Due milioni di persone a Tahrir Square,
Cairo. La grande piazza non riesce a contenerle. La folla preme dalle
grandi arterie del centro, Kasr el Nil, Talaat Harb, fin dalla Ramses
Station, dove i fellahin arrivano dall' Alto Egitto e dal Delta. Non
è la rivoluzione ma un funerale. Il popolo è venuto per l' ultimo
saluto a Oum Kalthoum, la più grande cantante del mondo arabo.
Contravvenendo alle regole islamiche, le autorità sono costrette a
posticipare le esequie di due giorni. Motivi di ordine pubblico. Non
riescono a caricare il feretro sul carro come previsto, gli egiziani
reclamano la loro diva, la bara passa di mano in mano, sulle teste di
uomini, donne e bambini che piangono «la mamma» e non la smettono
di cantilenare Enta omri, sei la mia vita, la più popolare delle sue
canzoni. È il 4 febbraio 1975.
Le immagini dell' addio alla Callas
d' Egitto (che nel 1967 fece piangere Marie Lafôret durante un raro
concerto all' Olympia di Parigi) fanno il giro delle televisioni di
lingua araba, ma l' eco è fievole nel mondo occidentale.
Da noi si
consumano canzonette da tre minuti, quelle di Oum Kalthoum sono poemi
in musica che durano tre quarti d' ora, per contenerli ci vuole un
intero long playing. Non c' è attenzione per le musiche del mondo.
Eppure Robert Plant, la voce dei Led Zeppelin, dice che Oum Kalthoum
è la sua musa. Lo ripete anche Peter Gabriel, che diventerà uno
degli ambasciatori delle musiche del mondo. Chaka Khan, la soul singer americana, cita tra le sue maestre Yma
Sumac, la cantante peruviana più melodiosa di un usignolo, ma non ci
saranno orecchie pronte ad ascoltare «altri suoni» prima del 1982
quando l' etichetta "world music" diventa la bandiera della
comunicazione globale con largo anticipo sull' avvento di internet. I
suoni del mondo circolano più facilmente con i flussi migratori, ma
trovano affezionati anche tra i fan irriducibili del poprock;ei più
prestigiosi teatri del mondo, dal Barbican di Londra alla Carnegie
Hall di New York, dall' Olympia di Parigi alla Suntory Hall di Tokyo,
spalancano le porte a Chavela Vargas, pasionaria messicana tanto cara
a Frida Kahlo, Camaron de la Isla, eroe del nuovo flamenco, e Cheb
Khaled, travolgente interprete del raï algerino. Non saranno più
solo sporadiche vedette a varcare i confini dell' impero - Edith Piaf
e Amália Rodriguez, Chevalier e Aznavour - o blasonati esponenti di
tango e bossa nova che flirtano coi jazzisti americani - Piazzolla e
Jobim e João Gilberto - o suonatori di sitar indiani arrivati all'
orecchio dei rocchettari per buona volontà dei Beatles - Ravi
Shankar - o contagiosi rasta giamaicani che con reggaee marijuana si
intrufolano nelle fantasie rock - la dinastia dei Marley - o
frenetici mambo kings sbarcati a Manhattan negli anni d' oro del
Palladium - Celia Cruz e Tito Puente - ma una legione di talenti
provenienti da deserti remoti, giungle inesplorate, lande sconfinate,
villaggi sperduti, steppe ghiacciate, savane che celano nell'
ombelico del mondo ritmie tradizioni scampate all' imperialismo del
pop.
La world music, da trent' anni a questa parte, è una delle
poche certezze del mercato discografico. Con riscontri commerciali
che gli etnomusicologi di un tempo neanche avrebbero immaginato: i
fratelli Lomax, che giravano il mondo per registrare voci sul
campo,oi discografici che in Italia coraggiosamente stampavano canti
dell' Angola o saltarelli marchigiani nei dischi Albatros, tanto di
nicchia da essere venduti in libreria (come quelli meravigliosi
pubblicati in Francia da Le chant du monde). È come se all'
improvviso si scoperchiasse un secondo vaso di Pandora rimasto
sigillato e ne venissero fuori ritmi, lingue e melodie sconosciute e
scatenasse una Babele sonora in cui miracolosamente l' ascoltatore
non perde il filo ma prende confidenza con i tuva della Mongolia, le
polifonie corse e bulgare, morne e coladere capoverdine, lundum di
São Tomé e ponchak coreano. Come capita spesso l' arte anticipa la
società perché, da anni, è già multiculturale. Così oggi, nel
momento di massima crisi del pop, la world music è una risorsa tanto
indispensabile quanto inevitabile. Lo storico duetto Neneh Cherry &
Youssou N' Dour - che cantarono Seven Seconds (1994) come se fossero
cresciuti insieme e non una a Stoccolma e l' altro a Dakar - ha
spalancato le portea una nuova fusion che dalle siderali esplorazioni
dell' islandese Björk all' ammiccante melisma della colombiana
Shakira (che ha un solido pedigree mediorientale), dall' appassionata
collaborazione di Eddie Vedder dei Pearl Jam col principe del qawwali
pakistano Nusrat Fateh Ali Khan (nella colonna sonora di Dead man
walking) alle travolgenti fanfare zigane di Goran Bregovic è
diventata talmente familiare da rendere plausibile e per niente
dissonante persino un duetto fra Celentano e Cesária Évora, la diva
scalza di Capo Verde.
