domenica 16 gennaio 2011

Dostoevsky, le seduzioni del grande inquisitore


  
  Gustavo Zagrebelsky

Il protagonista è mosso dalla necessità di prevenire, anziché di reprimere. L´opera non ha nulla a che vedere con l´intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Rilettura in chiave profetica della Leggenda contenuta nei "Fratelli Karamazov". Il messaggio politico del celebre capitolo sembra annunciare il tempo presente. La figura narrata incarna la "ragion del volgo" e vede ovunque amici da blandire

Sulla figura dell´Inquisitore di Dostoevskij è incentrata la conferenza che oggi il giurista tiene all´Accademia nazionale dei Lincei, a Roma. Qui pubblichiamo il suo intervento.

A giudicare non solo dalla quantità, ma anche dalla qualità delle citazioni, delle sue interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, la forza attrattiva della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, a distanza ormai di quasi un secolo e mezzo, non è diminuita. Anzi, è crescente. E la ragione determinante è la forza con la quale essa solleva dal fondo questioni che sempre si rinnovano col volgere delle epoche e non si possono eludere. La libertà di fronte al bene e al male; libertà come benedizione o maledizione; il nichilismo e la violenza; la felicità, l´infelicità degli esseri umani, cioè la natura del loro essere; il significato della vita e del suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato; la religione e l´ateismo; il Cristianesimo, nella versione cattolico-romana, e il socialismo come strumenti di controllo delle coscienze e di livellamento delle società. 
Nel luogo e nel tempo in cui fu scritta, la Russia di metà ottocento, radicaleggiante, sedotta dalle mode filo-occidentali e insofferente del dispotismo zarista e dell´ortodossia cristiana, la Leggenda sembrò una farneticazione letteraria. Nei decenni successivi, fu letta e condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico e antimoderno: come vagheggiamento di una restaurazione. Poi, ancora, alla luce degli sviluppi politici e sociali novecenteschi, fu giudicata una previsione e una condanna ante litteram di totalitarismi incipienti, cioè come un ammonimento profetico. Oggi, ora che ciò che allora si annunciava è davanti ai nostri occhi, pienamente dispiegato, la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata diversamente, al di sopra delle interpretazioni politiche, come una previsione, una profezia di sventura, se non come un annuncio apocalittico che riguarda tutti nel tempo presente.
Qui, per iniziare, assumiamo la Leggenda come un discorso generale sul governo. Da dove nasce l´obbedienza nel cuore degli esseri umani? È l´enigma degli enigmi politici. Il Grande Inquisitore una risposta l´ha e spaventosa, disumana o forse troppo umana: l´obbedienza nasce dall´odio della libertà. Ma quest´affermazione è generica. L´odio per la libertà è una caratteristica dei regimi politici fondati sulla ragion di Stato e sulla verità di Stato. Nella Leggenda troviamo qualcosa di molto più impressionante, cioè dell´odio per la libertà non dei governanti (cosa abbastanza naturale), ma dei governati (cosa assai meno ovvia). Ciò di cui qui si parla è la «servitù volontaria», non la servitù imposta con la coercizione delle volontà.
Per questo, ogni riflessione sul carattere politico del messaggio della Leggenda deve prendere le distanze da alcuni luoghi comuni.


