presidenti di alcune regioni italiane valgono anche per il resto del Paese. Non abbiamo dunque bisogno di nuova energia ma di energia rinnovabile in sostituzione di quella fossile.

Il nucleare costa troppo, in nessun paese al mondo si costruiscono centrali senza finanziamenti pubblici e garanzie statali, che ricadono poi sulle tasse e le bollette pagate dai cittadini. In Italia si distoglierebbero risorse importanti dalla ricerca per l'innovazione tecnologica e dalla diffusione dell'efficienza energetica e delle energie rinnovabili.

A fronte però dell'impiego di così ingenti risorse pubbliche, la risposta alla crisi economica e occupazionale non è significativa, soprattutto se equiparata al rapporto tra occupazione e investimento nei settori dell'efficienza energetica e delle rinnovabili. Secondo uno studio dell'Unione Europea del 2009 investire oggi per raggiungere nel 2020 il 20% di rinnovabili creerà 2,8 milioni di posti di lavoro con oltre 2000 imprese coinvolte.

Il nucleare continua a essere rischioso: anche per i reattori di terza generazione EPR in costruzione sono emersi gravi problemi di sicurezza, come hanno denunciato, a novembre 2009, con una nota congiunta le Agenzie di Sicurezza di Francia, Regno Unito e Finlandia. Inoltre è utile ricordare che nel mondo non è stato ancora risolto il problema di dove depositare in modo sicuro e definitivo le scorie.

Il nucleare non ridurrebbe la dipendenza energetica dall'estero perché importeremmo l'uranio e, secondo il recente accordo sottoscritto con la Francia, importeremmo tecnologia e brevetti esteri, per tutto il ciclo di vita fino alla messa in sicurezza delle scorie.

Quanto al presunto "rinascimento" del nucleare nel mondo, i Paesi che lo hanno scelto negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, sono costretti a prolungare l'attività delle loro centrali per evitare gli ingenti costi di smantellamento degli impianti a fine vita, come in Germania, o a progettarne di nuove, per evitare la crisi di un costosissimo comparto industriale, come in Francia.

Infine il nucleare non darà nessun contributo a rispettare i vincoli posti dall'Unione Europea per ridurre le emissioni di CO2 del 20% entro il 2020, perché le prime centrali non saranno operative prima del 2026-2030, e perché il complesso ciclo di approvvigionamento della materia prima, di costruzione e smantellamento produce non poca CO2.

Per tutte queste ragioni, s'invitano tutti a superare dispute ideologiche di parte e compiere scelte razionali e convenienti per il Paese, per contrastare i cambiamenti climatici e rispettare gli obiettivi posti dall'Unione Europea del 20-20-20. L'auspicio e l'impegno delle associazioni promotrici e di tutti gli aderenti è che si crei un grande schieramento unitario e trasversale, al di là delle diverse appartenenze e collocazioni politiche.

Vogliamo costruire insieme al mondo della cultura e della politica, della scienza e del lavoro, della società civile e delle imprese, strategie unitarie e comuni che possano ridare al Paese la prospettiva di un modello energetico sostenibile, sia dal punto di vista economico che ambientale.

Le associazioni promotrici:

Ambiente e Lavoro

Accademia Kronos

Associazione Mediterranea per la Natura

Comitato SI alle energie rinnovabili NO al nucleare

Fare Verde

Forum Ambientalista

Greenpeace

Italia Nostra

Jane Goodal Italia

Lav

Legambiente

Lipu

Mountain Wilderness

Pro Natura

Vas

Wwf

Nucleare e Berlusconi. Convincere o informare?

«Dobbiamo fare una vasta opera di convincimento sulla sicurezza delle nuove centrali». Così ha dichiarato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi a proposito della scelta nucleare. A questa opera di convincimento si dovrebbe prestare la Rai.

Una domanda sorge spontanea: gli italiani devono essere convinti o informati per farsi una loro convinzione? Sicurezza a parte (ovviamente ha tutta la sua importanza), noi vorremmo informare gli italiani che la scelta nucleare non e' economicamente valida. Facciamo un po' di conti.

* La produzione elettrica rappresenta il 18% del nostro fabbisogno energetico complessivo.
* L'82% del fabbisogno energetico va essenzialmente ai trasporti. Il che significa che per 4/5 di fabbisogno energetico dovremo ancora far riferimento al petrolio e derivati.
* Il 25% del 18% fa 4,5%, che è la quota riservata alla produzione di energia elettrica dal nucleare sul fabbisogno energetico complessivo.

Dunque il nucleare ci fornirà una percentuale limitata di energia, il 4,5% appunto, che può essere ottenuta ottimizzando la produzione e attuando politiche di sviluppo delle energie rinnovabili. Queste argomentazioni non sono "urla e strepiti" come scrive qualche giornale. Ci si confronti su argomentazioni, non su scelte ideologiche o interessi di bottega: è la prima cosa che chiediamo.