sabato 22 dicembre 2012

Paolo Poli - Pascoli? una noia mortale

Tra gli attori italiani, Paolo Poli è forse per me il numero uno. 
Da tempo immemorabile fa spettacoli praticamente tutti uguali, magnifici, da vedere rigorosamente dal vivo (le varie versioni in DVD e cassetta per ragioni tecniche sono spesso in playback e hanno qualcosa di artificioso).
Dal vivo invece Lui si scatena, e a 83 anni calca ancora i palcoscenici con una grazia, una favella e una memoria veramente invidiabili. 
I suoi spettacoli sono una serie di miniature, un raccattare perle dimenticate tra le pagine di autori minori o conosciuti per ben altre opere. Il tutto inframmezzato da canzoncine d'epoca di un kitsch pazzesco, soprattutto del periodo della belle-epoque o primi decenni del novecento.
Stavolta tocca al poeta di «Myricae» finire tra le maliziose grinfie del mattatore.
Allego un paio di articoli e il calendario spettacoli e  un vecchio ma bellissimo articolo, per chi non lo conosce....
gg

«Pascoli? Noiosissimo, l'ho scelto per pigrizia. Era il mio cavallo di battaglia alle elementari quando arrivava la preside. Sono un po' dell'avviso di Edoardo Sanguineti che delle poesie di Pascoli diceva ?macchinette sadiche per far piangere i bambini?». Se, con la consueta soavità, Paolo Poli fa una simile premessa, vuol dire che, tra le sue maliziose grinfie, il poeta romagnolo si illuminerà di inaspettati riverberi. Gozzano, Fogazzaro, Niccodemi, Savinio, Palazzeschi, Parise e la Ortese ci sono già passati, con esiti memorabili. Ora tocca a Giovanni Pascoli, a cui dedica il suo ultimo spettacolo, «Aquiloni», in scena all'Elfo Puccini da domani. Con la squadra di sempre: i suoi quattro amatissimi boys (Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco), scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì, coreografie di Claudia Lawrence e musiche di Jaqueline Perrotin, tutte Belle Epoque, con le romanze di Tosti, l'operetta, il caffè-concerto e un tocco di anarchia. A corredo, una giornata in Cineteca (22 dicembre, ore 17.30), dove incontrerà il pubblico in occasione della proiezione di due film sulla «Cavallina storna», e la presentazione del libro di Marina Romiti «Paolo Poli e Lele Luzzati, il Novecento è il secolo nostro», Maschietto Editore (8 gennaio, ore 18, in teatro).Ma torniamo alla noia: Poli, cosa c'é che non va in Pascoli? «È che, non avendo la profondità filosofica di Leopardi, ci ha raccontato fino alla nausea le sue tragedie familiari. Anche a me è morto il babbo da ragazzino, ma non ci ho scritto sopra una poesia. E anche le stelle si sono mosse solo per Gesù Bambino, non per la morte del padre. E poi ci propinavano sempre i "Poemi conviviali", perché la noia pareva allora più culturale. Ci fece la tesi anche il povero Pasolini».E poi cosa è successo? «Grazie agli scritti di Gianfranco Contini, mio professore, ne ho scoperto il plurilinguismo e la capacità di rendere materia di poesia anche il linguaggio degli animali con oltre un decennio di anticipo sulle onomatopee dei Futuristi. E poi, andando oltre il dettato crociano, che prediligeva "Myricae" e i "Canti di Castelvecchio", ho riscoperto i "Poemetti" e anche il Pascoli anarchico, che da giovane rimase tre mesi in galera e fu tirato fuori da Carducci».«Oh Valentino vestito di nuovo», «Alba», «A nanna», «Orfani», «Il lauro», «L'assiuolo». C'è una poesia che predilige?«Non mi piacciono le classifiche. Sono nato sotto il cavalier Mussolini e non vorrei morire sotto quell'altro cavaliere. Sono quelli che vogliono sempre il primo, l'unico, il più bello. E poi per me scegliere i testi per uno spettacolo è lavoro, non è che mi diverto nel mio salottino».Ma, con i suoi 83 anni gagliardamente portati, sarà un lavoro che fa ormai per passione, o no? «Macché. Ho una pensioncina bruttissima con la quale non sopravvivrei. Non sono ricco di famiglia, mio padre faceva il carabiniere. E poi molti vengono ai miei spettacoli perché pensano "son gli ultimi sprazzi, ha un piede nella fossa". Certo però che quella del teatro è una sopravvivenza anche gioiosa: vedere le facce buie del pubblico che si illuminano, che ridono e che mi applaudono è una conferma di esistenza che solo uno spettacolo dal vivo dà». Quale libertà in più offre questa età? «Quando siamo giovani tutti si aspettano da noi una frase intelligente. Invece la vecchiaia non è così osservata, come facevano gli antichi greci o i preti, quindi c'è una certa libertà. Non c'è più bisogno di far figura in salotto. Ci sono più lunghe ore per dormire e per pensare».
Cannella Claudia
Pagina 10
(17 dicembre 2012) - Corriere della Sera

