lunedì 26 aprile 2010
La fede e gli enigmi della fede
Il giorno che accetteremo tutte le forme di fede, senza esclusioni, forse diventeremo più fratelli, e più accoglienti gli uni verso gli altri. Ma per questo è necessario che chiunque abiti una fede non pensi di possedere la verità, e per giunta assoluta.
La sua risposta "Evoluzionismo vs creazionismo" apparsa su D La Repubblica del 6 febbraio scorso è densa di considerazioni interessanti, concrete e condivisibili. Ragionevole la separazione dei due ambiti di ricerca (se cosi si può dire) di scienza e fede. La prima risponde ad una domanda di senso del mondo reale (una spiegazione di esso), la seconda ad una domanda di senso dell'esistenza umana. Dunque meno reale? Quindi meno riscontrabile attraverso metodologie di tipo sperimentale? Non sono come lei giustamente sostiene due metodi somiglianti, ma pur nella differenza sono entrambi sostenuti da esigenze di impronta razionale.
Basta un po' intendersi sul concetto di Ragione e di Verità. È giusto limitare il tema della verità a ciò che è accidentalmente evidente? O può considerarsi "vero", quindi umanamente presente lo stesso bisogno di conoscenza che sempre ha spinto l'uomo nell'avventura dello "sperimentare varie possibilità di ipotesi'? Appartiene allo stesso bisogno di conoscenza del mondo anche la conoscenza delle strutture costitutive del proprio essere, facenti parte esse stesse del mondo in quanto appartenenti alla realtà umana? Di un Dio della atemporalità non si può fare nessuna esperienza, come del resto di una fede regolata dalle proprie suggestioni intimistiche. Ma di un Dio che si manifesta nella storia ponendo nel Figlio la possibilità di una nuova umanità della cui fondatezza è possibile fare esperienza?
Uno dei più grandi teologi del nostro tempo, Luigi Giussani, ha scritto innumerevoli testi per dare consistenza teoretica e opportunità pratica all'ipotesi che il cristianesimo sia un avvenimento di fronte a cui il soggetto uomo può imbattersi in ogni tempo. Giussani sostiene che l'incontro con un avvenimento cosìi genera il cambiamento della propria soggettività, rispondendo alle esigenze più caratterizzanti l'umano. E di questo può essere "ragionevole" fame esperienza. 0 no? Confidando in una sua autorevole risposta la saluto molto cordialmente. Tea Gamba entebeffallce.lt
Risponde Umberto Galimberti:
In quella lettera, in cui si discuteva del conflitto tra scienza e fede, sostenevo che si trattava di una controversia inutile per due ragioni. La prima è che né la fede né la scienza hanno a che fare con la verità, perché la fede "crede" proprio perché "non sa", e la scienza non ha mai preteso di dire la verità, perché è consapevole che le sue conclusioni sono deduzioni dalle ipotesi che ha anticipato, disposta a cambiarle quando ne trova di migliori. La seconda ragione faceva riferimento al fatto che la fede risponde all'esigenza di reperire un senso per la nostra esistenza, mentre la scienza si propone di pervenire a una conoscenza sempre più approfondita del mondo. Stante questi due diversi obbiettivi non c'è quindi tra loro un piano comune su cui contendere. Ora lei mi dice che fa parte della conoscenza del mondo anche la conoscenza di sé. Questo non glielo concedo perché, come ci insegna Kant, la conoscenza del mondo procede
con il metodo causale che cerca le cause dei fenomeni, mentre la conoscenza di sé procede con un'impostazione finalistica che cerca un senso, uno scopo, un fine alla propria esistenza. E scopi, sensi e fini non appartengono né alla ricerca né al metodo scientifico. Per cui, conclude Kant, noi possiamo avere solo una conoscenza "fisica" del mondo, ma non una conoscenza "metafisica", per cui possiamo solo "postulare" l'esistenza dell'anima e di Dio, ma non "dimostrare" l'esistenza dì queste entità. Lei mi dirà che Kant non ha incontrato, come don Giussani, il Cristo, ossia il figlio di Dio che si è fatto uomo. Ma che Dio si sia fatto uomo è un atto di fede, e la fede, come abbiamo detto, non ha a che fare con la verità, rispetto alla quale, come ci ricordano San Paolo e San Tommaso, rimane in timore et tremore multo perché la fede, sempre a loro dire, richiede un sacrifi-cium intellectus.
Ognuno di noi, per ragioni personali, può sacrificare il proprio intelletto, ma è una scelta personale che non si può chiedere a tutti. Quanto poi alla difficoltà di credere a un «Dio dell'atemporalità di cui non si può fare alcuna esperienza», come lei dice, le ricordo che sia i mussulmani, sia gli ebrei non credono a un Dio incarnato, e non per questo sono meno religiosi di noi. Il giorno che accetteremo tutte le forme di fede, senza esclusioni, forse diventeremo più fratelli, e più accoglienti gli uni verso gli altri. Ma per questo è necessario che chiunque abiti una fede non pensi di possedere la verità, e per giunta assoluta.
umbertogalimberti@repubblica.it
D, Repubblica delle donne, 24 APRILE 2010