Le sette sorelle del cibo
IL MENÙ sulla tavola degli italiani è un affare in mano a sette sorelle. Noi scriviamo la lista della spesa, decidiamo che piatti servire, apparecchiamo e cuciniamo. Ma i veri padroni del nostro gusto sono i giganti della grande distribuzione organizzata (gdo).
Il 70% del cibo che entra nelle nostre case arriva dai loro scaffali. E i sette big del settore (Coop, Conad, Selex, Carrefour, Auchan, Esselunga e Despar) muovono da soli quasi il 65% del mercato. Scelgono i fornitori, decretano con un sì o con un no (viste le dimensioni dei loro ordini) i destini di agricoltori, stalle e aziende. E poco alla volta - come dice amaro Lorenzo Bazzana di Coldiretti - «hanno cambiato il palato degli italiani, nel nome del conto economico».
Noi, con la lista della spesa in una mano e il carrello nell' altra, non ce ne siamo nemmeno accorti. Ma il nostro frigorifero - nell' era low-cost della gdo - è diventato un melting pot alimentare multi-etnico a prova di Bossi-Fini.
«Prenda i pomodori - spiega Piero Sardo, responsabile bio-diversità di Slow Food - A Pachino in Sicilia si producono i migliori del mondo. Eppure spesso nei supermercati troviamo quelli che arrivano dall' Olanda, caricature dei pomodori veri».
Il motivo? Semplice. Non solo costano meno, ma soprattutto arrivano agli iper in modo regolare e costante 12 mesi l' anno grazie alle miracolose serre idroponiche dei Paesi Bassi e a una logistica molto più efficiente. Stesso discorso per le pesche, un altro prodotto il cui destino, con l' avvento della gdo, è cambiato per sempre. «Una volta si raccoglievano solo quelle mature, mettendole nelle cassette monostrato dopo aver diradato le foglie per favorire uno sviluppo armonico. Morbide, zuccherine, deliziose, pronte per il banco del fruttivendolo», ricorda Bazzana.
Oggi il fruttivendolo, in particolare nel Nord Italia, è una specie protetta dal Wwf. E verso un destino simile sono incamminate le pesche dolcissime di un tempo. Il vassoio monodose, in un super,è off limits: occupa troppo spazio. Un frutto (ma anche una verdura) troppo vicino alla maturazione pure: scade troppo in fretta. Così nelle campagne italiane si raccolgono le pesche ancora acerbe («e dure come il marmo», dice Sardo) in un unico momento e in cestini che si incastrano meglio negli scaffali.
Gusto vicino al segno algebrico negativo e prezzo salito dai 30 centesimi al chilo in campo fino ai due euro sullo scaffale, «dopo dieci passaggi di mano in una filiera che spesso nasconde interessi poco chiari», ammette Paolo Barberini, presidente di Federdistribuzione.
Demonizzare, naturalmente, è un errore. Siamo in un mondo globale dove la stella polare del capitale sono i costi bassi. «Noi acquistiamo tutto quello che ci è possibile sul mercato italiano - assicura il numero uno della gdo tricolore, Barberini - Abbiamo portato la mozzarella di bufala in Lombardia e il Culatello di Zibello in Sicilia. In vendita mettiamo quello che chiedono i consumatori, dai prodotti d' alta qualità a quelli low-cost. E, per dire, abbiamo fatto risparmiare loro un miliardo solo nel 2009».
Il problema è che gli italiani hanno sempre meno tempo e meno soldi. E i grandi supermercati sono la risposta più semplice a questo doppio problema. Quindici anni fa, 4 cittadini del Belpaese su 10 facevano la spesa nel negozio sotto casa. Oggi sono meno della metà. Mentre i super sono passati da 13mila a 20mila. La spiegazione è semplice: in un solo iper ci sono 20mila prodotti, luci e musiche studiate su misura (quella giusta fa vendere il 7% in più), una marea di articoli scontati (il 23% nel 2009), carte fedeltà fatte apposta per blandirci con specifiche iniziative di marketing. Morale: solo il 19% delle persone che entrano al super con la lista della spesa in mano arrivano alla cassa con nel carrello solo quello che si era appuntato. E in America si moltiplicano i casi di transfer di Gruen (dal nome dell' architetto che disegnò il primo iper), vertigini e perdita di consapevolezza innescate dalla struttura labirintica dei grandi magazzini.