L'irresistibile leggerezza del "fanciullino" Paolo Poli, sfarfalla sui poetici "Aquiloni", spettacolo strenna natalizia all'Elfo Puccini, liberamente tratto da Giovanni Pascoli. Il maestro gentiluomo del teatro italiano, si cimenta in un'impresa ardua, trasfigurare i versi del poeta romagnolo in una dimensione fuori da qualunque cliché, utilizzando la sapiente intelligenza e irriverenza che da sempre lo contraddistinguono. Non è un omaggio al poeta, bensì una rappresaglia bonaria contro il Pascoli tradizionale tormentone scolastico, che restituisce magicamente il rimatore "vestito di nuovo", puntando su testi come Myricae e i Poemetti, esaltandone il plurilinguismo e le onomatopee, le potenzialità dei suoni e dei versi degli animali, la memoria di un'Italia rurale e genuina in via di estinzione, rievocando l'ancora arzillo e celebrato nonno Novecento. Atmosfera zuccherosa da cartolina vintage permea la scena, con la complicità della bella e policroma scenografia a pannelli intercambiabili, in prevalenza scorci bucolici e borghi agresti dipinti da Lele Luzzati , gli sbrilluccicanti costumi alternati a eleganti abiti di taglio maschile di Santuzza Calì, i contagiosi motivetti di Jaqueline Perrotin. Il magico scrigno da giocoliere di Poli si apre dal primo siparietto ornitologico tra piumati e beccuti ballerini –cantanti, avvolgendoci in una sorta di mondo fatato, un libro pop-up spalancato, da sfogliare stupiti. Poli, alla tenera età di ottantatré anni, è ancora mattatore incontrastato di aristocratica bellezza, con classe innata gesticola, ammicca, declama, canta, balla, interpreta un Pascoli inedito e irripetibile. Smoking e papillon dispensa a piene mani la sua personalissima rivisitazione di classici come: Oh Valentino vestito di nuovo, Alba, A nanna, Orfani, per citarne alcuni. Voilà in un fiat, dagli intermezzi lirici, lo ritroviamo travestito da messicano con sombrero al ritmo di Guantanamera, attempata e vezzosa chansonnier francese, anarchico sulle note di Addio Lugano bella. Lo accompagnano in questa spregiudicata scampagnata dei bei tempi andati, i suoi quattro scatenati boys, Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco, che oltre a ballare e cantare, sgambettando a destra e a manca con leziosa trasgressività, dimostrano notevoli capacità recitative. Come durante il poemetto "Italy", ironica irrisione per la lingua sgrammaticata degli emigranti italiani, imperdibile in versione Poliana & Company. Nessuno come l'attore fiorentino sa rileggere la letteratura italiana con tanta levità e ardore idealista, il suo è un teatro rituale di rara e minuziosa fattura, imbastito di cultura, tenerezza e libertà, appassionata celebrazione della vita di uno dei più grandi interpreti del nostro teatro. Che non tralascia mai il suo spirito canzonatorio, sottoponendo il pubblico della prima, in uno dei suoi proverbiali bis a sorpresa, a uno stralcio de "I Promessi Sposi". Ormai è risaputo lui può permettersi tutto.

