lunedì 27 febbraio 2012

L'identità fissa


Tra le rubriche de "la repubblica delle donne" al momento attuale quella di Giacomo Papi è la mia preferita, seguite a ruota da quelle di Vittorio Zucconi, Giampaolo Visetti, Federico Rampini.
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L'dentità fissa
Siamo tutti di fronte, a molte vite possibili. Per questo averne una sola sembra una limitazione

Molti studiosi si sono sforzati di spie­gare l'ultimo misterioso haiku del poeta Junichiro Kawasaki: «Senza rimpianti è la mela, non sa di non es­sere pesca». Fu scritto la mattina del 3 novembre 1996, poco prima che il vecchio poeta e sua moglie assu­messero la dose di arsenico che li avrebbe ammazzati. Kawasaki parla­va di sé, parlava di loro, parlava di noi con la voce di chi guarda la vita dal ciglio.

La parabola mi è tornata alla mente leggendo di Bronnie Ware, l'infermie­ra australiana trapiantata a Londra che ha raccolto i rimpianti dei malati terminali che ha assistito e li ha pub­blicati in un libro di successo: The top five regrets ofthe dying. "
I cinque rimpianti di chi sta per morire" sono:
 non avere vissuto secondo le proprie inclinazioni, ma secondo le aspettati­ve degli altri (1); 
avere lavorato trop­po (2),
non avere avuto il coraggio di esprimere i propri sentimenti alle persone care (3); 
avere perso di vista gli amici (4); 
non essersi permessi di essere felici (5).
È una la lista che sulle prime può avere effetti devastanti perché ti co­stringe a guardare la tua esistenza da fuori, tutta insieme, e a trarre un bilan­cio in corsa, probabilmente catastrofi­co. La tentazione è precipitarsi a dare le dimissioni o abbandonare figli e marito per coronare il sogno, mai inseguito davvero, di diventare cantan­te. La verità è che i rimpianti sono sempre originati dalla vita e non vice­versa. Sono la metà mancante di quello che siamo. Se l'indagine fosse fatta tra ergastolani, tossici e rockstar maledette in punto di morte si otter­rebbero risposte contrarie: non avere dato retta ai consigli, avere lavorato poco, avere sovrastimato sentimenti, amici e felicità.
Ma la storia personale di ognuno si in­crocia sempre alla storia profonda de­gli uomini. Un contadino lucano del 1700, un gladiatore romano, una cortigiana assira difficilmente si sa­rebbero dispiaciuti di non avere avu­to la vita che volevano. Una Storia universale dei rimpianti raccontereb­be, forse, che In punto di morte gli antichi provavano rimorsi più pratici, legati a episodi specifici, per com­portamenti sbagliati o occasioni per­dute. Non rimpiangevano altre vite per la semplice ragione che non po­tevano neppure immaginarle.
Il nodo da cui scaturisce la nostra idea di felicità si annida qui. Oggi, è doloroso il peso delle strade non im­boccate, delle scelte non fatte, delle vite che non abbiamo vissuto perché il Novecento è fondato sulla vastità della scelta. È questa la sua inven­zione più immensa. Ogni uomo è li­bero di diventare quello che è davve­ro. E allora perché gli scaffali delle nostre vite non sono stipati come quelli dei supermarket?
La teoria del Multiverso - gli infiniti universi paral­leli della meccanica quantistica - è la traduzione scientifica di questa fantasmagoria culturale ed economi­ca. Per millenni, poi, si avevano po­che esistenze-modello, oggi ognuno è sottoposto a un bombardamento di vite possibili. Di eroi e vite imitabili. Avere un'unica vita appare una limi­tazione.
L'armonia di urta vita e la sua eleganza risiedono, invece, nell'adesione perfet­ta a se stessi, nell'accettare quell'irripe­tibile agglomerato carico óì memoria e confinato nello spazio e nel tempo in cui consiste la nostra identità. In fondo, è la storia narrata da Martin Buber di rabbi Sussja che in punto di morte, escla­mò: «Dio non mi chiederà perché non sono stato Mosè, ma perché non sono stato Sussja». Ed è la storia della mela d'autunno di Junichiro Kawasaki. Che cade senza rimpianti perché il deside­rio di un'esistenza da pesca non l'ha mai neppure sfiorata. La difficoltà, a volte, è sapere che frutto si è.
Giacomo Papi, Repubblica delle donne, 25 febbraio 2012

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