martedì 21 agosto 2012

i banchieri-gangster restano impuniti

Molto bello questo articolo di Federico Rampini su queste associazioni a delinquere capitanate da gangster..

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«Gli scandali bancari hanno distrutto la fiducia del pubblico, ricostruirla sarà una sfida», commenta amaro il capo della vigilanza sulla City di Londra, Lord Turner. L’Economist ha coniato un neologismo, “banksters”, facendo la fusione banchiere e gangster. Il New York Times sentenzia: «I banchieri non sentono né il vincolo della legge né quello della morale».


Non vi sembra di rileggere i titoli del 2008, l’anno del crac sistemico originato dai mutui subprime? Invece sono cronache di questi giorni. Imperterriti, impuniti, i banchieri colpiscono ancora. GOLDMAN SACHS era finita sotto inchiesta per frode da parte del Dipartimento di giustizia americano per aver venduto titoli legati ai subprime e al tempo stesso aver scommesso con dei derivati sul loro fallimento. Un guadagno da più di un miliardo di dollari. Ma ieri gli investigatori hanno rinunciato al processo penale. Come se nulla fosse accaduto, la finanza cattiva è più forte che mai. L’ultima: STANDARD CHATERED, gloriosa banca britannica molto radicata sui mercati asiatici, è stata colta in flagrante complicità con l’Iran. Calpestando le sanzioni, ha nascosto 60.000 operazioni per un valore di 250 miliardi di dollari con il regime di Teheran. Il mese scorso era stata la sua consorella Hsbc a confessare: riciclaggio di denaro sporco dei narcotrafficanti, e ripetute violazioni delle leggi bancarie americane. E’ ancora fresca la vicenda della JP MORGAN CHASE, un buco di bilancio da 5,8 miliardi di dollari per speculazioni azzardate (e possibilmente illecite) sui derivati. Nel suo piccolo anche l’Italia si affaccia nell’elenco: vedi il caso dell’amministratore delegato di MEDIOBANCA, Alberto Nagel, indagato per ostacolo all’autorità di vigilanza nel pasticcio Ligresti-Fonsai.
Ma perfino questi scandali recenti impallidiscono di fronte alla “madre di tutte le truffe”, la vicenda del TASSO LIBOR. Una frode così gigantesca, operata con tale spavalderia e arroganza, che perfino il capo supremo della banca più coinvolta, il dimissionario Robert Diamond di BARCLAYS, ha dovuto ammettere di sentirsi «nauseato, fisicamente sconvolto» di fronte alle email che i suoi trader si scambiavano nel corso della maxitruffa. Lo scandalo del Libor sembra aver superato ogni limite. In confronto appaiono quasi veniali la vicenda dei mutui tossici che provocò il tracollo globale del 2008, o le frodi sui rating delle grandi agenzie S&P e Moody’s. Come spiega Gary Gensler, presidente di una delle authority di vigilanza sui mercati finanziari americani (la Commodity Futures Trading Commission), la manipolazione illegale del Libor «mette in discussione l’affidabilità di un tasso-chiave, un tasso che determina i rendimenti per i risparmiatori che cercano di assicurarsi un futuro, o i costi dei mutui per la casa». Accertare che veniva truccato il Libor, è come scoprire che qualcuno ha il potere di modificare la misurazione delle ore, o della temperatura, a fini di lucro. Se è così, non possiamo più essere certi di nulla.
COS’È il LIBOR ESATTAMENTE? L’acronimo sta per London Interbank Offered Rate. E’ il più importante e universale di tutti i tassi d’interesse interbancari, una sorta di “termometro centrale” della finanza, da cui ne dipendono tanti altri che toccano la nostra vita quotidiana. Ogni mattina prima delle ore 11 di Londra, i dirigenti di 19 banche globali si coordinano per annunciare il “minor tasso di mercato” quale viene misurato in quella giornata. Sulla base di quel tasso le banche si regolano per farsi credito l’una con l’altra. A cascata, dal Libor dipendono i tassi sui prestiti ai consumatori, sul credito rateale per l’acquisto di automobili, sui mutui per la casa, sui fidi bancari alle imprese. Il Libor influenza in cento modi i bilanci dei fondi pensione, perfino delle finanze pubbliche. Solo di recente la Barclays ha ammesso di avere sistematicamente truccato quel tasso “ufficiale” per almeno quattro anni consecutivi, dal 2005 al 2009. Lo ha fatto per interesse privato. Per ora ci ha rimesso la poltrona il suo chief executive Diamond, e la Barclays ha patteggiato il pagamento di 453 milioni di dollari di multe, ma presumibilmente questa vicenda è solo agli inizi. Si sospettano collusioni nelle AUTHORITY DI VIGILANZA, le accuse rimbalzano tra New York e Londra. Già ora è chiaro che la Barclays non può avere agito da sola. Tra le banche sospettate di essere le sue complici nel “cartello” (definìzione della Commissione Ue), sono sotto indagine Citigroup, JP Morgan Chase e Hsbc. L’economista John Stodder Jr. le descrive come «istituzioni un tempo rispettate, oggi infettate dall’avidità, che hanno sovvertito il capitalismo e rapinato i pensionati». Gli Stati della California, New York, Florida, Connecticut e Maryland sono pronti a costituirsi parte civile per i danni subiti nei loro bilanci. Si unirà a loro il CALPERS, il più grande fondo pensione del mondo, che eroga gli assegni previdenziali per gli statali della California: anch’essi derubati dal “cartello” del Libor.
