martedì 25 ottobre 2011

LA CANZONE GLOBALE E ADESSO E' TUTTA WORLD MUSIC



Due milioni di persone a Tahrir Square, Cairo. La grande piazza non riesce a contenerle. La folla preme dalle grandi arterie del centro, Kasr el Nil, Talaat Harb, fin dalla Ramses Station, dove i fellahin arrivano dall' Alto Egitto e dal Delta. Non è la rivoluzione ma un funerale. Il popolo è venuto per l' ultimo saluto a Oum Kalthoum, la più grande cantante del mondo arabo. Contravvenendo alle regole islamiche, le autorità sono costrette a posticipare le esequie di due giorni. Motivi di ordine pubblico. Non riescono a caricare il feretro sul carro come previsto, gli egiziani reclamano la loro diva, la bara passa di mano in mano, sulle teste di uomini, donne e bambini che piangono «la mamma» e non la smettono di cantilenare Enta omri, sei la mia vita, la più popolare delle sue canzoni. È il 4 febbraio 1975.
Le immagini dell' addio alla Callas d' Egitto (che nel 1967 fece piangere Marie Lafôret durante un raro concerto all' Olympia di Parigi) fanno il giro delle televisioni di lingua araba, ma l' eco è fievole nel mondo occidentale.
Da noi si consumano canzonette da tre minuti, quelle di Oum Kalthoum sono poemi in musica che durano tre quarti d' ora, per contenerli ci vuole un intero long playing. Non c' è attenzione per le musiche del mondo. Eppure Robert Plant, la voce dei Led Zeppelin, dice che Oum Kalthoum è la sua musa. Lo ripete anche Peter Gabriel, che diventerà uno degli ambasciatori delle musiche del mondo. Chaka Khan, la soul singer americana, cita tra le sue maestre Yma Sumac, la cantante peruviana più melodiosa di un usignolo, ma non ci saranno orecchie pronte ad ascoltare «altri suoni» prima del 1982 quando l' etichetta "world music" diventa la bandiera della comunicazione globale con largo anticipo sull' avvento di internet. I suoni del mondo circolano più facilmente con i flussi migratori, ma trovano affezionati anche tra i fan irriducibili del poprock;ei più prestigiosi teatri del mondo, dal Barbican di Londra alla Carnegie Hall di New York, dall' Olympia di Parigi alla Suntory Hall di Tokyo, spalancano le porte a Chavela Vargas, pasionaria messicana tanto cara a Frida Kahlo, Camaron de la Isla, eroe del nuovo flamenco, e Cheb Khaled, travolgente interprete del raï algerino. Non saranno più solo sporadiche vedette a varcare i confini dell' impero - Edith Piaf e Amália Rodriguez, Chevalier e Aznavour - o blasonati esponenti di tango e bossa nova che flirtano coi jazzisti americani - Piazzolla e Jobim e João Gilberto - o suonatori di sitar indiani arrivati all' orecchio dei rocchettari per buona volontà dei Beatles - Ravi Shankar - o contagiosi rasta giamaicani che con reggaee marijuana si intrufolano nelle fantasie rock - la dinastia dei Marley - o frenetici mambo kings sbarcati a Manhattan negli anni d' oro del Palladium - Celia Cruz e Tito Puente - ma una legione di talenti provenienti da deserti remoti, giungle inesplorate, lande sconfinate, villaggi sperduti, steppe ghiacciate, savane che celano nell' ombelico del mondo ritmie tradizioni scampate all' imperialismo del pop. 
