sabato 18 febbraio 2012

E decrebbero felici e contenti

Sommando il debito pubblico ai debiti delle famiglie e delle imprese, in tutti i paesi industrializzati l’indebitamento complessivo supera il 200 per cento del prodotto interno lordo. Perché? A partire da questa domanda cruciale, che tuttavia nessuno ha mai posto, si sviluppano i contributi all’analisi della crisi in corso e le proposte per ridurne le conseguenze devastanti, riuniti nel volume collettivo Crisi economica, debiti pubblici e decrescita felice, pubblicato dalle Edizioni per la decrescita felice, a giorni in libreria.

L’indebitamento complessivo dei paesi industrializzati, rispondono gli autori del volume, è necessario per assorbire la produzione crescente di merci che altrimenti rimarrebbero invendute. In altre parole la crescita della domanda, che pure è stata costante, non è in grado di assorbire la crescita dell’offerta perché la concorrenza internazionale impone alle aziende di investire continuamente in innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività, che consentono cioè di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di occupati.

Ma se si riduce il numero degli occupati, si riduce il numero delle persone provviste di reddito, per cui la crescita del debito è diventata indispensabile per sostenere la domanda. Il meccanismo della crescita e l’incremento della competitività sono la causa della crisi in corso. Tutti i tentativi di rilanciare la crescita e di incrementare la produttività non solo non possono consentire di superare la crisi, ma se riuscissero, contribuirebbero ad aggravarla. Questa crisi, si sostiene nel libro, non è una crisi congiunturale, ma una crisi di sistema che gli strumenti tradizionali della politica economica non sono in grado di affrontare perché se si vuole rilanciare la crescita, come viene ripetuto con la ripetitività di un mantra, non si possono non aumentare i debiti pubblici; se si vuole ridurre il debito pubblico si deprime la domanda e la crisi si aggrava. Ciò che occorre è trovare il denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici.

Questo denaro si può ricavare soltanto dalla riduzione degli sprechi, ovvero dallo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si usano le materie prime, in particolare l’energia, e a recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi, che del tutto impropriamente vengono definiti rifiuti. In altre parole occorre uscire dalla logica quantitativa nella valutazione della produzione e utilizzare criteri di valutazione qualitativi. Non proporsi di produrre di più, ma di produrre quello che serve. Per esempio, il nostro patrimonio edilizio consuma mediamente per il riscaldamento invernale il triplo dell’energia delle meno efficienti case tedesche, 200 kilowattora al metro quadrato all’anno invece di 70, e dieci volte di più delle più efficienti, che si fermano a 15.

Nella (in) cultura della crescita si diceva “quando tira l’edilizia, tutta l’economia gira”. Oggi si può pensare di uscire dalla crisi costruendo altre case, quando l’eccesso di offerta incrementa in continuazione l’invenduto? L’unica strada per rilanciare l’edilizia è la ristrutturazione energetica delle case esistenti. Se il consumo delle case scendesse dei due terzi si risparmierebbe il denaro necessario a pagare gli investimenti e ad accrescere l’occupazione senza accrescere i debiti pubblici. Ma se i consumi energetici delle nostre case si riducessero dei due terzi diminuirebbero da subito le emissioni di anidride carbonica e, una volta ammortizzati gli investimenti con la riduzione degli sprechi, diminuirebbe anche il prodotto interno lordo. Un’efficiente raccolta differenziata, finalizzata al recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, consentirebbe di risparmiare le enormi somme di denaro che vengono spese per seppellirli sotto terra o per distruggerli bruciandoli, e con il denaro risparmiato si possono sostenere i costi d’investimento e l’occupazione necessari a organizzare un’efficiente raccolta differenziata e le industrie del riciclaggio. Ma se si riutilizzano le materie prime contenute negli oggetti dismessi diminuirebbe da subito il consumo di materie prime e, una volta ammortizzati gli investimenti, diminuirebbe il prodotto interno lordo.

Per superare la crisi senza accrescere i debiti pubblici, sostengono gli autori del libro, occorre sviluppare un pensiero più evoluto di quello che si limita a perseguire la crescita della produzione in quanto tale e la crescita dell’occupazione in quanto tale. Bisogna creare occupazione in lavori utili e la cosa più utile da fare in questa crisi, che è contemporaneamente economica ed ecologica, è ridurre il consumo delle risorse e le emissioni inquinanti sviluppando le innovazioni tecnologiche che ci consentono di stare meglio riducendo i consumi inutili, perché questo è l’unico modo di recuperare il denaro necessario allo sviluppo di quelle innovazioni. Less and better.

di Maurizio Pallante

Il Fatto Quotidiano, 17 Febbraio 2012