mercoledì 7 gennaio 2009

Israele - palestinesi: la posta in gioco

Nel mese di ottobre/novembre (devo trovare l'articolo) qualcuno scrisse che Israele avrebbe attaccato , tra dicembre e fine gennaio, l'Iran per difendere la sua sopravvivenza.
Oggi Sandro Viola ribadisce il problema, e penso sia forse l'unico che parla chiaro in questa tragica vicenda.
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La posta in gioco

Tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra le stanze del governo e quelle dello Stato Maggiore, cinque israeliani stanno vivendo coi cuore in gola. Ilprimo ministro dimissionario Ehud Olmert, il ministro della Difesa Ehud Barak, il ministro degli Esteri Tzipi Livni, il capo di Stato maggiore Gabi Ashkenazi e il capo dello Shin Bet (i servizi di sicurezza interna) Yu-val Diskin.
La loro ansia scaturisce dal conoscere più di chiunque altro qual è la posta che Israele ha messo in gioco con la guerra di Gaza. E la posta in gioco, in questo undecimo giorno dell'attacco contro gli islamisti di Hamas, è presto detta: o adesso o mai più. O Israele ristabilisce con la guerra di Gaza il suo potere di deterrenza, la capacità di tenere alla larga con la sua forza bellica i nemici, oppure lo Stato ebraico apparirà tutt'intorno come poco più d'una tigre di carta, un'ex potenza incapace di vere, temibili reazioni. E in questo secondo caso, la stessa sopravvivenza d'Israele come Stato degli ebrei si farebbe problematica.
È vero, ciascuno di quei cinque israeliani sta giocando anche una partita personale. Uno, Olmert, vorrebbe infatti uscire di scena, dopo le elezioni di febbraio, avendo restaurato la sua immagine di fallimentare regista della Seconda guerra libanese e di imputato per corruzione nei tribunali del paese. Due, Barak e laLivni, hanno bisogno d'una vittoria a Gaza per portare i loro due partiti politici, il Labor e Kadima, a formare il nuovo governo dopo le elezioni di febbraio, evitando così un ritorno della destra di Benjamin Netanyahu. Mentre i capi dello stato Maggiore e dello Shin Bet sperano che la sconfitta di Hamas apra loro le porte d'una rapida e brillante carriera politica, com'è accaduto altre volte a rappresentanti dell'establishment militare israeliano.
Inutile dire che le intenzioni riposte dei cinque stanno producendo non pochi contrasti sulla conduzione e la durata della guerra, tali che la stampa israeliana invoca da giorni, prima ancora che un cessate il fuoco a Gaza, un cessate il fuoco all'interno del governo.
Ma benché odiosamente angusti dinanzi alla drammaticità della guerra e alla caterva di vittime innocenti che l'aviazione e i blindati israeliani hanno già lasciato sul terreno, i calcoli personali dei governanti non sono stati il vero pungolo, la motivazione essenziale dell'attacco su Gaza. La scelta di sferrare l'attacco è infatti emersa dal ragionamento sopra descritto. Vale a dire: o Israele (su cui piovevano quotidianamente i Qassam e
i Grad di Hamas) reagiva, dimostrando così d'essere ancoroggi temibile come in passato, capace di rappresaglie devastanti, o i razzi di Hamas si sarebbero sempre più moltiplicati, e ad essi si sarebbero presto o tardi aggiunti dal nord i missili che l'Iran fornisce alle artiglierie di Hezbollah.
Né si poteva rinviare l'attacco: la campagna elettorale, le elezioni, e poi la faticosa, turbolenta gestazione politica che in Israele rende sempre lentissimo il varo d'un nuovo governo, avrebbero preso almeno tre mesi. Novanta-cento giorni di razzi sul Negev, grida di vittoria della leaderhip di Hamas, sfiducia e sconforto nella società israeliana. Mentre aprendo l'offensiva alla fine dello scorso dicembre, il governo d'Israele sapeva che per almeno tre settimane avrebbe avuto a fianco il presidente degli Stati Uniti George Bush e la sua amministrazione. Un sostegno indispensabile nella crisi politica che l'attacco avrebbe generato.
