USA, LA RIVOLTA DEGLI AZIONISTI CONTRO L'INGORDIGIA DEI TOP MANAGER
Il caso più recente si è verificato
nel gruppo Chesapeake Energy, che non è un nome noto agli italiani
ma è il secondo maggior produttore di gas naturale degli Stati
Uniti. Il suo chief executive (e fondatore) Aubrey McClendon si è
visto togliere improvvisamente un fringe benefit: il diritto di
prelazione per entrare come azionista nei giacimenti in cui la stessa
azienda fa degli investimenti.
Si era scoperto che non solo il chief
executive approfittava di questo privilegio, ma in più lo usava come
un "bene" da dare in garanzia alle banche per ottenere dei
prestiti. Fin qui, si tratta di un altro caso di ingordigia dei top
manager, e di esorbitante generosità di un' azienda nei confronti
del suo amministratore delegato. Ma ciò che rende poco banale il
caso Chesapeake, è che la cessazione di quella clausola nel
contratto del chief executive è stata imposta da una rivolta degli
azionisti.
In effetti il tema delle diseguaglianze, degli
eccessi retributivi a vantaggio di una ristretta oligarchia, si è
diffuso dagli slogan della protesta fino alle assemblee degli
azionisti a Wall Street. Il merito è anche dell' Amministrazione
Obama, e della sua riforma delle regole della finanza, la cosiddetta
legge DoddFrank. Quest' ultima infatti impone l' obbligo di
consultare gli azionisti sulle politiche retributive nei confronti
del top management. Sembra incredibile ma è proprio così: prima che
il Congresso Usa varasse questa legge, frutto dei traumi provocati
dalla crisi del 2008, nessun consiglio d' amministrazione era tenuto
a consultare gli azionisti sugli stipendi dei grandi capi.
Non c' è
da stupirsi che le paghe e i bonus per i chief executive e le loro
cricche di collaboratori siano decollati verso la stratosfera: i
meccanismi di compensazione per molti anni sono stati squisitamente
autoreferenziali, avulsi da ogni legame con i risultati della
gestione. Ora, non è che la DoddFrank sia una rivoluzione; non
arriva a sancire che il parere degli azionisti sia vincolante. Però
diventa imbarazzante per il board ignorare una votazione come quella
degli azionisti di Citigroup. Tanto più che non si è trattato di
una rivolta "populista" animata da piccoli azionisti. I
capi della rivolta sono stati i fondi pensione che detengono grosse
quote azionarie: come Calpers che gestisce la previdenza statale
californiana e possiede 9,7 milioni di azioni Citigroup; e il fondo
pensione della Florida che ha 6,4 milioni di azioni.
Dopo la rivolta
di Citigroup ci sono stati altri due casi che hanno riguardato gruppi
bancari, sull' altra sponda dell' Atlantico: l' inglese Barclays e la
svizzera Credit Suisse. A differenza che negli Stati Uniti, nei due
casi europei solo una minoranza di azionisti ha bocciato gli stipendi
dei top manager: 27% alla Barclays e 30% al Credit Suisse. Ma la
sensazione è che il vento stia girando, e a poco a poco gli
azionisti siano decisi a riprendere il potere che gli spetta, contro
gli usurpatori che pretendono di governare le imprese senza alcuna
forma di controllo.
repubblica, 30 aprile 2012 — pagina 12 sezione: AFFARI FINANZA