giovedì 4 dicembre 2008

Addio al consumismo, riscopriamo le cose

Tutto cominciò, credo, verso l’inizio degli anni Cinquanta. Allora, un noto specialista americano in pubblicità venne incaricato di studiare il comportamento delle massaie nei nuovi supermarket. In un angolo, nascose una macchina da presa che avrebbe registrato i movimenti delle palpebre delle massaie mentre si aggiravano tra i reparti. Dal ritmo dei battiti egli poteva desumere la tensione interna di ognuna di loro: tenendo conto che la media si aggira attorno ai trentadue battiti al minuto. Quando una massaia metteva piede nel supermarket, veniva inquadrata dall’obiettivo, che la seguiva passo dopo passo. Il numero dei battiti scendeva rapidissimamente, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto: una media subumana, coem quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli. Alcune procedevano con gli occhi sbarrati. Altre si aggiravano tra i banchi come automi, pescando a caso dagli scaffali, o inciampando negli ostacoli senza vederli: spesso non scorgevano la macchina da presa, sebbene fosse a mezzo metro. Quando avevano riempito il carrello, si avviavano verso la cassa. In quel momento, il numero dei battiti cominciava a risalire. Appena trillava il campanello del registratore e la voce del cassiere chiedeva il denaro, il ritmo delle palpebre raggiungeva all’improvviso, i quarantacinque battiti al minuto. In questi quasi sessant’anni gli americani e gli europei hanno vissuto in una condizione di trance ipnoide, come le massaie del 1952.

Abbiamo consumato, sempre più velocemente, sempre più istericamente, senza che nessuna necessità ci costringesse a comprare. Conosco un bambino di otto anni: ama piantare sul terrazzo di casa i peperoni e i pomodori e vederli crescere. Ma, a Natale, padre, madre, nonni, nonne, zii, cugini e cugine gli regalano trenini elettrici, automobili modernissime, aerei teleguidati, animali mostruosi, che il bambino guarda con disgusto per qualche minuto e poi butta via. Non vedo perché uomini adulti debbano possedere otto telefonini, quaranta paia di scarpe, tre macchine velocissime, due televisori portatili, uno yacht con i rubinetti d’oro: né perché da qualche anno le contadine toscane comprino due cucine complete, una delle quali serve da salotto; né perché cinquanta milioni di persone visitino le Gallerie Vaticane o l’Ermitage, senza capire niente di quello che intravedono nel delirio; né perché, dopo sei mesi, una ricca signora milanese cambi il suo frigorifero bianco con un frigorifero rosa.

Negli ultimi anni il cosiddetto consumismo ha fatto crescere rapidamente l’imbecillità degli italiani. Un mio amico, che per molti mesi insegna Dante, Chaucer, Pindaro e Virgilio in un’università americana, è ritornato ieri a Roma. Mi ha detto che, in soli quattro mesi, la sciocchezza italiana è aumentata del trenta per cento, almeno nelle persone che occupano ruoli pubblici e appaiono in televisione. Quando li ha lasciati, erano individui quasi normali; dicevano sciocchezze pressapoco come le diciamo lui ed io. Ora aprono la bocca solo per pronunciare grandiose idiozie: ciò è divertentissimo per lui e per me, ma meno utile oer il funzionamento dello Stato.

Mi ha ricordato due casi, che mi erano sfuggiti. Gli studenti dell’Onda, cioè il cuore e il fiore del nostro futuro, hanno appena preparato un piano sull’università: dove sostengono che l’elemento decisivo per la sua e la nostra salvezza è che gli studenti possano andare gratis al cinema. Lella e Fausto Bertinotti hanno assistito al trionfo di Vladimir Luxuria, già deputato-deputata di Rifondazione comunista, in una trasmissione fondamentalissima come l’Isola dei Famosi. Marito e moglie si sono commossi e hanno pianto, lasciando una piccola pozza salata di lacrime sul tappeto persiano. “Luxuria - ha detto Lella Bertinotti al marito - è una personalità di grande spessore. Si è messa alla prova ed ha vinto. Non ha sbagliato una risposta. Se l’è meritata, una affermazione così. Potrebbe essere il nostro Obama”.

