venerdì 18 maggio 2012

Abbondanza senza crescita - 4bis - LA RIVOLTA DEGLI AZIONISTI CONTRO L'INGORDIGIA DEI TOP MANAGER


USA, LA RIVOLTA DEGLI AZIONISTI CONTRO L'INGORDIGIA DEI TOP MANAGER


Il caso più recente si è verificato nel gruppo Chesapeake Energy, che non è un nome noto agli italiani ma è il secondo maggior produttore di gas naturale degli Stati Uniti. Il suo chief executive (e fondatore) Aubrey McClendon si è visto togliere improvvisamente un fringe benefit: il diritto di prelazione per entrare come azionista nei giacimenti in cui la stessa azienda fa degli investimenti. 
Si era scoperto che non solo il chief executive approfittava di questo privilegio, ma in più lo usava come un "bene" da dare in garanzia alle banche per ottenere dei prestiti. Fin qui, si tratta di un altro caso di ingordigia dei top manager, e di esorbitante generosità di un' azienda nei confronti del suo amministratore delegato. Ma ciò che rende poco banale il caso Chesapeake, è che la cessazione di quella clausola nel contratto del chief executive è stata imposta da una rivolta degli azionisti. 
I segnali di questo tipo cominciano a moltiplicarsi. A dare il via era stato un voto degli azionisti di Citigroup il 16 aprile: a larga maggioranza, avevano bocciato una proposta di stipendio di 15 milioni di dollari per il numero uno del colosso bancario, Vikram Pandit. Quel voto del 16 aprile segna uno spartiacque: mai prima di allora nella storia delle banche di Wall Street c' era stato un vasto pronunciamento degli azionisti contro la proposta del consiglio d' amministrazione sulla paga del chief executive. La bocciatura è stata netta: il 55% degli azionisti ha detto di no. "E' la rivincita di Occupy Wall Street", hanno commentato alcuni.
In effetti il tema delle diseguaglianze, degli eccessi retributivi a vantaggio di una ristretta oligarchia, si è diffuso dagli slogan della protesta fino alle assemblee degli azionisti a Wall Street. Il merito è anche dell' Amministrazione Obama, e della sua riforma delle regole della finanza, la cosiddetta legge DoddFrank. Quest' ultima infatti impone l' obbligo di consultare gli azionisti sulle politiche retributive nei confronti del top management. Sembra incredibile ma è proprio così: prima che il Congresso Usa varasse questa legge, frutto dei traumi provocati dalla crisi del 2008, nessun consiglio d' amministrazione era tenuto a consultare gli azionisti sugli stipendi dei grandi capi.
 Non c' è da stupirsi che le paghe e i bonus per i chief executive e le loro cricche di collaboratori siano decollati verso la stratosfera: i meccanismi di compensazione per molti anni sono stati squisitamente autoreferenziali, avulsi da ogni legame con i risultati della gestione. Ora, non è che la DoddFrank sia una rivoluzione; non arriva a sancire che il parere degli azionisti sia vincolante. Però diventa imbarazzante per il board ignorare una votazione come quella degli azionisti di Citigroup. Tanto più che non si è trattato di una rivolta "populista" animata da piccoli azionisti. I capi della rivolta sono stati i fondi pensione che detengono grosse quote azionarie: come Calpers che gestisce la previdenza statale californiana e possiede 9,7 milioni di azioni Citigroup; e il fondo pensione della Florida che ha 6,4 milioni di azioni. 
Dopo la rivolta di Citigroup ci sono stati altri due casi che hanno riguardato gruppi bancari, sull' altra sponda dell' Atlantico: l' inglese Barclays e la svizzera Credit Suisse. A differenza che negli Stati Uniti, nei due casi europei solo una minoranza di azionisti ha bocciato gli stipendi dei top manager: 27% alla Barclays e 30% al Credit Suisse. Ma la sensazione è che il vento stia girando, e a poco a poco gli azionisti siano decisi a riprendere il potere che gli spetta, contro gli usurpatori che pretendono di governare le imprese senza alcuna forma di controllo. 

repubblica, 30 aprile 2012 —   pagina 12   sezione: AFFARI FINANZA