"Aquiloni" liberamente tratto da Giovanni Pascoli. Diretto e interpretato da Paolo Poli con Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco. Scene di Emanuele Luzzati. Costumi di Santuzza Calì. Musiche di Jaqueline Perrotin. Coreografie di Claudia Lawrence. Produzioni Teatrali Paolo Poli- Durata 120 minuti con intervallo- In scena fino al 13 gennaio, con replica speciale 31 dicembre - Teatro Elfo Puccini- Sala Shakespeare- Milano http://www.elfo.org/
15 gennaio/3 febbraio- Teatro Eliseo-Roma- 8/10 febbraio- Teatro Comunale- Caserta- 16/17 febbraio- Teatro Comunale Carlo Gesualdo- Avellino- 21/24 febbraio- Teatro Giuseppe Verdi-Salerno- 5/10 marzo – Teatro Biondo- Palermo

--


«Il bello degli amori omosessuali è la loro libertà e la loro riprovazione. Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l'istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. "Caro, ti faccio la besciamella?". Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio. Chi vuole l'unione civile e l'iscrizione al registro comunale non se ne intende. Io sì».
Paolo Poli è in tournée natalizia a casa. La sera recita all'Eliseo sei storie di giornaliste, da Irene Brin a Natalia Aspesi, in un vortice di travestimenti, ora cantante bionda ora cardinale. Di giorno nell'appartamento romano rievoca la propria storia, e commenta il dibattito politico sui Pacs alla maniera di chi da 77 anni esercita l'ironia innanzitutto su se stesso e quelli come lui.
«La storia non fa salti. Zapatero introduce in Spagna il matrimonio omosessuale? Ne sono felice. Ma qui in Italia l'unico sovrano è il Papa. E il Papa fa il suo mestiere. Non possiamo pretendere che ci benedica e ci inviti a inchiappettarci l'un l'altro. Io poi ho passato la vita a prendere in giro i preti e a travestirmi da suora, nel '67 a Milano arrivò la polizia a interrompere il mio "Santa Rita da Cascia", una monaca, suor Beniamina, l'ho pure fatta morire (mi rimproverò per essere entrato nel giardino delle rose, io chiusi gli occhi e incrociai le dita: spirò dopo una settimana); però sono di formazione gesuitica, ho conosciuto don Milani, riconosco che i sacerdoti sono portatori di una cultura millenaria, sanno coltivare il potere e le idee. Non a caso i nostri illuministi erano aristocratici o uomini di Chiesa, da Parini in giù».
«Intendiamoci: noi ragazze non capiamo nulla di politica. Però non capisco neppure gli omosessuali che chiedono un riconoscimento ufficiale. Mi pare un atteggiamento conservatore. I Gay Pride mi mettono una tristezza infinita, come il Carnevale di Viareggio. Meglio affidarsi all'istinto, come mi hanno insegnato Balzac e Tolstoj e come mi ha ripetuto Freud: il sesso non è tra le gambe, ma nel cervello, il giudizio morale non esiste, siamo tutti buoni e cattivi, casti e perversi. Questo bisogno di tenersi per mano come finocchie contente è roba da psicanalisti. Un marito non l'ho mai voluto. Al sesso sopravvive la stima, della passione resta l'amicizia. La quotidianità è noia; io volevo un vestito e una cravatta come non li aveva nessuno, il mio primo impermeabile era rosa, il primo cappello verde tirolese. C'è stato un uomo importante nella mia vita, che si è svenato per me. Ma ho sempre difeso la mia solitudine.
A volte mi sveglio, avverto un richiamo antico, tasto il letto, sento che non c'è nessuno e penso: che sollievo. Avere al fianco uno che russa non significa non essere soli».