Ma processi e maximulte servono a qualcosa? L’interrogativo è legittimo, a quattro anni dalla «madre di tutte le crisi finanziarie»: era ragionevole pensare che il disastro del 2008 provocato dalla finanza tossica avrebbe vaccinato il sistema bancario dai comportamenti più distruttivi. Non è andata affatto così. La truffa del Libor, come si vede dalla sua cronologia, si è prolungata anche nel 2009 cioè dopo che le maggiori banche occidentali erano finite sotto tutela statale, assorbendo ingenti risorse pubbliche per i loro salvataggi. Erano istituti di credito semi-nazionalizzati, salvati dalla bancarotta con i soldi dei contribuenti, e continuavano a rubare. Com’è possibile? Dov’è l’origine profonda di un degrado così diffuso, così pervasivo, così incurabile? Una risposta la fornisce l’analisi delle ultime sanzioni somministrate in America contro le aziende colpevoli di frode ai danni dello Stato. Magistratura e organi di controllo colpiscono con velocità e con severità negli Stati Uniti, eppure non basta. Dall’inizio di quest’anno siamo già a quota 8 miliardi di dollari di multe, più del doppio di tutte le multe del 2011 (nell’aggregato non ci sono solo le banche ma tutte le imprese sanzionate, incluse le aziende farmaceutiche e petrolifere). A seguire l’escalation degli scandali, sorge il dubbio che le sanzioni non siano un deterrente efficace. Forse perché colpiscono le società, ma non i loro capi. Lo dice apertamente il senatore Jack Reed, democratico del Rhode Island: «Il cittadino si chiede com’è possibile che tante imprese commettano reati gravi, e tuttavia nessuno dei dirigenti viene colpito individualmente». In realtà non è proprio così: la sola authority di Borsa, la Securities and Exchange Commission (Sec), ha perseguito 55 top manager con 2,2 miliardi di multe. E’ vero però che nella maggioranza dei casi la giustizia è impersonale, incrimina l’azienda anziché i suoi capi, i quali pur dimissionati a volte si ritirano con “paracadute d’oro”, bonus e superpensione. La spiegazione va cercata nel tradizionale pragmatismo dei sistemi giudiziari anglosassoni, in particolare quello americano, che preferisce “andare a caccia delle tasche più capienti” (“go after deep pockets”), cioè puntare dritto verso le finanze aziendali dove si possono estrarre le multe più pesanti. Questo realismo, che bada al sodo e vuole massimizzare l’incasso di multe per lo Stato, ha un effetto collaterale perverso. Le grandi società per azioni spalmano le multe nei loro bilanci, scaricandole sugli azionisti e in ultima istanza sui clienti attraverso aumenti di prezzi, tariffe, commissioni e interessi. Per il top manager dunque non c’è un disincentivo sufficiente. Un responsabile della vigilanza bancaria Usa di recente ha confessato al New York Times: «I banchieri oggi mi sembrano perfino più prepotenti di quanto fossero prima della crisi». L’impunità individuale alimenta l’arroganza. Lord Turner arriva a conclusioni analoghe: «La dimensione dell’attività finanziaria è aumentata, il suo peso sull’economia è sempre più largo, di conseguenza i potenziali benefici dalle frodi sono ancora maggiori».
Il crimine paga, se a rapinare la banca è il banchiere stesso. La metastasi è così grave e pervasiva, da provocare un clamoroso ravvedimento in uno dei più grandi banchieri d’America. Il caso del “banchiere pentito” è quello di Sanford Weill, colui che negli anni Novanta guidò la folle corsa verso il gigantismo della finanza. Weill fu l’artefice della fusione tra Citibank e Travelers, da cui nacque il colosso Citigroup. Ebbe un’influenza politica notevole, ispirando la “convergenza bipartisan” verso la deregulation finanziaria. Fu uno degli attori-chiave nell’iter della legge Gramm-Leach-Biley del 1999, che con il voto repubblicano e democratico, e la firma dell’allora presidente Bill Clinton, accelerò fusioni e acquisizioni. Quella legge segnava la fine della regola sacra contro la “mescolanza dei mestieri”, applicata dopo il crac di Wall Street del 1929. La storica legge Glass-Stegall del 1933, approvata per volere di Franklin Roosevelt nella Grande Depressione, vietava alle banche che raccolgono depositi dei risparmiatori, di usarli per investimenti speculativi o per acquisire partecipazioni azionarie. Era una sana divisione dei rischi, andata in frantumi nel 1999 sotto i colpi del pensiero unico neoliberista. Oggi Weill fa autocritica. «Dobbiamo tornare a separare i banchieri d’investimento dalle banche di deposito», ammette l’ex fondatore di Citigroup. Prima di lui, lo va dicendo da quattro anni Paul Volcker, il grande saggio della finanza, che fu presidente della Federal Reserve. Volcker nel 2008 era uno dei consiglieri più ascoltati da Barack Obama. Poi il presidente dovette prendere le distanze dai suoi suggerimenti troppo radicali. Non sarebbero mai passati al Congresso, davanti allo sbarramento delle lobby bancarie.
Il che ci riporta all’origine stessa della crisi, la rottura degli equilibri fra oligarchie finanziarie e governi. Sicuri della loro impunità, i banchieri hanno “investito” nella politica e ne sono diventati spesso i padroni, o almeno dei robusti azionisti con potere di veto. Senza aggredire il loro potere, e possibilmente smembrare le basi stesse del loro “perimetro aziendale”, la lista degli scandali è destinata ad allungarsi, insieme al bilancio dei danni sociali e collettivi.

di Federico Rampini - Repubblica   11 agosto 2012