lunedì 26 aprile 2010

Così i giorni della cenere hanno messo in crisi la civiltà


Quella che ci fa passare improvvisamente dall'euforia tecnologica alla percezione della nostra fragilità. Abbiamo spesso la presunzione di dettar legge alla natura, di leggere i suoi misteri come un libro aperto, addirittura di poter essere noi a salvare lei, ma basta il colpo di tosse di un vulcano che brucia in un lampo duecento milioni di euro per ridimensionare le nostre ambizioni. E restituirci un po' di senso della misura.


L'eruzione del vulcano islandese ha paralizzato il sistema dei trasporti dei paesi avanzati e riproposto il tema del rapporto fra l'uomo e i fenomeni fisici

Una donna grande come una montagna con un volto a metà tra il bello e il terribile. Così Giacomo Leopardi immagina la natura che si manifesta in tutta la sua spaventosa potenza ad un Islandese. Con la capacità visionaria che è solo dei geni, l'autore delle Operette morali anticipa gli scenari del presente facendo proprio della primordiale Islanda - terra di vulcani esplodenti, acque ribollenti e ceneri volanti - il simbolo di una natura più forte di ogni disegno umano.E capace di mettere in ginocchio lo strapotere della civiltà tecnologica e paralizzare il pianeta gettando un'ombra nera sulle nostre certezze.

Questa smisurata grandiosità della natura gli antichi la veneravano come una divinità onnipotente, una madre generosa e spietata che con la medesima indifferenza crea e distrugge. Laddove noi moderni di fronte alle stesse manifestazioni oscilliamo fra la supponenza e il senso di colpa, tra l'indifferenza e la paura.
Saccheggiamo il pianeta come se fosse a nostra completa disposizione e al tempo stesso celebriamo riti espiatori come l'Earth day.
E quando il soffio nero dell'Eyjafjallajökull oscura i cieli d'Europa e costringe a terra diciottomila aerei in un sol giorno ci risvegliamo bruscamente dal nostro delirio di onnipotenza. E ancora una volta, per noi come per gli antichi, il vulcano in fiamme diventa una maschera che nasconde il mistero della natura. Un modello di quel principio della vita e della morte che si rivela agli uomini solo nell'incandescenza mutevole e imprevedibile degli elementi. Proprio come diceva Eraclito, che considerava il fuoco all'origine delle cose, degli dei e degli uomini, nucleo generatore del cosmo.

La religione degli antichi era in realtà un pensiero della natura. E in ogni suo luogo e manifestazione riconosceva un dio. Giove, il re degli immortali, signore della pioggia e del fulmine, era identificato con le querce immense che coprivano le cime tempestose dei monti dove per lo più sorgevano i suoi santuari. E dove era possibile avvertire la sua voce nello scoppio delle folgori, nel mormorio delle foglie, nel rombo dei tuoni che risuonavano come gong soprannaturali. E i re dell'antichità, per somigliare al loro modello divino, portavano corone di foglie di quercia e imitavano il tuono percuotendo lastre di bronzo.
Erano cerimonie per affermare l'unione tra uomini e natura. Una sorta di matrimonio.

Come quello che gli antichi re di Roma celebravano con le dee della vegetazione e dell'acqua. Famoso fra tutti quello tra Numa Pompilio e la Ninfa Egeria, personificazione latina di Diana. Come dire che non è possibile un buon governo della terra senza avere stretto un patto con la natura. Con le parole di oggi lo chiameremmo un equilibrio virtuoso tra uomo e ambiente.

La vera differenza sta nel fatto che il pensiero degli antichi considerava l'uomo una parte della natura e non il suo centro. L'antropocentrismo, ossia l'affermazione dell'assoluta superiorità degli uomini rispetto alle altre specie viventi e nei confronti della natura in generale, è infatti figlio del cristianesimo. Ed è una delle ragioni storiche del relativo disinteresse dell'Occidente per le sorti dell'ecosistema. Sin dalle origini la religione del dio fatto uomo si caratterizza per una forte diffidenza verso tutto ciò che è natura, intesa come habitat, ma anche come ciò che nell'uomo stesso è semplicemente materia vivente. Verso la nostra parte animale insomma. Non a caso il diavolo viene spesso raffigurato in forma di bestia. Perché il dio della Bibbia crea la natura, ma non è la natura.

Già nei primi grandi pensatori della Chiesa, come sant'Agostino, si avverte il senso di un profondo distacco tra l'uomoe le altre specie, tra società e ambiente. Fondato sull'idea di una trascendenza dell'uomo rispetto a tutti gli altri viventi, sul modello dell'assoluta trascendenza divina. E, agli inizi della modernità, una delle divergenze fra il mondo cattolico e quello protestante sta proprio nel fatto che quest'ultimo conserva, pur secolarizzata, un'etica della natura, un senso della sacralità dei boschi, dei monti, dei laghi. Quasi una reminiscenza degli antichi culti germanici. Come ha scritto il grande antropologo Claude LéviStrauss, è stato il mito della dignità esclusiva dell'uomo in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio, a separarlo di fatto dalla natura. Facendone un re estraneo al suo regno. Oggi il nostro rapporto con la natura rappresenta la versione secolarizzata dell'antropocentrismo cristiano. Con la fede nel progresso al posto di quella in dio. Non ci sentiamo parti di un tutto, ma abbiamo diviso il tutto in parti. Il nostro immaginario ha parcellizzato quell'unità primordiale che gli antichi rispettavano religiosamente, dividendola in tante specializzazioni. Clima, pianeta, meteo, ambiente, atmosfera. Competenze separate del gran ministero della natura. È la forza della modernità, ma anche la sua debolezza.

Quella che ci fa passare improvvisamente dall'euforia tecnologica alla percezione della nostra fragilità. Abbiamo spesso la presunzione di dettar legge alla natura, di leggere i suoi misteri come un libro aperto, addirittura di poter essere noi a salvare lei, ma basta il colpo di tosse di un vulcano che brucia in un lampo duecento milioni di euro per ridimensionare le nostre ambizioni. E restituirci un po' di senso della misura.

Così i giorni della cenere hanno messo in crisi la civiltà
di Marino Niola - 22/04/2010

Fonte: La Repubblica