Tra le rubriche de "la repubblica delle donne" al momento attuale quella di Giacomo Papi è la mia preferita, seguite a ruota da quelle di Vittorio Zucconi, Giampaolo Visetti, Federico Rampini.
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L'dentità fissa
Siamo
tutti di fronte, a molte vite possibili. Per questo averne una sola
sembra una limitazione
Molti
studiosi si sono sforzati di spiegare l'ultimo misterioso
haiku del poeta Junichiro Kawasaki: «Senza rimpianti è la mela, non
sa di non essere pesca». Fu scritto la mattina del 3 novembre
1996, poco prima che il vecchio poeta e sua moglie assumessero
la dose di arsenico che li avrebbe ammazzati. Kawasaki parlava
di sé, parlava di loro, parlava di noi con la voce di chi guarda la
vita dal ciglio.
La
parabola mi è tornata alla mente leggendo di Bronnie Ware,
l'infermiera australiana trapiantata a Londra che ha raccolto i
rimpianti dei malati terminali che ha assistito e li ha pubblicati
in un libro di successo: The top five regrets ofthe dying. "
I
cinque rimpianti di chi sta per morire" sono:
non avere
vissuto secondo le proprie inclinazioni, ma secondo le aspettative
degli altri (1);
avere lavorato troppo (2),
non avere avuto il
coraggio di esprimere
i propri sentimenti alle persone care (3);
avere perso di vista gli
amici (4);
non essersi permessi di essere felici (5).
È
una la lista che sulle prime può avere effetti devastanti perché ti
costringe a guardare la tua esistenza da fuori, tutta
insieme, e a trarre un bilancio in corsa, probabilmente
catastrofico. La tentazione è precipitarsi a dare le dimissioni
o abbandonare figli e marito per coronare il sogno, mai inseguito
davvero, di diventare cantante. La verità è che i rimpianti
sono sempre originati dalla vita e non viceversa. Sono la metà
mancante di quello che siamo. Se l'indagine fosse fatta tra
ergastolani, tossici e rockstar maledette in punto di morte si
otterrebbero risposte contrarie: non avere dato retta ai
consigli, avere lavorato poco, avere sovrastimato sentimenti, amici e
felicità.
Ma
la storia personale di ognuno si incrocia sempre alla storia
profonda degli uomini. Un contadino lucano del 1700, un
gladiatore romano, una cortigiana assira difficilmente si sarebbero
dispiaciuti di non avere avuto la vita che volevano. Una Storia
universale dei rimpianti racconterebbe, forse, che In punto di
morte gli antichi provavano rimorsi più pratici, legati a episodi
specifici, per comportamenti sbagliati o occasioni perdute.
Non rimpiangevano altre vite per la semplice ragione che non
potevano neppure immaginarle.
Il
nodo da cui scaturisce la nostra idea di felicità si annida qui.
Oggi, è doloroso il peso delle strade non imboccate, delle
scelte non fatte, delle vite che non abbiamo vissuto perché il
Novecento è fondato sulla vastità della scelta. È questa la sua
invenzione più immensa. Ogni uomo è libero di diventare
quello che è davvero. E allora perché gli scaffali delle
nostre vite non sono stipati come quelli dei supermarket?
La
teoria del Multiverso - gli infiniti universi paralleli della
meccanica quantistica - è la traduzione scientifica di questa
fantasmagoria culturale ed economica. Per millenni, poi, si
avevano poche esistenze-modello, oggi ognuno è sottoposto a un
bombardamento di vite possibili. Di eroi e vite imitabili. Avere
un'unica vita appare una limitazione.
L'armonia
di urta vita e la sua eleganza risiedono, invece, nell'adesione
perfetta a se stessi, nell'accettare quell'irripetibile
agglomerato carico óì memoria e confinato nello spazio e nel
tempo in cui consiste la nostra identità. In fondo, è la storia
narrata da Martin Buber di rabbi Sussja che in punto di morte,
esclamò: «Dio non mi chiederà perché non sono stato Mosè,
ma perché non sono stato Sussja». Ed è la storia della mela
d'autunno di Junichiro Kawasaki. Che cade senza rimpianti perché il
desiderio di un'esistenza da pesca non l'ha mai neppure
sfiorata. La difficoltà, a volte, è sapere che frutto si è.
Giacomo
Papi, Repubblica delle donne, 25 febbraio 2012
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