La world music è ormai la colonna sonora del
comune sentire. Ma la storia ha un inizio. Nel 1982 a Shepton
Mallett, in Inghilterra, esordisce il Festival Womad (World of music,
arts and dance), che Peter Gabriel finanzia con i proventi della
reunion dei Genesis. È il primo passo per la realizzazione dei Real
World Studios a Bath, nel Wiltshire, un sogno che Gabriel cova da
anni e realizza nel 1989: una sorta di laboratorio musicale
multietnico in un angolo incantato della campagna inglese. La prima
compilation pubblicata, Passion - Sources, è il manifesto della Real
World, con musiche dal Senegal e dall' Egitto, dal Marocco e dall'
Iran, dall' Armenia e dalla Guinea, dall' Etiopia e dallo Zaire; in
soli due anni oltre 75 artisti di 20 paesi del mondo transitano negli
studi di Bath. «Come artista, mi sono sempre sentito cittadino del
mondo», dice Gabriel. «Avevo una casa in Senegal e mentre scrivevo
la colonna sonora per L' ultima tentazione di Cristo di Scorsese
scoprii il duduk, un meraviglioso strumento armeno che Djavan
Gasparyan suonava in maniera inimitabile. Il Womad Festival è stato
il mezzo che mi ha messo a contatto con decine di incredibili talenti
che nessuno avrebbe mai scritturato in Occidente».
Il Telegraph l'
ha battezzatto «l' angelo custode della world music», in effetti
senza di lui non avremmo conosciuto le esotiche meraviglie dell'
Orchestra Baobab né il sontuoso melisma di Youssou N' Dour,
tantomeno i tamburi del Burundi o le litanie dei monaci tibetani. «Al
di là del suono, al di là della tecnologia, i grandi dischi
derivano sempre da grandi performance», puntualizza Gabriel. «La
Real World ha creato una comunità di artisti che, pur non
condividendo lo stesso background culturale, hanno un' empatia con la
musica nel senso più ampio del termine. E questo ha generato una
rivoluzione pacifica all' interno dell' industria». Pacifica e
dilagante.
In trent' anni, la belga Crammed Discs ha pubblicato quasi
300 album e 250 singoli di artisti come Taraf de Haïdouks, rom di
Bucarest, e Staff Benda Bilili, straordinari musicisti disabili
scoperti nella bidonville di Kinshasa.
Negli Usa, la Putumayo, è
diventata un' etichetta cult con le sue compilation e con la prima
radio di world music, fondata nel 2000. Sempre in America, la Luaka
Bop, fondata nel 1989 da David Byrne, l' ex leader dei Talking Heads
in rotta di collisione con il rock, ha pubblicato perle rare di
musica sudamericana e africana.
