12 Ottobre 2011
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Il grande sassofonista, 78 anni, tornerà in Italia con
il suo gruppo per tre concerti da domani al 17. Ci racconta cosa
rimane dei miti della musica afroamericana e quali sono le prospettive
per il futuro. Con Miles Davis ho passato bei tempi, non ho nessun
rimpianto. E´ stata l´esperienza più vicina alla verità che ci potesse
essere Una sfida interiore, un´esperienza mistica I musicisti di oggi
non irradiano l´aura della loro storia. Anche quelli pop e rock, che
danno l´impressione di non sapere raccontare neanche la loro vita di
tutti i giorni
ROMA. Se n´è stato via per un po´, in vacanza, soprattutto dagli studi di registrazione Wayne Shorter, il sassofonista più lirico del pianeta, compositore sublime, pupillo di maestri jazz come Miles Davis e Art Blakey. Ma adesso è tornato. Uno come lui, che è in pista dalla metà del secolo scorso, non ce l´ha fatta a resistere lontano dal palco. E a 78 anni portati con inalterata classe, il musicista di Newark torna in Europa con il suo affiatato quartetto di fuoriclasse, Danilo Perez al piano, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria. Tre le tappe italiane: il 13 a Bari, il 15 a Reggio Emilia e il 17 come anteprima al Roma Jazz Festival. Subito dopo il tour, Wayne annuncia un nuovo album del quartetto e, a seguire, un secondo con grande orchestra.
Da Londra dove ha trionfato al Barbican, ritroviamo uno Shorter tutt´altro che rassegnato a una tranquilla vecchiaia. Affascinante quando rievoca gli eroi della sua giovinezza come Lester Young, Coleman Hawkins e, naturalmente, Davis, ma pronto a nuove sfide per far capire attraverso la musica i problemi di questo inizio secolo così tormentato.
Venti anni fa è scomparso Miles Davis e la Sony pubblica ora un corposo album di inediti del celebre quintetto con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams dal tour europeo del 1967. Nel dvd in bianco e nero siete così eleganti in giacca e cravatta, alle prese ogni sera con gli stessi brani. Che effetto le fa rivedersi dopo tanto tempo?
«Non ho visto il dvd, ma ricordo bene quei concerti, come tutti gli anni con Miles. Abbiamo passato bei tempi insieme, non ho nessun rimpianto. E´ stata l´esperienza più vicina alla verità che ci potesse essere. Ogni concerto era diverso perché non facevamo prove e improvvisavamo al momento. Puro jazz istantaneo in cui ciascuno raccontava la sua storia senza stare a pensarci tanto su. Una storia narrata come una sfida interiore, un´esperienza mistica».
Lei è rimasto uno dei pochi testimoni viventi di quell´era epica del jazz. Oggi abbiamo musicisti formidabili, che suonano tutto e hanno studiato tutto, ma senza quell´aura straordinaria che emanava dai grandi maestri del passato. Come se lo spiega?
«Perché i musicisti che suonano oggi non irradiano l´aura della loro storia. Parlo anche dei musicisti pop, rock e più commerciali che danno l´impressione di non sapere raccontare neanche la loro vita di tutti i giorni fuori dal palco. Penso che nel suono della musica di oggi non debbano esserci al primo posto la tecnica e il virtuosismo. Diceva spesso Art Blakey ai musicisti più giovani: "Suoni il tuo strumento molto bene, sei abile e, come un acrobata, riesci a fare esercizi complicati, ma dove sei tu? Dov´è la tua persona? Non ti puoi sempre nascondere dietro lo strumento».
Uno dei suoi eroi da ragazzo era Lester Young, il fidanzato di Billie Holiday, il coolster per antonomasia, il sassofonista-mito col suono vellutato. Lo ha mai incontrato?
«Una volta in Canada. Ero quasi alla fine del mio servizio militare, avevo dieci giorni liberi e andai in vacanza a Toronto. Una sera ero in un nightclub, la Town Tavern dove suonava Lester che amavo fin da teenager. Durante l´intervallo ero seduto al bancone del bar a bere un bicchiere e me lo vedo spuntare dietro, sempre elegantissimo, con quella sua camminata lenta. "Sembri uno che viene da New York", mi bisbigliò. Mi chiese cosa stavo bevendo ed io: "Cognac". "Vieni giù in cantina che potrai assaporare un vero cognac". Detto, fatto. Cominciammo a parlare, ma non ricordo più di cosa, davanti a un bicchierone. Poi lui tornò a lavorare. Non si atteggiava a divo, era molto alla mano, contento di incontrare uno che veniva da New York. Gli raccontai che ero nell´esercito, ma non ebbi il coraggio di dirgli che ero un musicista».
Erano Lester Young e Coleman Hawkins i sassofonisti che hanno aperto l´età moderna. Ha conosciuto anche Hawkins?
«Ho viaggiato con lui in autobus durante il tour europeo del 1967. Insieme a Miles Davis e noi del quintetto, c´erano anche Sarah Vaughan, Pee Wee Russell e diversi altri. Mi ricordo che in Spagna Miles e Sarah mollarono per disaccordi contrattuali e noi suonammo in quartetto, Herbie, Ron, Tony ed io. Un giorno Coleman Hawkins mi consigliò di comperare un sassofono placcato d´oro perché, secondo lui, aveva un suono più scuro e bluesy».
E´ vero o era una battuta?
«In parte sì, perché si parlava dei concerti dal vivo. Oggi sembrano discorsi un po´ naif, ma in quei giorni non dipendevamo dai microfoni come adesso. E´ vero che Miles suonava dentro il microfono, ma a volte lo faceva anche di spalle e la sua tromba si sentiva lo stesso. Allora non piangevamo troppo se i microfoni non erano proprio ok».
Non solo ha suonato con gli eroi del jazz e ha inventato con Joe Zawinul la magica alchimia fusion del Weather Report, ma si è misurato anche con star molto diverse come Joni Mitchell e Milton Nascimento.
«Ho fatto un disco con Joni Mitchell perché ha uno spirito libero e combattente. Milton l´ho scelto perché aveva un sound diverso dalla solita bossa nova allora in voga. Nella sua musica ci sono tracce suggestive di Africa e Amazzonia. Milton è uno che ha coraggio. Ora che ci penso, per me leggende come Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk o Bud Powell che mi hanno fatto scoprire la musica a 15 anni non sono solo musicisti, ma supereroi. Perché hanno cambiato la realtà, ci hanno spinto a essere liberi quando, in America, era molto difficile».
Oggi come vede la situazione, anche politica, in America?
«Adesso dobbiamo sperare nella sfida di Obama o di qualcuno più giovane, anche se la politica oggi è un po´ deludente. Per questo la musica che suono ora parla dell´inatteso. Oggi tutta la gente del mondo deve imparare come comportarsi di fronte all´inaspettato, negoziando di continuo con ciò che suona familiare, il conservatorismo e le abitudini più castranti tipo "amo questa canzone perché mi ha fatto incontrare mia moglie" o cose del genere. No, no, devi interagire con l´inatteso se incontri qualcuno che non è come te, non è della stessa razza o il tuo vicino di casa ti sembra differente perché parla un´altra lingua. Devi tenere conto dell´inatteso a tutti i livelli della politica, dell´arte, di tutto. Siamo in mezzo ad un grande cambiamento epocale che non è più possibile ignorare».