La world music, da trent' anni a questa parte, è una delle poche certezze del mercato discografico. Con riscontri commerciali che gli etnomusicologi di un tempo neanche avrebbero immaginato: i fratelli Lomax, che giravano il mondo per registrare voci sul campo,oi discografici che in Italia coraggiosamente stampavano canti dell' Angola o saltarelli marchigiani nei dischi Albatros, tanto di nicchia da essere venduti in libreria (come quelli meravigliosi pubblicati in Francia da Le chant du monde). È come se all' improvviso si scoperchiasse un secondo vaso di Pandora rimasto sigillato e ne venissero fuori ritmi, lingue e melodie sconosciute e scatenasse una Babele sonora in cui miracolosamente l' ascoltatore non perde il filo ma prende confidenza con i tuva della Mongolia, le polifonie corse e bulgare, morne e coladere capoverdine, lundum di São Tomé e ponchak coreano. Come capita spesso l' arte anticipa la società perché, da anni, è già multiculturale. Così oggi, nel momento di massima crisi del pop, la world music è una risorsa tanto indispensabile quanto inevitabile. Lo storico duetto Neneh Cherry & Youssou N' Dour - che cantarono Seven Seconds (1994) come se fossero cresciuti insieme e non una a Stoccolma e l' altro a Dakar - ha spalancato le portea una nuova fusion che dalle siderali esplorazioni dell' islandese Björk all' ammiccante melisma della colombiana Shakira (che ha un solido pedigree mediorientale), dall' appassionata collaborazione di Eddie Vedder dei Pearl Jam col principe del qawwali pakistano Nusrat Fateh Ali Khan (nella colonna sonora di Dead man walking) alle travolgenti fanfare zigane di Goran Bregovic è diventata talmente familiare da rendere plausibile e per niente dissonante persino un duetto fra Celentano e Cesária Évora, la diva scalza di Capo Verde. 
La world music è ormai la colonna sonora del comune sentire. Ma la storia ha un inizio. Nel 1982 a Shepton Mallett, in Inghilterra, esordisce il Festival Womad (World of music, arts and dance), che Peter Gabriel finanzia con i proventi della reunion dei Genesis. È il primo passo per la realizzazione dei Real World Studios a Bath, nel Wiltshire, un sogno che Gabriel cova da anni e realizza nel 1989: una sorta di laboratorio musicale multietnico in un angolo incantato della campagna inglese. La prima compilation pubblicata, Passion - Sources, è il manifesto della Real World, con musiche dal Senegal e dall' Egitto, dal Marocco e dall' Iran, dall' Armenia e dalla Guinea, dall' Etiopia e dallo Zaire; in soli due anni oltre 75 artisti di 20 paesi del mondo transitano negli studi di Bath. «Come artista, mi sono sempre sentito cittadino del mondo», dice Gabriel. «Avevo una casa in Senegal e mentre scrivevo la colonna sonora per L' ultima tentazione di Cristo di Scorsese scoprii il duduk, un meraviglioso strumento armeno che Djavan Gasparyan suonava in maniera inimitabile. Il Womad Festival è stato il mezzo che mi ha messo a contatto con decine di incredibili talenti che nessuno avrebbe mai scritturato in Occidente». 
Il Telegraph l' ha battezzatto «l' angelo custode della world music», in effetti senza di lui non avremmo conosciuto le esotiche meraviglie dell' Orchestra Baobab né il sontuoso melisma di Youssou N' Dour, tantomeno i tamburi del Burundi o le litanie dei monaci tibetani. «Al di là del suono, al di là della tecnologia, i grandi dischi derivano sempre da grandi performance», puntualizza Gabriel. «La Real World ha creato una comunità di artisti che, pur non condividendo lo stesso background culturale, hanno un' empatia con la musica nel senso più ampio del termine. E questo ha generato una rivoluzione pacifica all' interno dell' industria». Pacifica e dilagante. 
In trent' anni, la belga Crammed Discs ha pubblicato quasi 300 album e 250 singoli di artisti come Taraf de Haïdouks, rom di Bucarest, e Staff Benda Bilili, straordinari musicisti disabili scoperti nella bidonville di Kinshasa. 
Negli Usa, la Putumayo, è diventata un' etichetta cult con le sue compilation e con la prima radio di world music, fondata nel 2000. Sempre in America, la Luaka Bop, fondata nel 1989 da David Byrne, l' ex leader dei Talking Heads in rotta di collisione con il rock, ha pubblicato perle rare di musica sudamericana e africana. 
