giovedì 16 febbraio 2012

Inquinamento e morte dietro un jeans stinto

Una diffusa rivista di moda ha messo recentemente in copertina la foto di una modella che indossava una pelliccia, suscitando le giuste ire degli animalisti che hanno inviato alla direttrice valanghe di rimproveri, insulti e minacce, il WWF fin dagli anni 60 si è schierato contro l'uso di pellicce, soprattutto quelle di animali selvatici predatori o maculati. Ricordo ancora un volantino, che raffigurava un ghepardo con lo slogan «Tu spogli la natura per vestirti», che i miei bambini, raccogliendo insulti e occhiatacce, distribuivano in via Condotti alle signore che indossavano questi indumenti.
Quello che mi stupisce è che la protesta contro le pellicce non si estenda anche a quei blue jeans consunti artificialmente con tecniche di sabbiatura, definite sandblasting, oggi diffusissimi e indossati con disinvoltura meglio se massacrati con orrendi tagli e sdruciture.
lo ho sempre odiato questi pantaloni, simbolo di un'omologazione beota, non comodi, non eleganti ma amatissimi da tutti, dai capitani d'industria all'ultimo scippatore. Ma l'odio mi si è acuito venendo a sapere che, oltre ad inquinare i fiumi con il lavaggio con la varechina, la pomice e con altri modaioli sistemi, la tecnica di logoramento mediante getti di sabbia silicea causa la morte di centinaia se non migliaia di operai, anche ragazzini di 13/14 anni, condannati a morte inesorabile dalla silicosi, soprattutto in Turchia e Indonesia. Mi chiedo se i baldi giovanotti e le simpatiche ragazze che fingono una vita da cow boy o da pioniere del West senza allontanarsi da casa, solo grazie ai pantaloni artificialmente usurati, si rendano conto di quali sofferenze i loro calzoni siano responsabili e favoriscano almeno quelle marche che garantiscono produzioni più responsabili.

Fulco Pratesi, Panda wwf, dicembre 2011