"Ragion di Stato" e "ragion del volgo"
Il tempo in cui è situata l´azione narrata dalla Leggenda, il secolo XVI, è quello in cui prende forma lo "Stato moderno" e si svela l´esistenza di una doppia legge e di una doppia morale, una ordinaria per i comuni mortali e una straordinaria che riguarda i governanti, che curano i superiori interessi dello Stato: sopravvivenza, difesa, grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere e devono sottrarsi alla vista del volgo, incapace di visioni autenticamente politiche. La loro cura è riservata agli uomini di Stato, il cui compito non è di onorare la ragione comune, ma di seguire la "ragion di Stato". Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli "iniziati" alle arti del governo, sono quindi autorizzati, se occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune dell´uomo medio e a proclamare quello che, in termini moderni, si dice lo "stato d´eccezione".
La "ragion di Stato", dunque, è risorsa di chi sta al potere, al servizio di quell´entità metafisica che è lo Stato stesso, senza il quale gli esseri umani non possono vivere. Il popolo è legato alle leggi della sua morale, adatte a guidare i rapporti sociali. Ma c´è una sfera più alta, quella in cui opera il potere dello Stato. Qui vale una morale segreta, agli occhi della gente comune incomprensibile, anzi scandalosa. Il fine della morale comune è la società virtuosa. Il fine della morale politica è anch´esso la virtù, ma è la virtù dello Stato che esige, costi quel che costi, la rovina dei nemici.
Il Grande Inquisitore è anch´egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono la realtà del potere e coloro (i molti) che l´ignorano. Ma, per legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, non si rivolge alla "ragion di Stato". Non c´è di mezzo, tra chi dispone del potere e chi al potere è sottoposto, "lo Stato", questa entità sovrumana che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni. Per l´Inquisitore tutto è molto umano. Egli ha dalla sua quella che si potrebbe dire la "ragion del volgo". Non deve salvaguardare lo Stato piegando i sudditi. Non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali. Si appella non alla natura dello Stato ma a quella degli uomini. Il suo è un governo benigno, non contro, ma per loro.
La "ragion di Stato" si risolve, in ultima istanza, nel governo della violenza orientata solo allo scopo. La "ragion del volgo" si risolve invece non nella violenza, ma nella seduzione o, per usare l´espressione famosa di Tocqueville, in un «potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite» che elimina la violenza dal proprio orizzonte. Il Grande Inquisitore è un rassicuratore, che vuole essere amico di tutti. Per questo, la sua morale è una sola, quella del volgo. Tanto gli Inquisitori quanto i loro sudditi vi si devono piegare. La differenza è solo questa: i primi sono sofferenti e i secondi felici. Sofferenti perché consapevoli, felici perché ignari.
Gli Inquisitori sono, a loro modo, dei despoti, ma despoti-servitori, che stanno dalla parte di un´umanità innocente, che nulla conosce se non il proprio meschino benessere. Il Principe rinascimentale, che incarna la "ragion di Stato", vede dappertutto potenziali da "spegnere"; l´Inquisitore di Dostoevskij, incarna la "ragion del volgo" e vede dappertutto potenziali amici, da blandire e sedurre. Terrorizzare o lusingare, nell´esercizio del governo. Questa è una differenza fondamentale, da tenere presente leggendo la Leggenda.

"Ragion di fede" e "ragion del volgo"
La Leggenda non parla di un inquisitore nel senso che la parola ha assunto nella storia dell´intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Anche a questo riguardo si deve prendere la distanza. Naturalmente, non sarebbe stata scelta questa figura se non vi fossero somiglianze. Ma le analogie non devono nascondere le differenze.
La differenza essenziale è nel fine. Il fine, per tutte le inquisizioni al servizio del dogma, è la sconfitta dell´eresia. È un fine innanzitutto di natura spirituale. La Chiesa, come società sovrana, incaricata di mantenere intatta la parola rivelata da Dio, è responsabile di un compito primario: mantenere l´ortodossia. A ogni costo. Per l´Inquisizione si trattava di "spegnere" l´idea che semina dubbi, attentando all´unità della fede. I corpi che portano l´idea sono secondari: li si potrà sopprimere o risparmiare, a seconda che l´idea perversa sia riaffermata o ritrattata. Anzi, la maggior vittoria non è l´eliminazione fisica dell´eretico, ma l´abiura che riafferma la verità.
L´Inquisitore della Leggenda non ha a che fare con verità ed eresie. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l´umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere, ma assecondare. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana, ma se la rispetta così com´è e la si lascia sfogare. È un potere, certamente; ma è un potere amico, dalla parte dell´uomo comune.
Per nulla paradossalmente, gli Inquisitori potevano considerarsi agenti della carità cristiana. Il loro compito era la salvezza delle anime dei devianti, qualunque cosa ciò comportasse: violenze, torture, condanne.
L´Inquisitore della nostra Leggenda, invece, rifugge da ciò. Egli conosce la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l´accompagna. Non vuole risvegliarla alla verità, ma addormentarla sì, prima che s´affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la "ragione" che lo muove è la "ragion del volgo". L´Inquisitore di Dostoevskij viene prima degli Inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario.

Le conclusioni
Possiamo dire così: la ragione dell´Inquisitore non è la ragion di Stato e neppure la ragione della fede. È la ragion del volgo. Si capisce allora perché i suoi argomenti ci appaiono familiari e perché a quel capitolo de I fratelli Karamazov ricorriamo spesso per riflettere sulla vita sociale e politica del tempo presente.

Repubblica, 14 gennaio 2011