martedì 6 settembre 2011

Una tigre in casa

Spesso i padroni, pur amandoli, non sanno nulla dei loro gatti. Quando Charles Chaplin, il suo gatto pezzato si rivelò una femmina partorendo due micetti, Katherine Mansfield raccontò a Virginia Woolf: «Se ne stava sdraiato lì senza reagire mentre gli accarezzavo la pancia dicendogli: "Non c'è niente di male, vecchio mio. Prima o poi deve pur capitare anche a un maschio!"».
Per questo è prezioso l'imperdibile saggio di Cari Van Vechten, che nel 1920 divaga deliziosamente, con grande cultura, nel mondo di queste belve in miniatura. E non è un caso, perché, rivela Patricia Highsmith: «Un gatto trasforma una casa in un focolare. Uno scrittore non è mai solo con lui, pur essendo abbastanza solo da lavorare».

La riservatezza infatti è una qualità fondamentale del gatto, discreto anche nelle espansioni sessuali. Un giorno Graham Greene notò stupito due gatti avvinghiati nella strada. «La gatta, con gli occhi socchiusi, emetteva piccoli sibili di soddisfazione», ma, appena aveva avvertito lo sguardo di un estraneo, si era sciolta dall'amplesso per rifugiarsi nell'ombra. Quando un forte affetto lega gli animali agli umani, il gatto si solleva sulle zampe posteriori e preme il naso sulla guancia del padrone o gli accarezza la guancia con una zampa. Lo faceva Principessa a Henry James, abituato a lavorare con un gatto sulla spalla.
I gusti dei gatti sono imprevedibili. Il gatto color biscotto di James Joyce prediligeva il pane e burro. Bisogna saperli rimproverare quando, per una reazione meccanica, graffiano chi sta giocando con loro. Un giorno Jean Cocteau invece di punire un siamese, prima lo rimproverò, poi lo coccolò, finché non andò a strofinarsi pentito tra le gambe della sua vittima. Lo scrittore d'altronde teneva nel suo appartamento ben tre gatti: Nana, Tire-bouchon e Chifounette. Secondo una diffusa teoria bisognerebbe scegliere nomi dotati di un fruscio. Perfetto quindi il nome Mouche della gatta di Victor Hugo. «È un'impresa difficile - sosteneva T.S. Eliot - mettere il nome ai gatti». A suo parere ce ne volevano almeno tre. Uno da usare ogni giorno, un altro più dignitoso - «Come potrebbe se no mantenere la coda perpendicolare, mostrare i baffi o sentirsi orgoglioso?» - e un terzo nome segreto che solo la bestia conosce «anche se non lo confessa mai».
Il comportamento di un gatto durante il trasporto è imponderabile. Bébert, il celebre gatto di Louis Ferdinand Celine se ne stava tranquillo nel tascapane del suo padrone, in fuga dalla Francia con i collaborazionisti. Anche quando lo scrittore gli aveva offerto il suo scadente pasto, si era ritratto dignitosamente dopo averlo annusato con aria disgustata. «Si lascerebbe crepare, piuttosto che toccare questa porcheria... Probabilmente è più delicato, più aristocratico di noi, rozzi sacchi di merda! Che ci rimpinziamo e ci rimpinzeremo delle porcherie più disgustose».
Nei suoi giri quotidiani, il felino stringe amicizia con gli sconosciuti che va a visitare. Sigmund Freud racconta le visite regolari di una gatta bianca che, entrata dalla finestra, si accoccolava sul celebre divano dei suoi pazienti, si faceva carezzare e beveva coscienziosamente la tazza di latte preparata dallo psicanalista prima di riprendere il suo giro.
Contrariamente a quanto si crede, il gatto può essere affidabile. A Parigi, quello di Ernest Hemingway faceva da balia al neonato del padrone. Forse in memoria di quella singolare tata, lo scrittore aveva disseminato il giardino della casa di Cuba di minuscole collinette, sormontate da una piccola croce, in memoria dei pelosi defunti. Pochi gatti sono in grado di passeggiare con il padrone come dei cani, ma quello di Georges Simenon, Christmas, trovato per strada il giorno di Natale, «quando passeggiavamo, ci seguiva, saltando di tanto in tanto in un giardino, per poi tornare a raggiungerci». D'altronde Charles Dickens, da piccolo, aveva un gatto che spegneva le candele quando il padre dell'autore, assorto nella lettura, scordava di carezzarlo.
La libertà del gatto affascinava Guy de Maupassant: «Va in giro come gli piace, può dormire in ogni letto, vedere tutto, sentire tutto, conoscere tutti i segreti, le abitudini o le vergogne della casa. È a suo agio ovunque». Raymond Chandler deluso dalla pigrizia del suo vecchio persiano nero, che aveva smesso di portargli dei serpenti, ammetteva: «Ho amato i gatti tutta la vita e non sono mai riuscito a capirli».
André Malraux amava talmente i gatti da disegnarne la morbida silhouette accanto alla sua firma.
«Non ricordo di esser mai stato senza almeno un gatto», confessava Gabriele D'Annunzio. Non li considerava però con Baudelaire o Gau-tier degli animali sacri, ma godeva delle qualità che, a suo giudizio, avevano in comune con le donne: «Le movenze, la loro facilità al tradimento, la loro elasticità morale e materiale, le loro moine». Colette non coltivava dolciastre illusioni sulla loro bontà. Riconosceva nel gatto domestico la maestà e la crudeltà della tigre reale, ma sapeva quanto, a differenza degli uomini, potesse essere fedele. Per lei «il tempo passato con un gatto non è mai perso». Da un animale si poteva imparare molto. «Devo ai gatti una specie di onorevole dissimulazione, un grande autocontrollo, un'avversione per i suoni brutali e il bisogno di tacere a lungo».
Un parere condiviso da Hippolyte Taine (Vita e opinioni filosofiche di un gatto, Nottetempo, pagg. 48, euro 3) che dichiarava: «Ho incontrato molti gatti e molti filosofi, ma la saggezza dei gatti è infinitamente superiore».


Carl Van Vechten, «Una tigre in casa», traduzione di Marco Simonelli, Elliot, Roma, pagg.380,€. 17,50.

recensione didì Giuseppe Scaraffia, sole 24 ore 21 novembre 2010