Dal 1986, l' inglese World Circuit e il produttore Nick Gold hanno creato un filo diretto tra la musica maliana e quella cubana. Con l' ausilio di Ry Cooder hanno prodotto due dischi simbolo dell' epopea della world music, Talking Timbuktu di Ali Farka Touré (1994) e Buena Vista Social Club (1997), realizzato con vecchie glorie della musica cubana ormai ridotte sul lastrico; successo commerciale senza precedenti, votato dal quindicinale Rolling Stone come uno dei 500 più bei dischi di tutti i tempi (abbinato a uno storico concerto alla Carnegie Hall e a un documentario girato da Wim Wenders - che ne aveva appena terminato uno sui portoghesi Madredeus, Lisbon story ). Trent' anni, ma sembra passato un secolo. «Chi prende spesso un taxi a New York ha oggi la possibilità di farsi un' idea di quanti e quali suoni si siano inestricabilmente impastati con quelli che si ascoltavano nella metropoli all' epoca dei Beatles», commenta il compositore Philip Glass. Oum Kalthoum non è più solo una diva araba. Oggi è una meraviglia del mondo. Come la sfinge. GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica - 23 ottobre 2011

Da Cesária Évora a Caetano Veloso così è finito il pregiudizio esotico

DAVID BYRNE Testo raccolto da Andrea Morandi Repubblica 23 ottobre 2011
Dodici anni fa il New York Times mi chiese di scrivere un articolo sulla musica etnica. Lo iniziai affermando che odiavo la world music. Era ovviamente una provocazione, ma era anche un modo di prendermela con un termine, world music, che era stato coniato dal mercato occidentale unicamente per catalogare il novanta per cento della musica prodotta n e l r e s t o d e l mondo. Mi sembrava piuttosto presuntuoso infatti che i produttori del dieci per cento della musica presente sul globo potessero applicare un' unica etichetta per definire un universo sonoro immenso e tanto variegato, capace di abbracciare la bossa nova brasiliana quanto il folk bulgaro. Nonostante continui a rimanere decisamente scettico sul termine con cui indichiamo la musica proveniente da altri Paesi, oggi affronterei l' argomento in maniera diversa. Perché? Perché le cose sono molto cambiate, sia rispetto a dodici anni fa che rispetto agli anni Ottanta, quando registrai Rei Momo, disco in cui confluivano generi diversi come la salsa, la cumbia e il mambo, e poi decisi di fondare un' etichetta che si occupasse unicamente di musica etnica, la Luaka Bop, per cui negli ultimi vent' anni anni hanno inciso artisti come il brasiliano Tom Zé, la peruviana Susana Baca e i messicani Los de Abajo. Ricordo che a quei tempi, quando citavo il nome di qualche artista straniero che non fosse di lingua inglese o non fosse mai entrato nelle classifiche americane, la gente strabuzzava gli occhi e mi guardava in modo strano, come se stessi parlando di un qualcosa di esotico che non la riguardava direttamente. Oggi invece la situazione si è evoluta: artisti come Caetano Veloso o Cesária Évora sono celebri in tutto il mondo e a Broadway uno dei musical di maggior successo degli ultimi anni è stato addirittura Fela, incentrato sulla vita del grande musicista nigeriano Fela Kuti. Un fenomeno piuttosto impensabile solo dieci anni fa. 
Ma non sono gli unici segnali: nell' ultimo album dei Red Hot Chili Peppers suona un bravissimo percussionista brasiliano, Mauro Refosco, il chitarrista jazz Bill Frisell ha appena inciso un disco con il brasiliano Vinicius Cantuaria e perfino Mick Jagger ha registrato un album con il compositore indiano A. R. Rhaman. La Rete ha sicuramente influito nel modificare l' atteggiamento nei confronti della musica etnica, accelerandone la conoscenza e la diffusione, ma forse è servita anche l' abitudine crescente negli anni a cimentarsi nell' ascolto di suoni diversi, senza considerarli per forza qualcosa di eccentrico o esotico. Una cosa che però ancora non riesco a spiegarmi all' interno di questo scenario è come, in una rinnovata popolarità e attenzione verso la world music, non ci sia abbastanza considerazione verso la scena musicale italiana che seguo da molti anni e considero una vera e propria miniera. Nel mio iPod ho molti dischi di vostri musicisti, da Fabrizio De André a Marisa Sannia e Franco Battiato, ma se nomino uno solo di loro al di fuori dai confini italiani nessuno li conosce, nemmeno De Andrè e il suo Crêuza de mä, che continuo a ritenere un capolavoro assoluto nonché uno dei lavori più importanti nell' ambito della world music. Non ne ho ancora capito i motivi, ma credo che in parte dipenda dal pregiudizio che spesso giace nell' orecchio di chi ascolta: se chi suona viene dal Brasile, allora pensiamo debba per forza cimentarsi con la bossa nova; se è argentino dovrà ovviamente eseguire un tango; se invece è italiano allora dovrà essere un grande interprete d' opera. E forse è proprio questo superamento del pregiudizio il prossimo passaggio da affrontare, quello definitivo, per comprendere e ascoltare meglio la musica etnica. -