«Negli Anni Trenta l'educazione sessuale avveniva in famiglia. Noi eravamo sei bambini, poveri, figli di un carabiniere e di una maestra montessoriana. Io mettevo il ditino sotto la gonna delle mie sorelle e loro toccavano me; la domenica mattina mi infilavo nel letto di papà. Ho capito fin da piccolo di essere gay. Mi garbava il fornaio. Poi sono andato al cinema, a vedere King Kong, quello vero, e scoprii che mi garbava pure il gorilla. Invidiavo le mie sorelle che avevano le bambole, io con i fucili non sapevo giocare: mi sparai in un occhio, per un anno portai una benda da pirata. Le istituzioni ecclesiastiche non riuscirono a recuperarmi, anzi. Sollevavo le gonne delle suore e quel che vedevo mi confortava nella mia omosessualità. Ammiravo i bambini ebrei che uscivano di classe durante le lezioni di religione, fin da allora sono un filosemita convinto. Da mia madre ho imparato che il legame matrimoniale non conta, che la vera moglie non è la donna che si è sposata, ma quella che si ama, che ti accompagna, che si sacrifica per te. Mamma difendeva Anita Garibaldi, non tollerava sentirla definire "l'amica" dell'eroe; era Anita la vera moglie, Menotti il vero figlio, non la contadina rimasta in Sardegna. Anni dopo, sarà la Petacci la vera moglie di Mussolini. E se questo vale per uomini e donne, a maggior ragione vale per noi».
«Qualche donna l'ho amata anch'io, da ragazzo, al tempo in cui vien duro facilmente. A sette anni vidi Clara Calamai e ne rimasi incantato. Ricordo Anna Magnani dietro le quinte di "Bellissima" farsi mettere le lacrime finte dai truccatori: "Non devo piagne' io, devo fa' piagnere gli altri". Aveva ragione, così come aveva ragione Diderot e torto Rousseau: la finzione conta più della sincerità. Sono stato amico di Laura Betti, ai tempi della "Dolce vita" campammo una settimana a whisky e noccioline. Con la Mondaini ho fatto una Canzonissima nel 1961, travestiti da bambini. Adoravo Greta Garbo.
Non ho amato la Callas: temeva il pubblico al punto che al bagno evitava il vaso dei comuni mortali e faceva pipì nei lavandini, all'amazzone. Amo mia sorella Lucia: il suo uomo sta al pianterreno, lei al primo, il figlio al quarto. L'unica famiglia felice è quella ben distanziata».
«Un figlio però l'avrei voluto. Mi diedero in affido due fratellini, figli di una prostituta. Avevo un cane, il pallone, il giardino, ma loro non sapevano che farsene, volevano tornare dai preti per giocare a calciobalilla. Ho provato con l'adozione. Sono stato esaminato da una giudichessa che però mi individuò subito come pessimo soggetto. "I figli hanno bisogno di una figura femminile". Io misi avanti mia madre e le mie sorelle, invano. Alle spalle della giudichessa c'era un calendario con l'immagine della Natività. Sorrisi: "La madre è rimasta incinta da vergine, il padre è putativo, famiglia più disastrata di quella non c'è". La giudichessa mi cacciò in malo modo: "Lei non è atto all'infanzia". Invece l'uomo, come il cavalluccio marino, è più portato della donna alla cura dei figli». «Verso la metà degli Anni Sessanta a Roma scioglievano l'opera maternità e infanzia. Ci sono andato, insieme con una dama benefica che aveva portato le caramelle. C'erano stanze piene di bambini che a quattro anni camminavano a stento e dicevano solo "cacca" e "cioccolato". Una suora di quelle pietose mi disse: "Ne prenda due e scappi". Io sognavo una bambina bionda e buona e una bruna e cattiva, come nelle fiabe, ma non feci in tempo a scegliere, in due mi saltarono al collo e mi chiamarono "mamma". "Ottimo inizio" pensai, e feci per guadagnare l'uscita. Mi fermò un infermiere, un sindacalista, che me le fece posare: meglio figlie dello Stato che di una ragazza irrecuperabile come me».
Aldo Cazzullo
27 dicembre 2006