Lasciamo da parte i giudizi sull'agghiacciante sproporzione dell'offensiva israeliana su Gaza rispetto alle vittime e ai danni prodotti nelle città del Negev dai razzi di Hamas. E rinviamo per ora anche il giudizio sulle responsabilità dei governi d'Israele per non aver mai voluto veramente restituire ai palestinesi quel che la giustizia imponeva che fosse restituito ai palestinesi. Sono questioni fondamentali, ma conviene metterle da parte per rendere più chiara possibile la descrizione del momento politico che sta vivendo lo Stato degli ebrei.
Dopo dieci giorni di raid aerei e quattro di combattimenti a terra, gli esiti della partita che si sta giocando a Gaza restano ancora molto incerti. Ad una formazione nazional-religiosa come Hamas basta infatti sopravvivere all'attacco israeliano, sia pure con la leadership decimata e i depositi degli armamenti semivuoti, per poter vantare la vittoria. Così, se al termine della guerra, quando verrà infine imposto un cessate il fuoco, Hamas riuscirà a dimostrare con un'ultima salva di razzi sulle città israeliane, come fecero gli Hezbollah nel 2006, che ha resistito al più potente esercito della regione (mentre l'odio della popolazione palestinese nei confronti d'Israele si sarà in tanti ancor più esasperato a causa del mare di lutti subiti in questi giorni), la guerra di Gaza sarà stata inutile. Sarà stata più o meno lo stesso fallimento della Seconda guerra in Libano, solo che stavolta la mancanza d'una vittoria indiscutibile apparirà come un colpo decisivo alla capacità di deterrenza delle forze armate israeliane. Ogni attesa che i fondamentalisti di Gaza alzino davvero e definitivamente bandiera bianca, è quindi, per ora, soltanto teorica.
I mediatori potranno congegnare, certo, una tregua in termini più favorevoli per Israele, ma Hamas cercherà di violarla il prima possibile riportando la situazione al punto di partenza: i loro razzi sul Negev, e ogni tanto le bombe israeliane su Gaza. Né si possono avere illusioni su unarivolta della popolazione che espella da Gaza i capi dei fondamentalisti. Con le sue organizzazioni assistenziali, ospedaliere e scolastiche, Hamas è così fortemente radicata nella Striscia da rendere ormai pressoché impossibile ogni tentativo d'estirparla.
Il solo esito favorevole che Israele può perciò attendersi, è che il suo esercito riesca a frantumare, se non interamente, i due terzi o quattro quinti del potenziale bellico di Hamas. L'esercito è oggi meglio preparato che nel 2006 in Libano, e i piani dello Stato maggiore sono parsi sino adesso più lucidi e adeguati d'allora. Così, se i colpi subiti costringessero Hamas ad una lunga tregua, se il panorama di rovine cui oggi è ridotta Gaza inducesse la sua leadership a non provocare un nuovo bagno di sangue, se l'arrivo di osservatori internazionali bloccasse l'ingresso di nuove armi dall'Egitto, Israele uscirebbe dalla vicenda con la sua capacità di deterrenza rimessa a nuovo. Lo capirebbero Hezbollah, i siriani, Ahmadinejad, e subentrerebbe una fase di calma in cui riavviare il negoziato. Che stavolta dovrebbe essere rapido, mediato dalla nuova presidenza americana con spirito equanime rispetto ai contendenti, e includere - in forme da decidere - anche i capi meno estremisti di Hamas.
Ma se questo non avverrà, i vertici politico-militari israeliani dovranno guardare ad un altro obbiettivo che consenta di dimostrare, fosse pure con rischi altissimi, che Israele è ancora la massima potenza militare del Medio Oriente. Per esempio, le centrali nucleari iraniane. Perché se Israele non incute timore ai suoi nemici (molti dei quali emersi dagli errori dei suoi governi), la sua stessa sopravvivenza in Palestina sarà, come s'è detto, in discussione.
di Sandro Viola, la Repubblica, mercoledi 7 gennaio 2009