«La modernità in questi casi è drammatica - dice Sardo di Slow Food - Le piccole produzioni di qualità non hanno accesso alla gdo. La mozzarella di bufala negli iper è fatta con latte cotto e non crudo e con acido citrico, il pane con preparati industriali, gli yogurt con le fragole surgelate arrivate all' industria dalla Cina. Abbiamo aperto troppi supermercati che si fanno la guerra sui costi e la qualità è crollata drammaticamente».
«Le prime cinque grandi imprese alimentari guadagnano ben più di noi», si difende Barberini e in effetti - conferma Andrea Zaghi, esperto del settore di Nomisma - pure le sette sorelle «hanno i margini ridotti all' osso».
Il problema è che a fare le spese di quest' asta al ribasso, alla fine, è il palato degli italiani. «Provate a fare assaggiare a un bambino un pollo ruspante - dice Sardo - Vi dirà che preferisce quello bianco, insapore, meno costoso e allevato in batteria cui è stato abituato della gdo».
Pure l' Europa e i suoi marchi di qualità un po' farlocchi ci hanno messo lo zampino. Dietro il simbolo Igp (indicazione geografica protetta) si nascondono Bresaole valtellinesi fatte con Zebù brasiliani, Speck tirolesi confezionati con maiali danesi, prosciutti crudi emiliani arrivati in realtà dalla Germania. Tutto regolare, perché l' Igp indica solo il luogo di lavorazione, anche se in pochi lo sanno. E tutti alla fine comprano il loro bel prodotto Igp, contenti di risparmiare.
«La colpa non è solo della gdo- conferma Zaghi - la nostra agricoltura è troppo polverizzata». «Prendiamo l' esempio delle pesche - dice Barberini - Nel Belpaese ci sono mini-frutticoltori con due-tre ettari di terra, non coordinati tra di loro. In Spagna i piccoli si sono consorziati, hanno programmato la produzione spalmandola su tre mesi. E alla fine lavorano con noi. In Italia ci propongono tonnellate di frutti tutti negli stessi 10 giorni. È un miracolo se li prendiamo a quei prezzi... ».
Vecchia polemica: Coldiretti sostiene che su 100 euro pagati per un prodotto al super, 60 vanno alla gdo e 17 solo all' agricoltore. Federdistribuzione sostiene di incassarne solo 30 contro i 33 dell' industria e i 37 del contadino.
Di sicuro però in Italia le stalle sono scese da 180mila a 43mila e il 50% delle aziende agricole, secondo un' indagine Inea, lavora in perdita. «Bisognerebbe fare come in Francia dove la grande distribuzione ha fatto un patto d' acciaio con i produttori locali per aiutarli ad aggirare la crisi», dice Sardo. «Per me è un esempio sbagliato- conclude Barberini - Non servono accordi imposti, ma condivisi. Se mi obbligano a pagare di più proteggo le inefficienze della filiera e faccio pagare di più i clienti».
Gli italiani assistono impotenti al braccio di ferro. Il loro gusto ha subìto senza accorgersene la rivoluzione culturale imposta giocoforza dai big della gdo. Ma oggi le mozzarelle azzurre e le ricotte rosse hanno aperto un po' gli occhi a tutti. Crescono i mercati a chilometro zero, tornano di moda gli ambulanti, le mele antiche, i gruppi d' acquisto solidali e i prodotti locali. L' obiettivo? Riprendere a scriversi da soli il menù di casa nostra. Difficile però che le sette sorelle restino con le mani in mano: la crisi morde, ma nei prossimi tre anni investiranno altri 3 miliardi di euro per 34 strutture e 20mila posti di lavoro. La guerra per il palato tricolore è ancora lontana dalla fine...
ETTORE LIVINI Repubblica — 05 agosto 2010