di Jean-Marie Gustave Le Clézio
Repubblica 9 dicembre 2008
Perché si scrive? Immagino che ciascuno abbia una sua risposta a questo interrogativo così semplice. Contano le predisposizioni, l’ ambiente, le circostanze. Le inettitudini, anche. Se si scrive, significa allora che non si agisce. Che ci si sente in difficoltà alle prese con la realtà, che si sceglie un altro mezzo per intervenire, un altro modo di comunicare, una distanza, un tempo per riflettere. Se analizzo le circostanze che mi hanno condotto a scrivere - non lo faccio per gentilezza, ma per premura nei confronti della precisione - noto che come punto di partenza nel mio caso c’ è la guerra. La guerra, intesa però non come un grande periodo di sconvolgimenti, nel quale si vissero avvenimenti storici e decisivi, come la campagna di Francia raccontata dai due versanti del campo di battaglia di Valmy, per esempio, da Goethe sul versante tedesco e dal mio antenato Francois sul versante dell’ armata rivoluzionaria. Racconti esaltanti, travolgenti. No, la guerra per me è quella che vivevano i civili e soprattutto i bambini piccoli. Nemmeno per un istante mi è mai parsa un momento storico. Avevamo fame, avevamo paura, avevamo freddo: questo è quanto. Ricordo di aver visto sfilare sotto la mia finestra le truppe del maresciallo Rommel che risalivano le Alpi alla ricerca di un passaggio verso il nord dell’ Italia e dell’ Austria. Quell’ avvenimento non mi ha lasciato un ricordo particolarmente indelebile. Al contrario, negli anni che hanno fatto seguito alla guerra, ricordo molto bene di essere stato sprovvisto di tutto, e specialmente di che scrivere e di che leggere. Mancava la carta, mancava la penna a inchiostro. Disegnai e scrissi le mie prime parole sul retro delle tessere del razionamento, servendomi di una matita da falegname blu e rossa: da ciò nacque in me una certa predilezione per i supporti ruvidi e per le matite ordinarie. Mancando i libri per l’ infanzia, lessi i dizionari di mia nonna. Erano meravigliose rampe di lancio per partire all’ esplorazione del mondo, per vagabondare col pensiero e sognare davanti alle tavole illustrate, alle cartine geografiche, agli elenchi di parole sconosciute. Il primo libro che scrissi, all’ età di sei o sette anni, del resto si intitolava “Le Globe à mariner”, seguito pochissimo tempo dopo dalla biografia di un re immaginario denominato Daniel III - era forse svedese? - e da una favola raccontata da un gabbiano. Quello fu un periodo di reclusione. I bambini non avevano neppure la libertà di uscire a giocare all’ aperto, perché i terreni e i giardini situati nei pressi della casa di mia nonna erano stati minati. Casualmente, nel corso delle mie passeggiate, ricordo di aver costeggiato una volta una recinzione di filo spinato sistemata lungo il mare e di aver letto appeso ad essa un cartello in francese e in tedesco, che proibiva l’ accesso a chiunque, con tanto di teschio.
I libri sono entrati nella mia vita un po’ dopo, sotto forma di varie raccolte di libri che mio padre era riuscito a mettere insieme: provenivano dalla dispersione della sua eredità avvenuta quando era stato espulso dalla sua casa natale di Moka, nell’ isola Mauritius. Fu allora che capii quella verità che non è mai percepita con immediatezza dai bambini, ovvero che i libri sono un tesoro più prezioso dei beni immobili o dei conti in banca. Fu in quei volumi - in linea di massima antichi e rilegati - che scoprii i grandi testi della letteratura universale, il Don Chisciotte illustrato da Tony Johannot, La vita di Lazarillo de Tormes; Le leggende di Ingoldsby, I viaggi di Gulliver; i grandi romanzi ispirati di Victor Hugo, Novantatré, I lavoratori del mare, o L’ uomo che ride. E anche Le sollazzevoli istorie di Balzac. Ma i libri che mi sono rimasti maggiormente impressi furono le raccolte di storie di viaggi, per la maggior parte dedicati all’ India, all’ Africa, e alle Isole di Mascareigne, come pure i grandi resoconti delle esplorazioni, di Dumont d’ Urville o dell’ Abbé Rochon, di Bougainville, di Cook, e ovviamente il Milione di Marco Polo. Nella vita del tutto insignificante di una piccola borgata di provincia intorpidita e sonnolenta, dopo gli anni di piena libertà vissuti in Africa, quei libri mi trasmisero il gusto dell’ avventura, mi permisero di farmi un’ idea della grandezza del mondo reale, di esplorare con l’ istinto e i sensi piuttosto che con la conoscenza diretta. In un certo senso mi permisero di comprendere molto presto la natura contraddittoria della vita infantile, che conserva un rifugio nel quale può dimenticare la violenza e le ostilità, togliendosi il piacere di osservare la vita esteriore dal quadrato della sua finestra.