Dal 1986, l' inglese World Circuit e
il produttore Nick Gold hanno creato un filo diretto tra la musica
maliana e quella cubana. Con l' ausilio di Ry Cooder hanno prodotto
due dischi simbolo dell' epopea della world music, Talking Timbuktu
di Ali Farka Touré (1994) e Buena Vista Social Club (1997),
realizzato con vecchie glorie della musica cubana ormai ridotte sul
lastrico; successo commerciale senza precedenti, votato dal
quindicinale Rolling Stone come uno dei 500 più bei dischi di tutti
i tempi (abbinato a uno storico concerto alla Carnegie Hall e a un
documentario girato da Wim Wenders - che ne aveva appena terminato
uno sui portoghesi Madredeus, Lisbon story ). Trent' anni, ma sembra
passato un secolo. «Chi prende spesso un taxi a New York ha oggi la
possibilità di farsi un' idea di quanti e quali suoni si siano
inestricabilmente impastati con quelli che si ascoltavano nella
metropoli all' epoca dei Beatles», commenta il compositore Philip
Glass. Oum Kalthoum non è più solo una diva araba. Oggi è una
meraviglia del mondo. Come la sfinge. GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica - 23 ottobre 2011Da Cesária Évora a Caetano Veloso così è finito il pregiudizio esotico
DAVID BYRNE Testo raccolto da Andrea Morandi Repubblica 23 ottobre 2011
Dodici anni fa il New York Times mi
chiese di scrivere un articolo sulla musica etnica. Lo iniziai
affermando che odiavo la world music. Era ovviamente una
provocazione, ma era anche un modo di prendermela con un termine,
world music, che era stato coniato dal mercato occidentale unicamente
per catalogare il novanta per cento della musica prodotta n e l r e s
t o d e l mondo. Mi sembrava piuttosto presuntuoso infatti che i
produttori del dieci per cento della musica presente sul globo
potessero applicare un' unica etichetta per definire un universo
sonoro immenso e tanto variegato, capace di abbracciare la bossa nova
brasiliana quanto il folk bulgaro. Nonostante continui a rimanere
decisamente scettico sul termine con cui indichiamo la musica
proveniente da altri Paesi, oggi affronterei l' argomento in maniera
diversa. Perché? Perché le cose sono molto cambiate, sia rispetto a
dodici anni fa che rispetto agli anni Ottanta, quando registrai Rei
Momo, disco in cui confluivano generi diversi come la salsa, la
cumbia e il mambo, e poi decisi di fondare un' etichetta che si
occupasse unicamente di musica etnica, la Luaka Bop, per cui negli
ultimi vent' anni anni hanno inciso artisti come il brasiliano Tom
Zé, la peruviana Susana Baca e i messicani Los de Abajo. Ricordo che
a quei tempi, quando citavo il nome di qualche artista straniero che
non fosse di lingua inglese o non fosse mai entrato nelle classifiche
americane, la gente strabuzzava gli occhi e mi guardava in modo
strano, come se stessi parlando di un qualcosa di esotico che non la
riguardava direttamente. Oggi invece la situazione si è evoluta:
artisti come Caetano Veloso o Cesária Évora sono celebri in tutto
il mondo e a Broadway uno dei musical di maggior successo degli
ultimi anni è stato addirittura Fela, incentrato sulla vita del
grande musicista nigeriano Fela Kuti. Un fenomeno piuttosto
impensabile solo dieci anni fa.
Ma non sono gli unici segnali: nell'
ultimo album dei Red Hot Chili Peppers suona un bravissimo
percussionista brasiliano, Mauro Refosco, il chitarrista jazz Bill
Frisell ha appena inciso un disco con il brasiliano Vinicius
Cantuaria e perfino Mick Jagger ha registrato un album con il
compositore indiano A. R. Rhaman. La Rete ha sicuramente influito nel
modificare l' atteggiamento nei confronti della musica etnica,
accelerandone la conoscenza e la diffusione, ma forse è servita
anche l' abitudine crescente negli anni a cimentarsi nell' ascolto di
suoni diversi, senza considerarli per forza qualcosa di eccentrico o
esotico. Una cosa che però ancora non riesco a spiegarmi all'
interno di questo scenario è come, in una rinnovata popolarità e
attenzione verso la world music, non ci sia abbastanza considerazione
verso la scena musicale italiana che seguo da molti anni e considero
una vera e propria miniera. Nel mio iPod ho molti dischi di vostri
musicisti, da Fabrizio De André a Marisa Sannia e Franco Battiato,
ma se nomino uno solo di loro al di fuori dai confini italiani
nessuno li conosce, nemmeno De Andrè e il suo Crêuza de mä, che
continuo a ritenere un capolavoro assoluto nonché uno dei lavori più
importanti nell' ambito della world music. Non ne ho ancora capito i
motivi, ma credo che in parte dipenda dal pregiudizio che spesso
giace nell' orecchio di chi ascolta: se chi suona viene dal Brasile,
allora pensiamo debba per forza cimentarsi con la bossa nova; se è
argentino dovrà ovviamente eseguire un tango; se invece è italiano
allora dovrà essere un grande interprete d' opera. E forse è
proprio questo superamento del pregiudizio il prossimo passaggio da
affrontare, quello definitivo, per comprendere e ascoltare meglio la
musica etnica. -