Non so nulla di economia; e mi conforto leggendo su Il Sole.Ventiquattro ore un intelligente articolo di Roberto Perotti, dove sostiene che quasi tutti gli economisti italiani ed europei ignoravano le tecniche finanziarie diffuse negli Stati Uniti. E non sono un profeta. Non saprei nemmeno lontanamente prevedere se le misure dei Governi modereranno la recessione di questi mesi. O se, invece, piomberemo in una crisi peggiore di quella del 1929.

Credo che la crisi americana distruggerà due modi di pensare diffusissimi. In primo luogo, la fede nel progresso ininterrotto. Per quasi quarant’anni banchieri, industriali, politici, economisti, saggisti di terz’ordine hanno immaginato che la storia moderna sia dominata dal progresso ininterrotto, come un jet che sfonda l’infinito. Ogni anno il Prodotto Interno Lordo aumentava, la scienza faceva scoperte, la fratellanza universale cresceva, l’intelligenza si liberava dal peso dell’empio passato, ed i bambini giocavano con la carta, dove qualcuno aveva scritto cifre irreali, come in una partita di Monopoli. Un noto scrittore italiano ha detto: “Noi, genitori progressisti”; una razza certamente superiore alla quale mi duaole di non appartenere.

Come quasi tutti gli storici sanno, nella storia non c’è nemmeno un’ombra, o un barlume, di progresso ininterrotto. Quando sembra sul punto di giungere alla meta, la storia si ferma, bivacca per qualche tempo in un bosco o in una palude, si addormenta, produce catastrofi, rieprcorre la strada che ha già percorso, procede a zig-zag. Credo che avesse ragione Leopardi, quando nel maggio 1833 scriveva a una sua amica fiorentina. ‘Quanto a me, cara signora, voi sapete bene che lo stato progressivo della società non mi riguarda per niente. Il mio stato, se non retrogrado, è eminentemente stazionario’.

Quindi entrerà in crisi il cosiddetto consumismo. Non sarà più possibile consumare consumare consumare: comprare una Bentley quando basta una bicicletta. Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti, l’automobile e la lavatrice, il quadro e il tappeto, cinquecento cravatte e quaranta paia di scarpe nell’armadio. Siamo ricoperti dagli oggetti: nascosti dagli oggetti; stanchi di quello che produciamo. Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa. Del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili.

Tutti gli oggetti del mondo hanno diritto alla nostra attenzione ed al nostro rispetto. Non ci sono cose sostituibili, Tutto ciò che esiste, sebbene fabbricato in serie, è unico. Anche una vecchia giacca, o una vecchia automobile, o una lavatrice che cade a pezzi chiedono il nostro riguardo. Dobbiamo recuperare le virtù della civiltà contadina, ritrovando la parsimonia, la sobrietà e quasi l’avarizia all’inizio del ventunesimo secolo. Non c’è da possedere nulla, perchè il possesso è una qualità che apparteneva ai tempi di Balzac, non a quelli moderni. Vorrei essere Virgilio, , o Orazio, o Arioato, o Manzoni nelle loro case di campagna. Amavano poche cose, le accarezzavano con la mente e la mano, contemplavano un grappolo d’uva, un albero o un tramonto, abituandosi alla precisione, che noi abbiamo perduto.

Certo, la Cina continuerà a consumare. Aumenterà ogni anno il Pil del dodici per cento, moltiplicherà le fabbriche, i porti, gli aeroporti, si coprirà di gioielli e vestiti acquistati a Parigi, mentre le ciminiere e le automobili sporcheranno il cielo di un nero incancellabile, e i tibetani verrano offesi e uccisi. Preferisco l’Europa: gli olivi e i cipressi delle colline toscane, le campagne francesi dove le cuspidi delle cattedrali forano il cielo rosa, le foreste di rododendri della Scozia; o gli agilissimi, delicatissimi grattacieli di Manhattan, con i vetri che riflettono l’Hotel Plaza.

Non mi importa nulla se conosceremo la decadenza, se non cambieremo frigorifero ogni settimana, se saremo più poveri e consumeremo meno; e se i nostri regimi politici sembrano ai Cinesi lievemente anacronistici. Mi importa soltanto che gli Stati Uniti e l’Europa continuino a capire il mondo, ad accoglierlo ed a trasformarlo, conservando quel prodigioso dono di metamorfosi che ha permesso a tanti popoli, tanti dèi, tanti libri di penetrare nelle nostre terre.

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Pietro Citati, Addio al consumismo riscopriamo le cose. “La Repubblica”, 03/12/’08