Allora, perché scrivere? Lo scrittore - già da tempo - non ha più la presunzione di credere che potrà cambiare il mondo, che con i suoi racconti e i suoi romanzi potrà dare origine a un modello di vita migliore. Più semplicemente, vuole essere testimone. Si osservi questo altro albero nella foresta dei paradossi: lo scrittore vuole farsi testimone, quando nella maggior parte dei caso altro non è che un semplice spettatore. Lo scrittore non può essere miglior testimone di quando lo è suo malgrado, a malincuore. L’ assurdo è che ciò che egli testimonia non è ciò che ha visto, né ciò che ha inventato. L’ amarezza, talvolta la disperazione, nasce dal fatto che egli non è presente alla requisitoria. Tolstoj ci fa vedere il male che l’ armata napoleonica infligge alla Russia e tuttavia nulla è cambiato nel corso della Storia. Madame de Duras scrive Ourika, Harriet Beecher Stowe La capanna dello zio Tom, ma sono i popoli resi schiavi a cambiare il proprio destino, a ribellarsi e a fondare contro l’ ingiustizia i movimenti di resistenza dei fuggitivi, in Brasile, in Guyana, alle Antille e infine a fondare ad Haiti la prima repubblica di neri. Agire: è questo che lo scrittore vorrebbe più di ogni altra cosa. Agire, piuttosto che testimoniare. Scrivere, immaginare, sognare, affinché le proprie parole, le proprie invenzioni, i propri sogni intervengano nella realtà, cambino gli animi e i cuori, spalanchino un mondo migliore. E tuttavia, in quello stesso istante, una voce rivela allo scrittore che ciò non sarà possibile, che le sue parole sono soltanto parole che il vento della società disperderà, che i sogni altro non sono che chimere. Con quale diritto pretendere di essere migliori? Spetta effettivamente allo scrittore cercare soluzioni? Non si trova egli piuttosto nella posizione della guardia campestre che nell’ opera teatrale Knock, ovvero il Trionfo della Medicina, vorrebbe addirittura impedire un terremoto? Come potrebbe mai agire lo scrittore, se altro non sa che ricordare?
Non intendo in ogni caso crogiolarmi in un atteggiamento negativo. La letteratura - ecco dove volevo arrivare - non è qualcosa di arcaico che sopravvive e al quale dovrebbero sostituirsi logicamente le arti dell’ audiovisivo, e più di ogni altra cosa il cinema. È una strada complessa, difficile da percorrere, ma che io credo sia ancora più necessaria oggi che ai tempi di Byron o di Victor Hugo.
Due sono le motivazioni di questa esigenza:
prima di tutto la letteratura è fatta di linguaggio.
È il suo significato primo: lettere, ovvero ciò che è scritto. In Francia la parola “romanzo” indica quegli scritti in prosa che utilizzavano per la prima volta dal Medio Evo la nuova lingua che tutti parlavano, la lingua romanza. La “novella” nasce anch’ essa da questa idea di novità. Più o meno nel medesimo periodo, in Francia si smise di adoperare la parola “rimeur” (”compositore di rime”), per parlare invece di poesia e di poeti - derivanti dal verbo greco poiein, creare. Lo scrittore, il poeta, il romanziere sono creatori. Ciò non significa che inventano la lingua, ma che la adoperano per creare bellezza, pensieri, immagini. Ecco perché di loro non si può fare a meno. Il linguaggio è l’ invenzione più straordinaria del genere umano, perché precede ogni cosa, rende partecipi tutti. Senza il linguaggio non ci sarebbero le scienze, non ci sarebbe la tecnica, non ci sarebbero leggi, non ci sarebbe l’ arte, non ci sarebbe l’ amore. Ma questa invenzione, senza l’ apporto di qualcuno che la trasmetta, diventa virtuale, teorica. Può diventare anemica, ridursi, sparire. Gli scrittori, in certa qual misura, ne sono i custodi. Quando scrivono i loro romanzi, i loro poemi, le loro opere per il teatro, fanno vivere il linguaggio. Non utilizzano le parole: al contrario, sono al servizio del linguaggio. Lo celebrano, lo affinano, lo trasformano, perché il linguaggio vive attraverso di loro, grazie a loro e accompagna le trasformazioni sociali o economiche della loro epoca.
(traduzione di Anna Bissanti)
Jean-Marie Le Clézio